In Kenya le prime avvisaglie del virus Covid-19 sembravano provenire da molto lontano. Per prima cosa, l’epicentro dell’epidemia era distantissimo, in un angolo semisconosciuto del pianeta. O almeno è stato così finché non ci si è resi conto che per raggiungere Wuhan, in Cina, bastava un volo aereo. La realtà del Villaggio globale è diventata all’improvviso lampante quando abbiamo capito che da quella città bastava meno di un giorno di viaggio per raggiungere il Jomo Kenyatta International Airport, passare la dogana senza nessun controllo medico, prendere un taxi e, nel giro di mezz’ora, essere per le strade della città.
L’effetto peggiore è stato forse quello sulla vita sociale. All’improvviso non ci si poteva più incontrare la sera al pub a chiacchierare e commentare gli avvenimenti della giornata o il telegiornale delle sette. Questo momento dopo il lavoro è particolarmente importante per gli uomini del quartiere di Kangemi, dove abito io. Tanto per cominciare, quasi tutte le abitazioni sono monolocali dove il maschio urbano non ha il lusso di sedersi sul portico o sotto gli alberi del cortile al ritorno dal lavoro, privilegi di cui invece godono quelli che vivono all’interno del paese. La struttura circoscritta dei ghetti urbani costringe gli uomini a restare chiusi in casa con le famiglie, in quell’unica stanza, mentre il sole lentamente tramonta. La pressione esercitata da questa reclusione forzata in spazi angusti ha già cominciato a farsi sentire, a quanto posso giudicare dai commenti alla radio.
Man mano che il virus è andato lentamente impadronendosi dei notiziari serali è subentrato un senso di panico. Tutti si sono chiesti se i trasporti sarebbero stati interrotti, se nei mercati della zona si sarebbero ancora visti i camion che portano i cavoli e le verdure fresche dalla campagna. La sensazione di urgenza è aumentata all’annuncio del governo che i supermercati avrebbero cessato di funzionare normalmente e da quel momento l’ingresso sarebbe stato permesso solo a piccoli gruppi alla volta, per evitare gli assembramenti. Il mio supermercato di zona ha peggiorato le cose esponendo un cartello che annunciava l’imminente chiusura e invitava la clientela a fare scorte di cibo finché ce n’era la possibilità.
Le code alle casse si sono all’improvviso allungate, e la gente ha messo di corsa mano ai risparmi pur di ammassare farina di mais, zucchero, olio da cucina e altri generi di prima necessità. Nel giro di poche ore tutte queste cose stavano già sparendo dagli scaffali. Anche i negozi di cereali si sono rapidamente svuotati e i commercianti, sentendo crescere il panico, hanno cominciato ad alzare i prezzi per battere cassa, oppure ad accantonare le merci, subodorando che nel giro di poche settimane queste avrebbero iniziato a scarseggiare e le vendite avrebbero quindi generato maggiori profitti. Qualsiasi altro progetto è stato abbandonato e l’unica preoccupazione delle famiglie è diventata quella delle scorte alimentari. Il paese faceva scorte come per un lungo assedio dalla durata imprevedibile.

Io avevo preso a prestito alcuni libri dalla biblioteca e il prestito era scaduto, ma quando mi sono presentato per restituire i volumi la biblioteca era chiusa e all’ingresso le guardie mi hanno detto di non poter prendere nulla in consegna, perché serviva qualcuno del banco della distribuzione. Mi hanno consigliato di tenere i libri e di attendere la riapertura della biblioteca… una data che nessuno conosceva. Quella stessa sera al telegiornale il presidente della Corte suprema ha annunciato al paese la chiusura di tutti i tribunali: solo i casi più urgenti sarebbero stati dibattuti, in udienze speciali. Che cosa diavolo stava succedendo? Tutti si domandavano se adesso sarebbe toccato alle banche. E che cosa sarebbe successo in caso di arresto da parte della polizia? Si sarebbe rimasti a marcire in cella per l’eternità?
I furbetti del quartiere, invece, hanno subito messo a fuoco una cosa: se la polizia ti arresta per una lieve infrazione non può chiuderti in cella, perché non c’è la certezza che tu non abbia contratto il virus e lo porti dentro il commissariato, senza contare che dovrebbero sfamarti fino alla riapertura dei tribunali, cosa chiaramente impossibile. Per il momento, quindi, il meglio che i poliziotti potevano fare – soprattutto se l’interessato non allungava loro una bustarella – era assestarti un paio di schiaffi e farti circolare con un calcio nel sedere. Decisamente uno strano scenario. E dunque? Ci sarebbe stato un aumento della piccola criminalità nel quartiere?
Il timore di possibili reati è aumentato quando le aziende di Nairobi hanno chiesto ai dipendenti di lavorare da casa fino alla fine dell’emergenza, in alcuni casi dimezzando gli stipendi. Anche le piccole attività dove solitamente le persone si radunavano sono state obbligate a chiudere, creando dalla sera alla mattina milioni di disoccupati e sfaccendati. Che cosa avrebbe mangiato la gente a casa se non usciva a lavorare? Come ci si aspettava che pagassero l’affitto senza lavorare? E, ancora peggio, come avrebbero trascorso il tempo a casa?
Più ascoltavo le conversazioni intorno a me, più mi rendevo conto che forse la città non sarebbe stato il posto migliore dove trovarsi al momento della fatidica, incombente serrata totale. Mi conveniva lasciare la città finché potevo e raggiungere la famiglia nell’interno. La città, con i suoi quattro milioni di abitanti stipati in un’area ridotta, sarebbe stata un luogo fatale dove farsi trovare dall’esplosione del virus, che ci avrebbe decimati in un batter d’occhio. La campagna era molto più sicura.

Non ero l’unico a pensarla così. La stazione centrale degli autobus extraurbani, così come tutti gli uffici delle aziende private di pullman nella zona di River Road a Nairobi, erano strapiene di gente che tentava di accaparrarsi un biglietto per lasciare la città. Tutti cercavano di andarsene contemporaneamente. Sentivo parlare alcuni di questi abitanti di Nairobi che avevano casa nell’interno del paese: dicevano che se l’inevitabile doveva proprio succedere, era meglio morire tra la propria gente. Almeno un funerale decente era garantito, e ci si sarebbe risparmiati l’indecenza di essere gettati da una ruspa in una fossa comune quando i corpi avrebbero cominciato ad ammassarsi per le strade. Questo pensiero generava una certa consolazione: almeno una pagliuzza a cui aggrapparsi. E così anch’io ho cominciato a tentare affannosamente di lasciare la città.
Durante la prima settimana di lockdown ho sentito diverse donne chiamare in diretta la radio: erano felici che, con gli uomini costretti a casa, le cose andassero meglio. Una signora del Kenya occidentale diceva di essere contenta perché il marito avrebbe potuto conoscere meglio i bambini, dato che prima arrivava sempre a casa quando loro erano già a letto.
I comici della radio, invece (che sono una presenza fissa nei canali locali del Kenya) scherzavano su come gli uomini avrebbero impiegato il tempo forzatamente trascorso a casa. Una delle cose che ho sentito più spesso quando mi sintonizzavo era che si sarebbe fatto più sesso grazie a tutte le ore trascorse a casa senza far niente e al fatto che si andava a letto più presto. Uno dei possibili risultati di questa crisi, sempre che ne usciremo, sarà quindi un notevole aumento delle nascite.
Al pub del paese, che frequentavo prima del lockdown totale, ho sentito gli avventori per lo più maschi del locale dirsi preoccupati per quello che avrebbero fatto i figli adolescenti temporaneamente a casa senza far nulla. Temevano che avrebbero avuto più appuntamenti romantici e fatto più sesso, cose impraticabili se fossero stati impegnati con lo studio. Si temeva che alla riapertura delle scuole ci sarebbe stato un picco di gravidanze tra le adolescenti. Anche io, passeggiando per il paese, lo avevo notato: decisamente molte più uscite in coppia.

Ma forse l’effetto più sentito nei paesi e negli slum urbani è stato il divieto imposto alle funzioni religiose. In genere i keniani sono molto religiosi e la domenica è riservata al loro speciale appuntamento con Dio. Per la prima volta in vita mia non venivo svegliato dai ferventi tamburi della domenica mattina e dai soliti richiami del solista della chiesa che invitava le persone alla preghiera con un megafono di latta. Subito dopo uscendo dal cancello si sarebbero visti i paesani agghindati in ampie tuniche e zucchetti colorati per le chiese pentecostali africane, o in stiratissimi completi all’europea e vestiti bianchi per le chiese occidentali, ogni tanto un bocciolo di rosa o un garofano all’occhiello dei leader ecclesiastici più importanti. Ora avevo una sensazione strana e spaventosa insieme, che rendeva difficile distinguere la domenica da qualsiasi altro giorno.
I primi giorni nel mio quartiere, Kangemi, i fedeli sfidavano il divieto del governo sugli assembramenti in chiesa e invitavano i seguaci a presentarsi in massa nelle loro chiesette con pareti di latta e scarsa ventilazione. All’ingresso venivano strategicamente sistemate taniche di plastica e sapone, per lavarsi le mani prima di entrare tutti in fila in chiesa e levare alti suoni per Dio. L’ultima domenica che ho passato in città, durante una breve passeggiata nello slum, mi ha colpito la musica assordante che proveniva dagli altoparlanti montati all’esterno delle chiese, accompagnata da preghiere ferventi rivolte a Dio perché salvasse i parrocchiani da questa spaventosa nuova malattia. Mi è apparso chiaro che mai c’era stato tanto bisogno di Dio, perché tutti avevano paura di quello che li aspettava.

Per tutti membri delle congregazioni è stato dunque un colpo tremendo vedersi sottrarre anche questa ultima risorsa quando il governo ha decretato l’interruzione delle funzioni religiose.
Ma il peggio doveva ancora venire. Poco dopo è stata dichiarata illegale anche la partecipazione ai funerali. Nella maggior parte dei villaggi del Kenya i funerali svolgono una importantissima funzione sociale, perché spesso i parenti del defunto arrivano da cittadine lontane o persino dall’estero per raccogliersi intorno alla famiglia e portare un estremo saluto dignitoso. Forse è l’unico evento che ancora vede radunarsi parenti lontani, in particolare se è coinvolto un patriarca importante. E le persone non si incontrano solo per piangere il defunto, infatti si beve e si fa festa in abbondanza e spesso si uccide un toro (o più di uno, secondo il grado di ricchezza della famiglia) per dare da mangiare agli afflitti. Tutto a un tratto, anche questi sono stati vietati.
Un paio di pastori di mia conoscenza hanno cercato di sfidare il divieto e di portare avanti questo rito tanto radicato, ma la polizia ha fatto violentemente irruzione e ha disperso a frustate i partecipanti più recalcitranti. Nemmeno i sacerdoti sono stati risparmiati. Nel villaggio non si era mai visto.
Anche i bevitori hanno organizzato un minimo di resistenza, accettando di sgattaiolare nei pub dalle porte sul retro e di farsi chiudere dentro, pur di sorseggiare alcolici in un silenzio cospirativo, con le orecchie tese all’arrivo della polizia. Per essere ammessi dai proprietari dei locali era necessario un codice speciale, ma la cosa ha avuto comunque vita breve perché la polizia ha scovato ben presto anche questi ritrovi segreti, comminando multe salate ai proprietari dei locali. Si è capito in fretta che l’unico modo per godersi una bevuta era comprarsi una bottiglia nel negozio dei liquori e portarsela a casa.
La sensazione di libertà che gli studenti avevano sperimentato alla chiusura delle scuole si è trasformata rapidamente in lunghe ore di ozio, senza nulla a tenerli occupati, e persino la televisione e i videogiochi hanno smesso di essere interessanti. All’improvviso si sono visti i ragazzi ciondolare in giro col muso lungo, a domandarsi quando si tornerà a scuola a ritrovare gli amici. L’abitudine di prendere ogni mattina l’autobus per la scuola e ritornare a casa la sera con le cartelle piene degli odiati compiti è diventato qualcosa di agognato. Per effetto del virus, il loro mondo tutto a un tratto era alla rovescia.
Traduzione di Barbara Del Mercato

Questo è il primo di cinque reportage (simbolicamente uno per continente) sui tempi del Coronavirus commissionati dal Center for the Humanities and Social Change di Ca’ Foscari a importanti scrittori internazionali.

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