Ricordo tutto, come se fosse oggi, il camion carico di gente a Piazza delle Tartarughe, i soldati tedeschi, mia madre Virginia…
Un incubo che Emanuele Di Porto rivive ogni giorno dopo quel 16 ottobre 1943, giorno maledetto della retata al ghetto di Roma. A ottantotto anni, dopo una vita vissuta in via della Reginella, il signor Emanuele racconta: perché lui è il bambino che ha vissuto per due giorni su un tram della circolare che dal capolinea di piazza di Monte Savello percorreva tutta Roma.
Pioveva, quella mattina di ottobre: Emanuele fuggendo dal ghetto s’era rifugiato dentro un tram accolto dal bigliettaio e dall’autista. Ma come c’era finito, quel ragazzino di dodici anni, su quel tram delle linee Atac?
La famiglia abitava in via della Reginella, sei figli più mamma e papà in una stanza: nelle due stanze dell’appartamento vivevano le due sorelle della mamma, con cinque e tre figli: il ghetto di Roma sprofondava nella miseria e nella fame, dopo la promulgazione delle leggi razziali del 1938 gli ebrei del Ghetto di Roma vivevano un clima di allarme e timore. Ma la notte del 16 ottobre qualcosa di nuovo e terribile accadde. Non erano più le squadracce fasciste a minacciare una popolazione inerme, non erano bastati i cinquanta chili d’oro raccolti nella speranza della salvezza: i reparti della Gestapo comandate da Herbert Kappler sistematicamente arrivarono a rastrellare uomini, donne e bambini, destinazione Auschwitz, 1259 persone tra le quali 1023 cittadini italiani di religione ebraica furono catturati da oltre trecento soldati tedeschi.

Il padre di Emanuele s’alzava alle tre di notte e andava alla stazione Termini a vendere qualche souvenir ai soldati che tornavano dal fronte: alle cinque di mattina la madre, sentendo un gran trambusto, s’affacciò alla finestra e vide che i tedeschi stavano caricando sui camion delle persone cercate casa per casa. Virginia Piazza Di Porto pensa che cerchino solo maschi ebrei ed esce di corsa per avvisare il marito di stare lontano dal Ghetto: lo intercetta a Termini, e lui fugge a Testaccio presso una sorella, dicendole di tornare a casa, prendere i sei bambini e raggiungerlo.
Emanuele, affacciato alla finestra, aspetta mamma Virginia, e la vede arrivare da via Paganica che sbuca a piazza delle Tartarughe: la donna è subito fermata e caricata sul camion, mentre Emanuele si precipita di sotto e piangendo la raggiunge.
I ricordi sono vivissimi e drammaticamente indimenticabili: Virginia urla al figlio di scappare, ma il bambino è preso e fatto salire sul camion mentre la madre sillaba due parole,“nicht juden”, non è ebreo… e lo spinge forse giù dal camion o Emanuele cade, mentre il convoglio parte: la stretta via di Sant’Ambrogio è il primo rifugio del bambino che sotto la pioggia corre verso il Portico di Ottavia e poi ancora oltre, verso il Tevere, e trova un tram nella luce tremolante del giorno, un tram che l’accoglie e lo salva. Emanuele dice “guarda, so’ ebreo, me stanno cercando i tedeschi”. Tramviere e bigliettaio lo nascondono, dividono con Emanuele il pasto, e per tutto il giorno e la notte e ancora il giorno dopo affidano ai colleghi come in una staffetta di protezione il bambino del Ghetto: dopo queste lunghe ore un amico del padre per caso sale sul tram e riconosce Emanuele. Lo avvisa che il padre disperato lo sta cercando e lo accompagna a casa.
Da quell’ottobre 1943 la vita difficile del ghetto scorre assieme alle drammatiche vicende della guerra che Mussolini sta perdendo: ma nonostante tutto le persecuzioni e le angherie continuano, e la famiglia Di Porto una sera a casa riceve la vista sgraditissima di un manipolo di fascisti: i bambini si nascondono sotto il letto, i fascisti portano via tutti meno Emanuele che per lunghe ore rimane solo in casa ad aspettare. Finalmente i parenti ritornano perché i fascisti forse per una resipiscenza lasciano uscire il gruppo dalla prigione.
Dopo la fine della guerra e la consapevolezza che mamma Virginia non sarebbe più tornata (una sola donna tornò a Roma tra i sedici sopravvissuti del gruppo, Settimia Spizzichino, che disse alla famiglia come Virginia, 37 anni e sei figli, appena scesa dal treno al campo di sterminio venisse avviata al crematorio), la vita della famiglia è affidata all’intraprendenza di Emanuele, poiché il padre cade in depressione: anni di povertà anche dopo la fine della guerra, in un quartiere dove “il 95 per cento delle persone era povero”, afferma Di Porto.
Il lavoro di Emanuele, ambulante in via Veneto, comincia a dare buoni risultati, arriva il matrimonio, anche se tempestoso e presto finito, e i due figli maschi crescono da benestanti: la “dolce vita” è alle porte, assieme al boom economico. Il ragazzo del tram che ha frequentato solo la terza elementare ora lavora bene come ambulante, al bar Doney di via Veneto passano Liz Taylor e Kirk Douglas, Tyrone Powell e Linda Christian, Frank Sinatra e Ava Gardner… Emanuele conosce tutti, vive bene, “è bello passare da povero a benestante, è brutto il contrario”.
Il ricordo di mamma Virginia rimane sempre negli occhi e nel cuore di Emanuele: che pochi anni fa, in visita a Auschwitz Birkenau con la sorella, realizza che “qua è morta mamma”, su quel binario desolato, e il salmo recitato da un rabbino è dedicato a lei e a quanti come lei sono stati oggetto di tale odio.
“Siamo rimasti in pochi, poco più di dieci persone ad aver vissuto quegli anni”, afferma Emanuele, che ha raccontato la sua storia in varie circostanze e soprattutto nelle scuole, nei teatri per il Giorno della Memoria, a Montecitorio, alla Camera dei deputati. Le testimonianze degli ebrei del ghetto di quegli anni devono diventare ancora di più storie conosciute.
“Sul tram pensavo alla mamma”, dice Emanuele. E chi non l’avrebbe fatto. “Si salvi chi può, è la mia filosofia di vita, io oramai sono abituato ai pericoli” , dice chi troppe ne ha passate per spaventarsi di fronte a un’epidemia, anche se subdola e vigliacca come quei nazisti in quella piovosa mattina di shabbat di 77 anni fa.

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