[TEL AVIV]
In Israele stiamo uscendo dalla prima fase dell’epidemia causata dal coronavirus. Un po’ caoticamente, stiamo tornando alla “normalità”. I bambini degli asili e delle prime tre classi elementari sono già tornati nei loro istituti (a turni alterni, in classi dimezzate), la settimana prossima, in fasi successive, toccherà agli altri allievi di elementari, medie e licei, in una situazione ancora molto confusa. Va dato atto al governo – al netto dalle critiche più “politiche” da rivolgere a Netanyahu – che l’emergenza virale è stata affrontata per tempo e con passi molto decisi fin dai primi segnali d’allarme. Sono stati subito interrotti i voli per la Cina e presto anche i voli per altri stati (tra i quali l’Italia). Tempestivamente è cominciata la quarantena forzata, con tutte le limitazioni connesse. Le ultime notizie dicono che il paese ha raggiunto la capacità di laboratorio per testare fino a quindicimila persone al giorno. Molto di più rispetto alla necessità attuale.
Se si vuol individuare una criticità evidente, su cui occorrerà ulteriormente riflettere, è nel rapporto – specie agli inizi della crisi – tra ministero della sanità, preoccupato di contenere con misure anche drastiche l’epidemia, e i ministeri economici con l’occhio rivolto all’altra emergenza che inevitabilmente si sarebbe presto presentata, quella provocata dal blocco delle attività economiche. Una dialettica non diversa da quella che ha vissuto l’Italia, e un po’ tutti i paesi colpiti dalla crisi virale.
Il dato saliente di una situazione estremamente critica è adesso quello della disoccupazione, passata da un tasso positivo (quattro per cento) a un rovinoso 27 per cento. Tradotto in crude e crudeli cifre reali: un milione e trecentomila disoccupati. Prima dell’epidemia erano 160.000. Un lavoratore su quattro in disoccupazione o in ferie forzate senza stipendio.
Particolarmente drammatica la situazione dei giovani e dei precari.

Tra la popolazione araba d’Israele, come a Gaza, il virus non si è propagato in misura allarmante. Allarmante, invece, il riflesso occupazionale. Quando sono state chiuse le frontiere anche il passaggio tra Gaza e Israele è stato bloccato e ottantamila lavoratori che passavano quotidianamente – soprattutto nell’agricoltura e nell’edilizia – sono rimasti senza lavoro. Il che, chiaramente, ha provocato di riflesso in Israele una grave crisi per l’agricoltura, rimasta a corto di braccia per raccogliere frutta e verdura. Una parte consistente del raccolto è andato perduto.
Non diversa la situazione nell’edilizia, un settore a prevalente manodopera araba, che ora è in grave pericolo.
Il ministero della sanità era molto preoccupato, specie agli inizi, per il possibile propagarsi della pandemia a Gaza. Anche per i riflessi per Israele. Invece nella Striscia non si è molto diffuso. Ai palestinesi sono stati forniti strumenti diagnostici e apparecchiature mediche.
Diverso il caso dei villaggi arabi in Israele, dove il contagio è stato in un primo momento contenuto, ma poi è scoppiato, con un po’ di ritardo, e ora, mentre in Israele si sta uscendo dalla crisi, ci sono alcuni centri arabi ancora in quarantena.
Interessante notare che in tutto il settore sanitario la percentuale di lavoratori arabi è molto alta, intorno al quaranta per cento. Nella sanità, negli ospedali, nei centri medici, c’è da tempo un solido rapporto di collaborazione e di rispetto reciproco tra ebrei e arabi, un rapporto che l’impegno contro il comune nemico ha ulteriormente cementato. Una solidarietà che va a vantaggio di tutti, e che il grosso dell’opinione pubblica sembra cogliere e apprezzare com’è apparso anche evidente dalle numerose manifestazioni di riconoscenza verso il personale sanitario.
Peraltro, s’è appreso che tre paesi del Golfo sono impegnati in forma di collaborazione con il sistema sanitario israeliano, con richieste di assistenza in particolare sul fronte della telemedicina avanzata per la lotta al coronavirus. Rappresentanti del Barhein e degli Emirati arabi sono in costante rapporto con un importante centro ospedaliero, lo Sheba Medical Center, una relazione iniziata già prima dello scoppio dell’epidemia. Lo scorso marzo un membro di alto rango della famiglia reale degli emirati ha visitato privatamente l’ospedale Ramat Gan, rimanendo poi in contatto con la struttura sanitaria. Anche il Kuwait è in contatto con lo Sheba.

La crisi virale è piombata su Israele nel bel mezzo di una crisi politica tra le più gravi e complicate della sua storia. Ben tre elezioni non hanno prodotto una maggioranza di governo. Diciotto mesi in sospensione. Netanyahu ha approfittato abilmente dell’emergenza sanitaria per uscire dall’impasse politico e giudiziario. Le sue apparizioni in televisione sono state innumerevoli. Re Bibi.
Invocando la necessità di un governo di unità nazionale per affrontare l’emergenza, è riuscito ad alimentare le tensioni all’interno delle forze che l’avevano avversato elettoralmente, fino a produrre lacerazioni umane e politiche al loro interno, giovandosi delle loro ambizioni personali e ponendosi lui al centro della trattativa. Risultato? L’esecutivo più ridondante della storia israeliana. Trentaquattro poltrone ministeriali. Tra cui gli Esteri, all’ex generale Gabi Ashkenazi, un posto di alto rango in premio a chi ha scelto di seguire Benny Gantz, tradendo una parte consistente del suo partito, Blu bianco, e soprattutto l’elettorato che l’aveva votato, in netta e intransigente opposizione, politica e morale, a Bibi, il partito del tutti-tranne-Netanyahu. Anche i laburisti Amir Peretz e Itzik Shmuli sono ben ripagati per aver spaccato il loro partito, riducendolo a una forza ancor più insignificante e subalterna. Avranno due dicasteri di peso.
I due ex arcinemici, Benjamin Netanyahu e Benny Gantz, si avvicenderanno alla guida del governo. Inizia Bibi, tra diciotto mesi gli subentrerà Gantz. Ben inteso, se Bibi terrà fede al patto della staffetta.

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