Come ovunque, in questi tempi di pandemia, anche in Francia l’universo culturale vive ore particolarmente buie. Teatri chiusi, festival estivi cancellati, concerti sospesi, migliaia di compagnie teatrali e di danza ferme, prove impossibili, riprese bloccate, produttori di film sotto scacco, musei chiusi immaginando tutti i possibili scenari di riapertura con presenze limitate, galleristi dubbiosi sul modello del mercato dell’arte, librerie sull’orlo del baratro, mondo editoriale molto preoccupato per il rientro di settembre, autori privati dei diritti: il quadro non invita all’ottimismo.
L’Opéra de Paris ha già stimato le proprie perdite fino alla fine di aprile a 7 milioni di euro e non prevede di poter riaprire prima del 2021: aggiunti ai sedici milioni persi a dicembre a causa di uno sciopero, il direttore amministrativo ha più di una preoccupazione. Il Festival di Avignone con i suoi settecentomila visitatori, che ha un ruolo chiave nel mercato teatrale, non si farà. Cinquanta spettacoli annullati nell’“in”, 1600 nell’“off”. Le cifre preannunciano ovunque un anno nero. E le prospettive a medio e lungo termine, mettendo insieme i vari settori, rimangono circondate da una nebbia senza precedenti. Un recente sondaggio indica che, tra le persone, nelle priorità del post-confinamento la cultura si trova al 14° posto. Lontano da parrucchieri e bagnini. Abbastanza per rendere il quadro ancora più fosco.
Il 6 maggio scorso il presidente Macron, sempre in prima linea, si è dunque rivolto al mondo della cultura con un intervento televisivo di una trentina di minuti. È un eufemismo dire che gli applausi ricevuti al termine sono stati scarsi.
Le petizioni stavano effettivamente iniziando a circolare, denunciando l’oblio di arte e cultura nei progetti di ricostruzione della “Francia d’après”, la Francia del dopo-coronavirus si intende, e una di queste petizioni è stata firmata il 30 aprile da personalità di spicco, da Juliette Binoche a Isabelle Huppert o Catherine Deneuve, e da un centinaio di altre persone note o meno note, ad ogni modo fondamentali per mantenere vivo il tessuto artistico e culturale francese. Persino Jack Lang, aureolato con la sua leggendaria funzione al ministero della Cultura sotto la presidenza di François Mitterrand, aveva ritenuto opportuno dichiarare a Le Monde il 5 maggio: “Una politica pubblica deve difendere i suoi creatori”, invocando un nuovo accordo alla Roosevelt per la cultura. Il silenzio del governo sulla questione era in effetti assordante.

La pentola a pressione era quindi sul punto di esplodere e si sa che gli artisti francesi sono particolarmente bravi a rovinare l’atmosfera euforica voluta dai governanti, arrivando persino a rovinare un’intera estate come nel 2003 quando provocarono l’annullamento del Festival di Avignone, o come nel caso di quello del Festival International d’Art Lyrique d’Aix-en-Provence, essendo stati messi in discussione dal governo di allora lo status di artisti e tecnici dello spettacolo e il loro diritto alla disoccupazione.
Il presidente Macron doveva quindi reagire, prima della tempesta. E riconoscendosi volentieri come seguace di Spinoza, rifiutando le “passioni tristi” come la rabbia, la paura o il disfattismo, preferendogli un’etica della gioia che svilupperebbe entusiasmo e spirito combattivo, fino alla felicità, ha parlato. Dovremmo essere felici di avere un presidente appassionato di filosofia, cosa che non capita in ogni governo del mondo, e che ha persino trovato un posto nella complessa geopolitica internazionale. Ma delle frasi ben confezionate, lo abbiamo già visto con la gestione macroniana del movimento dei gilet gialli, non bastano più ai francesi. E questo è stato di nuovo il caso.
Esercizio difficile, è vero. Pochi politici sono in grado di pensare la cultura. Per disinteresse, spesso, per incompetenza, a volte, o perché sopraffatti. Non l’aveva detto Sartre, leggendo nel 1951 su un giornale italiano, la Fiera Letteraria, un articolo intitolato: “Salvare la cultura. Il problema numero 1 per il pensatore contemporaneo”. Con il suo sguardo divertito ma tagliente: “Ho letto l’articolo e m’ha fatto ridere: non si salva la cultura, la cultura si fa”. E come sappiamo, è meglio che i politici non la “facciano”, la cultura. A loro è semplicemente chiesto di renderla possibile.
Macron, con il suo potere fatto di parole, avrebbe accettato la sfida? La delusione è stata grande.
La messa in scena era stata tuttavia ben pensata: nessun Macron solenne in giacca e cravatta come per le dichiarazioni ufficiali dell’Eliseo, ma un Macron in camicia bianca, maniche arrotolate, alla Kennedy. E un discorso apparentemente improvvisato, informale e aperto, sullo stile delle risposte di un dibattito post-spettacolo. Eh sì, stiamo parlando alla cultura! L’immagine “cool” è studiata. Seduto al suo fianco, a distanza regolamentare ovviamente, il ministro della Cultura prendeva appunti, attento, anche se a volte sembra sorpreso dalle proposte macroniane. Ricordiamo che all’inizio del suo mandato, re Macron aveva fatto di tutto per ridurre il ministero al minimo tecnocratico indispensabile, riservando a sé stesso e alla sua corte le decisioni più importanti. Non c’è da stupirsi dunque che l’azione del ministero nelle ultime settimane sia stata piuttosto pallida, imprecisa e minimale.

L’intervento è stato preceduto da un’intervista del presidente in videoconferenza, a circuito chiuso, con una serie di personalità del mondo della cultura, scelte che non si sa come. Un effetto-verità, di forte impatto, della cosiddetta democrazia diretta, come piace al presidente. I rappresentanti dei diversi settori, persone informate sui dossier e sui problemi del settore, non erano ovviamente tra gli invitati. E il presidente, nel suo numero da solista, non s’è stancato d’incensare i suddetti interlocutori, trovando le loro analisi e testimonianze formidabili, ammirevoli, commoventi, avveniristiche. Ci sarebbe piaciuto conoscerne il contenuto esatto in quel momento. Finirà negli archivi.
Perché la parola chiave della performance è stata “resilienza”. Resilienza e resistenza. Il presidente ha quindi fatto appello al mondo culturale affinché “reinventi” la Francia, insieme con lui, ovviamente. Anche indicando alcune possibili linee d’azione. Che oltre al fatto che è sempre sconsigliabile, per un politico, dire agli artisti e alle persone della cultura quale arte dovrebbero produrre e quale azione portare avanti, le lezioni del secolo scorso e le sue diverse varianti dell’arte ufficiale sono ancora un ricordo doloroso, sono risuonate strane. Appaiono azioni ridondanti rispetto al decentramento culturale in atto, e ai suoi effetti, in tutte le regioni della Francia da sessant’anni questa parte. Si pensi, per esempio, a quanto si fa per i più svantaggiati, nei “quartieri” o nelle scuole, in collaborazione con gli insegnanti e con il ministero della pubblica istruzione. Sarebbe bastato un briefing più approfondito con il suo ministro, prima d’imbarcarsi in visioni tautologiche, e già obsolete.
Così pure il suggerimento di sostituire gli spettacoli teatrali “dal vivo” con riprese video, pratica già attuata da alcuni, ma lungi dall’essere unanime nel mondo dello spettacolo. Streaming sì, per contenere temporaneamente le frustrazioni. Ma lo streaming non fornisce alcuna ricetta e non sostituirà mai l’evento sociale e umano della rappresentazione.

O l’idea di appalti pubblici, diretti soprattutto agli under 30. Un giovanilismo volontaristico che improvvisamente preoccupa molti professionisti. Né convincono un fondo per la musica e una serie di misure vaghe per il settore cinematografico. Per non parlare del totale punto morto della filiera dei libri, che non ha proprio mandato giù la pozione.
E non hanno aiutato le cose, certi riferimenti incauti: s’è parlato di Simon Leys e Robinson Crusoe, del formaggio e prosciutto che il pragmatico Robinson mette al sicuro nel momento del naufragio, insomma della frugalità in condizioni di scarsità, per ricostruire il paese. Per un settore che rappresenta il 2,3 per cento del PIL, che impiega circa 600.000 persone, più del settore automobilistico, significativo fattore moltiplicatore nell’economia globale, per non parlare dell’immagine della Francia, ci si sarebbe potuto aspettare un’altra allegoria, diversa da quella della frugalità del formaggio. Non sono mancate le prese in giro.
Come ogni operazione di marketing ben congegnata, essenziale è un’immagine, una parola d’ordine. Il presidente, in uno slancio d’entusiasmo, braccia in alto e mani infilate nella capigliatura da battaglia, sfida quindi il mondo culturale, esortandolo a “cavalcare la tigre” per reinventare la Francia. Il mondo circense, che con questa crisi sanitaria è in uno stato di disastro economico senza precedenti, l’apprezzerà. Indubbiamente appropriata, quest’immagine vagamente cinese, dall’accento maoista. Gli è venuta spontaneamente o è stato il risultato di un lungo brainstorming con i suoi consiglieri o con la cerchia ristretta degli intimi, al momento non è dato saperlo. Il ministro della Cultura ha gettato uno sguardo stupefatto e ha preso nota. Ma l’appello è stato vibrante: ho bisogno del vostro aiuto, ci ha detto il presidente. Facciamo un patto. Domerò questa crisi e voi siate anche quelli che domeranno il futuro. Cavalcate la tigre!
Inutile dire che le misure concrete e quantificate, che consentirebbero al mondo culturale di ritornare in vita nei mesi a venire, non erano la parte principale del discorso. Si trattava di motivare le truppe. Il domatore era quindi avaro di cifre. Solo il sistema di protezione specifico per i “saltuari dello spettacolo”, precari, artisti e tecnici, che si destreggiano da un breve contratto all’altro, un sistema piuttosto complesso e specifico della Francia, che i lavoratori saltuari auspicavano vedere mantenuti sotto forma di “un anno in bianco”, pena, per la maggior parte di loro, il rischio di perdere i propri diritti di disoccupazione, è stata oggetto di un annuncio: il presidente, con la sua grande magnanimità, ha deciso di andare oltre l’anno in bianco richiesto promettendo l’estensione del sistema fino al 31 agosto 2021. All’amministrazione il compito di risolvere il problema. Sguardo fisso sul ministro. Sollievo ovviamente per le persone interessate. C’è chi dirà che estendendosi fino alla fine di agosto 2021, al presidente è risparmiata la possibile protesta di detti lavoratori salturari nel corso dell’estate del 2021, dalla risonanza mediatica potenzialmente forte, come vedemmo ad Avignone nel 2003, pochi mesi prima delle elezioni presidenziali del 2022. La professione, che nonostante tutto è difficile da domare, è quindi in attesa di cifre.
Specialista per definizione nella fabbricazione di illusioni, attende l’illusionista-capo al punto di svolta con la realtà. E lì Spinoza sarà solo di minimo aiuto. Sa anche, per esperienza sulla pista, che a volte la tigre divora il domatore. Il grado di fiducia del presidente tra la popolazione sta precipitando. Nonostante o a causa della sua gestione della crisi pandemica, fatta di bugie, confusione o improvvisi voltafaccia, per nascondere l’impreparazione del governo, in particolare per quanto riguarda le mascherine o il massacro nelle case di riposo per anziani, e lo smantellamento dell’ospedale pubblico operato negli ultimi anni, in nome del credo neoliberista che finora ha animato l’ex banchiere di casa Rothschild. Tanto che il suo primo ministro, normalmente un fusibile in caso di crisi, sembrava più credibile di lui. Il che nella quinta Repubblica francese è piuttosto un brutto segno. E di nuovo la crisi sociale sta esplodendo. Tutto ciò ovviamente non incoraggia a credere o a seguire gli slogan del capo spinozista.
Si sarebbe persino tentati di schierarsi con la brusca considerazione di Michel Houellebecq, ancora distopico come si deve, espressa in una lettera inviata lo scorso 4 maggio alla stazione radio France-Inter: “Non ci sveglieremo dopo la clausura, in un nuovo mondo; sarà lo stesso, solo un po’ peggio”. Che il nuovo mondo promesso o voluto da Emmanuel Macron sfugga a questa frase e che il mondo culturale sia il suo edificatore spirituale e morale, nulla è meno certo.
Avevamo conosciuto Macron come il re Ossimoro all’inizio del suo mandato, nel suo voler migliorare la figura del re e promettere d’unire gli opposti, quindi il re quasi nudo, sotto lo sguardo disilluso dei francesi, infine il re Tartufo, rivelatosi come il “presidente dei ricchi“ nel corso della rivolta dei gilet gialli. E ultimamente il monarca inflessibile che intende attuare la sua riforma pensionistica, respinta dalla grande maggioranza della popolazione, a colpi di ordinanze o di articolo 49-3, il famoso articolo costituzionale che consente al potere esecutivo di far passare una legge tagliando corto con i dibattiti in parlamento. Tutto questo poco prima che arrivasse il virus pandemico. È probabile che la riforma delle pensioni finisca nell’oblio.
E ora alla fine del mandato e prima della programmata rielezione, il re è alla ricerca di una nuova immagine, quella del re rifondatore, domatore di virus. E il suo popolo di cavalcatori di tigri. Le persone di cultura si presteranno a questa cavalcata? Giudicheranno basandosi sugli atti. E avranno bisogno di tempo per trovare i mezzi e il piacere di fare. Almeno fino al 2022. Abbastanza per alimentare, fino ad allora, il pensiero del re domatore.

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