Nell’ultimo intervento scritto su ytali avevo tratteggiato un Redentore diverso, a misura di città ovvero capace di interpretare lo spazio pubblico in maniera radicalmente differente rispetto a quanto abbiamo fatto a Venezia da molti anni a questa parte. Il tema dello spazio pubblico da un po’ di tempo è ritornato al centro del dibattito politico: non esiste programma elettorale che non ponga l’accento sulla rivitalizzazione/rigenerazione degli spazi urbani, sia per motivi economici sia per contrastare degrado e insicurezza.
Il Covid-19 potrebbe accelerare alcune tendenze già in atto, basti pensare al bel documento strategia di adattamento che l’amministrazione meneghina ha da poco adottato nel quale si possono leggere diversi passaggi dedicati alla reinterpretazione degli spazi urbani e dello spazio pubblico in particolare. I motivi sono evidenti a tutti noi: il metro di distanziamento fisico è – assieme all’uso della mascherina e al lavaggio delle mani – un messaggio che ci viene inculcato con grade metodicità. Come far sì che il distanziamento fisico non diventi distanziamento sociale? Volenti e nolenti appropriarci il più possibile dello spazio pubblico sarà la chiave di volta nei prossimi mesi per raggiungere questo obiettivo, per sentirsi ancora parte di una comunità, almeno per tutta l’estate.
Bar, ristoranti, attività sportive e ludiche si riverseranno nelle strade e nelle piazze. Lo stesso dicasi per la cultura. Sono richieste fantasia e creatività che dovrebbero essere parte integrante, se non primaria, per chi è impegnato nella filiera culturale. A partire dal settore teatrale.

Ad esempio a Venezia da anni si svolge Venice Open Stage: una rassegna molto vivace che anima a Dorsoduro la zona san Sebastiano – san Angelo Raffaele. Gli organizzatori hanno promesso che non molleranno pur sapendo che l’internazionalità della rassegna verrà meno per ovvi motivi. In tal senso è uscito un articolo de Il Gazzettino lo scorso 5 maggio (Open non molla sarà tutto italiano di Daniela Ghio).
Intanto sono state chiuse le selezioni come da programma: gli ideatori si stanno dimostrando molto tenaci nel tenere in piedi il Festival. Purtroppo non ho notizie di movimenti simili da parte di istituzioni più strutturate, ma capisco anche che sia più complesso attrezzarsi in enti più grandi. Adesso però si incominciano a conoscere più nel dettaglio le misure di governo e Regione e quindi è arrivato il momento di pianificare le prossime mosse. La cultura nei campi, nelle piazze, nelle strade, nei parchi. Suona un po’ retorico, me ne rendo conto, e anche di non facile applicazione, sorgeranno diversi problemi, ma non vedo momento migliore per provarci.

Sappiamo che un primo ostacolo arriverà dall’attuale amministrazione che è interessata ai “grandi eventi”. Scelta a mio avviso del tutto strampalata: se Venezia vuole essere migliore di quanto fosse prima della pandemia, dobbiamo avere il coraggio di posizionare la città su circuiti culturali ben diversi, ma soprattutto su un modo differente di produrre cultura. Avete presente come è nato il Carnevale a Venezia e cosa è diventato? Ecco sappiamo già cosa non dobbiamo fare. Ne scrivevo con Barbara Colli proprio sulle “pagine” di ytali: grandi masse, poca qualità, tanto rumore, poca sicurezza. Ricordiamoci sempre che Brugnaro è assessore alla cultura e non mi sembra abbia fatto nulla di significativo in cinque anni di amministrazione per immaginare un’offerta culturale che fosse parte di una strategia complessiva per affermare un protagonismo della produzione culturale veneziana e non un’immensa vetrina di cose che accadano altrove.
Si parlava di Venice Open Stage: sarei curioso di sapere quanto investe l’amministrazione, nelle sue diverse articolazioni, per sostenere una manifestazione del genere anziché Miss Italia, Roxy Bar e amenità simili. Lasciamo il sindaco ai suoi siparietti in piazza, l’ultimo in pieno confinamento con Zucchero, e a immaginare nuove chiatte in bacino san Marco per concerti e performance! Proprio lui che ora pontifica su un turismo cafone e cialtrone; proprio lui che in questi giorni è riuscito a riesumare il modello Boston che aveva utilizzato durante l’ultima campagna elettorale, modello poi completamente dimenticato appena insediatosi a Ca’ Farsetti.

Di quel modello almeno due erano gli elementi che regalavano spunti interessanti:
1. grande attenzione ai processi e alla capacità di allargare la dimensione culturale ibridando ambiti e prodotti (e per far questo la politica doveva interpretare il proprio ruolo come elemento facilitatore di dinamiche sociali e culturali in atto, ovvero l’opposto del sindaco Paron);
2. centralità delle istituzioni formative e dell’università (e anche qui non risultano agli atti accordi, partenariati o simil tra Amministrazione e mondo della formazione).
Dimentichiamoci del sindaco, sappiamo come non si possa fare affidamento su di lui. Torniamo a Venezia.
Le città sono da sempre l’epicentro di forze creative, di innovazione, sono un modello aggregativo per eccellenza e sono oggi obbligate a cambiare se vogliono sopravvivere alla furia isolatrice della pandemia. Venezia e Mestre hanno al loro interno delle strutture capaci di immaginare dei percorsi di riappropriazione degli spazi pubblici? Se guardiamo la storia recente parrebbe di sì. Intanto sosteniamo Venice Open Stage e rimbocchiamoci le maniche. Senza un Comune che faccia da facilitatore o per lo meno non metta bastoni tra le ruote è più complicato, ma ci sono istituzioni private, c’è il mondo delle associazioni, forse ci sono le energie perché il Covid-19 non passi alla storia come una semplice parentesi in un modello di sviluppo che abbiamo già testato e ha deluso molti tra noi.
Copertina e servizio fotografico sono tratti dal sito Venice Open Stage

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