In ogni bar del Pigneto, il quartiere romano in cui vivo, c’è la stessa foto attaccata alle pareti. La foto di un carro armato tedesco che presidia le strade e poi subito accanto, quasi per esorcizzare quel carro armato, troviamo incorniciate anche le foto della liberazione del quartiere dal nazifascismo. Quell’immagine feroce di guerra, in un quartiere originariamente costruito per i ferrovieri, ancora agita le coscienze di un’area di Roma rimasta nel tempo ribelle e resistente. Qui nel quartiere d’altronde Anna Magnani aveva girato la scena più famosa del cinema italiano, quella in cui in Roma città aperta di Roberto Rossellini inseguiva suo marito deportato dai nazisti verso carceri e torture.
La via, oggi tristemente dominata da un bingo, sembra ancora risuonare delle urla della Magnani e del suono della mitraglia tedesca. La guerra, quella combattuta è di fatto ancora fra noi. E ad ogni lato c’è una pietra di inciampo a ricordarci dei partigiani e degli ebrei della zona che sono stati mandati a morire nelle Fosse Ardeatine o nei campi di sterminio. Purtroppo la gentrification di cui è stato oggetto il quartiere oggi, fatta di speculazioni e affari poco chiari, non ha permesso a molti di cogliere fino in fondo l’importanza sociale del dolore vissuto da chi ci ha preceduto. Tutto è stato svenduto, la grande storia, ma anche la quotidianità.
Al Pigneto è più facile oggi trovare ogni tipologia di cocktail che un negozio dove comprarsi una pentola o uno spago. La mattina, ti dicono gli abitanti, “ancora sembra un quartiere normale”. Ma di normale chi vive qui non vede più niente. Per fortuna l’area rimane ancora saldamente multietnica, ma quanto durerà? I corpi, non solo dei migranti, ma anche di chi semplicemente se la cava (e di certo non nuota nell’oro), vive nella paura costante di essere espulso. Non a caso il prezzo delle case è ultimamente salito troppo e chi un tempo, dal Bangladesh o dal Marocco (ma anche in senso più amplio varie fasce della classe lavoratrice), si è potuto permettere un appartamento, ora viene respinto ancora più verso est, ancora più in periferia.
Ed ecco che il quartiere lentamente è scivolato negli ultimi anni verso un imborghesimento così totale da togliere il fiato. Va detto però che nonostante tutto nell’area sono sopravvissute molte sacche di resistenza abitativa e sociale. Ed è questo meticciato resistente, che si intravede ancora nei volti di chi abita il Pigneto, che fa di questo quartiere qualcosa che la gentrification non ha ancora del tutto ucciso. Ed è in questo scenario appena descritto che è arrivato l’imprevisto del lockdown e siamo stati abbattuti da una tempesta globale portata dal coronavirus e dalla sua pericolosità.


All’inizio la gente del Pigneto si è sentita soffocare. Nessuno era abituato nel quartiere a tutto quel silenzio. A tutti è mancato l’allegro chiasso guascone che producevano i giovani innamorati alle prime litigate o le chiacchiere degli spettatori che fino a tarda notte conversavano commentando l’ultimo film visto al Cinema l’Aquila, il cinema nato grazie ai beni sequestrati alla mafia. È mancato a tutti il chiasso, persino a me che non l’ho mai sopportato. Ci sono mancate pure le litigate tra clienti e spacciatori che oltraggiavano a volte le nostre notti. Abbiamo capito, ed è stata una consapevolezza che quasi ci ha annientato, che la vita che avevamo avuto fino a febbraio 2020 ci stava lentamente, ma inesorabilmente scivolando via tra le dita. È stata una brutta sensazione. E in quei primi giorni tra gli amici non a caso è stato evocato lo spettro del carro armato tedesco che prima del lockdown ci guardava in cagnesco dalle vetrine colorate dei bar.
“Se almeno il nemico fosse chiaro, un nazista come quello che guida quel carro armato che vediamo nei bar. Ah se ci fosse un nazista al posto del virus almeno sapremmo cosa fare ora. Ma questa strana malattia come lo combatti?” e poi dopo riflessioni di questo tono sono stati in molti a pronunciare la fatidica frase “siamo in guerra”.
Io che sono somala e italiana sapevo fin troppo bene cos’era una guerra, conoscevo quello che aveva inghiottito la Somalia dagli anni Novanta in poi, una guerra fratricida dove l’unica lingua possibile era quella degli Ak 47. Non la chiamate guerra volevo gridare alle persone del quartiere. Questa non è guerra. É dura, ma non è la guerra.
Guerra in fondo è un termine che confonde invece di chiarire il misto di preoccupazioni che ci agita. Preoccupazioni per la salute, per lo stato delle nostre finanze, per i figli costretti improvvisamente a abbandonare ogni socialità per affidarsi completamente alla didattica a distanza, per i genitori.
Ma sono bastati pochi giorni al quartiere per capire che era davvero da stupidi chiamare guerra un’emergenza sanitaria. Ed è stata una canzone che di guerra (e invasori) parlava, Bella Ciao, cantata a squarciagola dai balconi a far capire che non dovevamo diventare eroi di una storia, ma semplicemente i suoi pilastri. Che quella sfida l’avrebbe vinta l’amore che avevamo per gli altri e la creatività che ci toccava usare molto di più per non soccombere economicamente ai marosi. Ed è stato allora, proprio nel momento in cui la testa di ognuno di noi si stava riprogettando, che il quartiere ha guardato nelle sue viscere e per la prima volta in tanti anni non si è piaciuto.
Nel silenzio fatto di fringuelli e passeri cinguettanti, è cresciuta un po’ in tutti la consapevolezza che quel quartiere fatto dei ricordi di Pasolini e del neorealismo era stato svenduto al miglior offerente per un paio di aperitivi e un turismo mordi&fuggi. Non doveva, non poteva, essere quello il modello (non solo sociale, ma anche economico) per il quartiere. E in molti si sono chiesti se poteva essere quel coronavirus la possibilità di cambiare tutto per il meglio. Probabilmente non cambierà tutto come si dice in lungo e largo per il globo. Ma una cosa è certa ci sono tanti quartieri nel mondo che si stanno chiedendo se ha un senso ancora, dopo tanti morti e tanta angoscia, ritornare a essere un eventificio come si è stati.
Personalmente ogni volta che nei tempi che hanno preceduto il lockdown percorrevo lenta il quartiere con le buste della spesa ero spaventata dall’esistenza di negozi in serie tutti uguali, soprattutto bar, con menù tutti uguali, con persone tutte uguali, di un solo colore, di un solo pensiero. Ogni volta mi chiedevo fino a quando un migrante poteva permettersi di vivere in un quartiere gentrificato e che si stava tramutando in un affare per solo ricchi? Fino a quanto poteva resistere lì un membro della classe lavoratrice? Un quartiere per soli ricchi quanti ne avrebbe buttati fuori? Erano domande che mi agitavano da parecchio ed erano tutte lì nell’aria, anche se molti facevano finta di non guardarle. Ed è in questo tempo sospeso da Covid-19, che il Pigneto intero finalmente dopo tante menzogne si è domandato se un’altra esistenza poteva essere possibile per il quartiere. Una vita più quieta, più umana, fatta di relazioni, colori, negozi di prossimità, cultura diffusa. Una vita piccola e forse più vera. Nessuno di fatto aveva una risposta ai problemi del quartiere, ma la domanda è rimasta sospesa in aria, carica di prospettive, mentre i giorni passavano nell’inquietitudine.
Poi è arrivato il 4 maggio. Io ho aspettato questa data con ansia. Sono stata ligia alle regole dettate dal decreto governativo. Uscite solo per fare la spesa o andare in farmacia. Ho provato in questo tempo rinchiuso tra quattro mura a non arrugginirmi facendo ginnastica a casa. Cyclette, esercizi posturali, addominali. Tanto che durante la quarantena in controtendenza globale sono dimagrita. Ma questo non ha certo mitigato il mio disagio, mi mancavano da morire gli amici, la famiglia e anche le mie adorate passeggiate. Chi lavora con le parole ha bisogno di camminare. Perché l’energia che ci si accumula dentro il petto, i nervosismi, le contraddizioni che sono il pane quotidiano del mestiere della scrittura non hanno la possibilità di uscire fuori, farsi parola scritta in un testo senza uno sfogo. Serve prima disinnescare quel meccanismo che ci riempie di sentimento e angoscia il petto. Camminare fa rifluire non solo il sangue nelle vene, ma permette alle idee che ci abitano di rivelarsi a noi, di farsi pensiero compiuto. Molti dei miei romanzi e dei miei articoli li ho pensati mentre macinavo chilometri in città. Ho sempre camminato molto. Mettere i piedi l’uno dietro l’altro mi ha sempre dato serenità e mi ha permesso nel tempo di avere un equilibrio anche interiore. Perché in fondo lo dobbiamo ammettere serenamente: chi lavora con le parole in fondo è sempre un po’ pazzo. Certo distinto, a modino, educato, ma pazzo da legare come Don Chisciotte.

Io non ho mai negato questa mia vena di follia, questo mio parlare ai fantasmi (perché la scrittura altro non è che parlare ai fantasmi) e ho trovato il modo nel tempo di vivere in equilibrio con questo talento che a volte è anche una condanna. E le passeggiate da sempre sono state il rimedio perfetto. Sono una gran camminatrice. E questo lockdown, anche se per ragioni più che condivisibili, mi aveva tolto questo piacere necessario. Per due mesi la mia scrittura è stata orfana delle mie passeggiate. E ho visto come la qualità delle parole che sgorgavano da me non era delle migliori. Ero sempre insodisfatta. Quindi arrivare al 4 maggio era davvero per me una questione di sopravvivenza. Avevo grandi progetti per le mie passeggiate future. Andrò al Colosseo a piedi, anzi andrò a San Pietro a piedi. Tutti luoghi non proprio vicini a casa mia, ma che sognavo con la cocciutaggine di quell’adolescente che non ero più da decenni. Invece alla fine, quando il 4 maggio è finalmente arrivato, sono rimasta nel quartiere, dentro i suoi confini conosciuti. Ho cominciato a girarlo in lungo e largo il quartiere, come una novella esploratrice. Vicoli e vicoletti mai percorsi prima. E nei giorni seguenti, macinando chilometri, e incrociando a distanza persone con le mascherine, mi sono accorta che nel quartiere c’eravamo solo noi residenti. Non era mai successo prima!
Anche se lontano dalle rotte turistiche tradizionali il quartiere era sempre stato pieno di turisti mordi&fuggi che occupavano i tanti B&B del quartiere. E insieme ai turisti erano spariti anche i tanti romani provenienti da altri quartieri. Entrambi questi gruppi erano interessati alla vita notturna, ai bar, spesso alle ubriacature facili, alla droga e alle risse. Infatti con il lockdown la prima cosa che è scomparsa, insieme al traffico delle auto, sono state le litigate forsennate sotto le finestre di casa, litigate a volte infarcite di bestemmie e colpi bassi. Accorgermi di questo mi ha fatto sentire dentro il petto dei sentimenti ambivalenti e spesso opposti l’uno all’altro. Da una parte mi mancava la babele di lingue che i turisti portavano, come del resto mi mancava il fatto che il mio quartiere fosse così popolare anche presso chi veniva da altri luoghi di Roma, ma poi non mi dispiaceva affatto vedere quanto lo spaccio di droga era diminuito e quanto la litigiosità alcolica era quasi sparita a causa del lockdown. Il 4 maggio e i giorni seguenti ho notato, come tutti, che il quartiere era diventato un villaggio. Era tutto a misura d’uomo. Certo dovevamo fare le file, entrate in pochi nei supermercati per non fare assembramento, e così in profumeria, in libreria, in lavanderia. Ma vedevo che nonostante le preoccupazioni per il futuro – il pensiero della crisi economica che stava arrivando agitava tutti – il quartiere finalmente tutto nostro e con quella calma primaverile stava piacendo un po’ a tutti. Certo i bar ci mancavano da morire, soprattutto quelle belle colazioni domenicali che si facevano da Necci il bar di Pasolini, e quel sedersi ai tavolini della libreria Tuba, la libreria delle donne, per discutere di filosofia e femminismo. Mancava ancora tutto. Ma è stato subito chiaro a me come ad altri che la normalità del pre Covid non era di certo normalità, era parte del problema.

Si poteva, era questa la domanda che ci stavamo facendo in molti, avere un quartiere arioso, accogliente, aperto alla diversità, ma non gentrificato? Non abusato dalle speculazioni immobiliari? Non occupato solo da chi deteneva capitali e risorse? Poteva essere insomma il nostro quartiere un quartiere per tutti? Anche per un turismo diverso e meno cannibale?
In quei stessi giorni poi ci arrivavano notizie allarmanti dal centro di Roma. I droni nei giorni di lockdown avevano catturato la bellezza eterna dell’urbe. Roma così vuota era un incanto visto dall’alto, ma anche un dolore. La città senza i suoi abitanti sembrava morta. Ma solo nei giorni che hanno seguito il 4 maggio abbiamo scoperto quanto quel vuoto era precedente al coronavirus. In questo il centro di Roma condivideva la stessa sorte di altre città d’arte come Venezia e Firenze. Anni di speculazione avevano fatto sparire i residenti. E i negozi del centro storico, anche le farmacie che altrove per Roma facevano affari d’oro, erano desolatamente vuoti. La città che un tempo pullulava di vita, ora era tutta una sequela di B&B, case in affitto abusivo, alberghi di dubbia fama, ristoranti con menù spazzatura e tanti altri spazi simili per abbindolare i turisti. Alcuni degli obbrobri (come una palla di cioccolato che vomitava cioccolato fuso in un negozio che una volta ho visto in una vetrina veneziana) deturpavano il paesaggio in modo così osceno che ora mi è difficile persino ricordare. E chi un tempo in quei luoghi tramutati in circo degli orrori ci abitava era stato cacciato letteralmente via, senza tanti complimenti. Di questo avevo avuto testimonianze dirette negli anni della mia prima giovinezza. Alla fine del liceo io e la mia famiglia ci siamo trasferiti in un quartiere chiamato Primavalle. Una borgata difficile, ma accogliente della città di Roma. Primavalle era lontano da tutto. E quando c’eravamo noi non c’era nemmeno la metropolitana. Ricordo infatti che per andare all’università ci mettevo almeno, contando il traffico che a Roma è sempre stato un orrore, almeno un’ora e mezza se mi andava bene o un paio d’ore nelle giornate peggiori. Tanto che ho preso l’abitudine da allora di leggere sui mezzi pubblici. Ho studiato Cervantes, Garcia Lorca, Rafael Alberti, Suor Juana Ines de La cruz in quegli autobus pachidermici dell’Atac, l’agenzia del trasporto romano, e ho sempre avuto risultati brillanti agli esami.
A Primavalle c’era una bella biblioteca frequentata da signori entrati nella loro terza età. Erano tutti arzilli e con una gran voglia di parlare. Ricordo ancora tutte le loro parole e come si sentivano dei deportati. Usavano sempre per descriversi quel vocabolo forte “deportato”. E se andavi avanti a parlare con loro scoprivi che tutti erano stati residenti nel centro storico, “che io abitavo a Campo dei Fiori” e se non era Campo dei fiori, era Piazza Navona, o qualche altra piazza famosa del centro. Tanto che quelle parole da loro pronunciate con tanta grazia mi ricordavano alcune scene di quel film di Dino Risi di fine anni Cinquanta Poveri, ma belli dove uno dei protagonisti usciva proprio da un portone di piazza Navona, dove abitava con la sua numerosa famiglia. Non era solo un’attrazione per turisti la piazza, ma era spazio vivo, abitato, innervato di vita. La storia dei “deportati” poi finiva allo stesso modo “mi hanno aumentato l’affitto. Cifre assurde, E non me lo sono più potuto permettere di stare lì. Ma io resterò romano del centro. Non c’entro nulla io con Primavalle”. Ed era tutto lì il problema. Aver spinto i residenti fuori da quartieri, in quel caso il centro, per speculare e guadagnare di più da ogni metro quadro. Da quelle chiacchierate ho imparato che senza residenti, senza persone che agli spazi danno un senso quotidiano e costante, non c’è una città. E se questo era evidente, con quel vuoto e quel silenzio assordante, nel centro, lo stava diventando anche nel mio quartiere di periferia a cui l’appellativo di cool o di Greenwich Village della Capitale stava dando in fondo un po’ alla testa.
Il Covid 19 con la sua brutalità ci aveva messo davanti alla nostra di brutalità.
Al fallimento di un modello di città capitalistica basata solo sul profitto e mai sul benessere di chi abita gli spazi o solamente li visita con rispetto.
Era possibile, si chiedevano in molti (non solo a Roma) salvare i quartieri? E la città intera? E L’Italia?


Mi sono resa conto, passeggiando, che in quella che il governo aveva definito fase 2, fase della convivenza con il virus, stavamo ricreando un equilibrio nuovo e temporaneo insieme. La via era costellata di corpi che seppur a distanza occupavano uno spazio con biciclette, monopattini, spese al mercato, bambini. Corpi che finalmente avevano uno spazio senza dover fare lo slalom tra i camerieri che portavano gli aperitivi ad uno dei cento tavolini che erano attaccati l’uno sull’altro nel piazzale denominato isola pedonale. Spesso non si capiva più quale tavolino appartenesse a chi. I bar erano talmente piccoli e talmente appiccicati che grande confusione regnava sotto il sole. Ma con il Covid-19 il residente aveva ritrovato il suo spazio vitale. E anche i piccoli negozietti che vendevano il pane e i generi alimentari, negozi destinati a chiudere per la concorrenza dei grandi centri e per la pervasività della movida, avevano ritrovato una insperata resurrezione in quel lockdown imprevisto. Più di una persona poi evocava il tempo in cui nel quartiere, in via Macerata (occupata militarmente dallo spaccio) e via Ascoli Piceno, si trovavano anche sartorie e mercerie. La voglia di una biodiversità dal 4 maggio è cresciuta negli abitanti che ormai vanno dicendo senza peli sulla lingua che la normalità di prima era un problema. Ma quella normalità malata oggi sta rivendicando i propri spazi. E li sta rivendicando un po’ ovunque.
A Venezia, leggevo su un giornale, c’è chi sta già comprando le case che i pochi residenti superstiti stanno vendendo “perché la crisi che sta arrivando mi fa paura”. Ho mandato un messaggio ad una mia amica a proposito e le ho chiesto “Ma è vero quello che scrivono su Venezia?” e lei “purtroppo si. Dobbiamo vigilare”. Quella parola vigilare mi risuona ancora nelle orecchie con un eco sordo e pauroso. Forse anch’io e gli altri abitanti del quartiere Pigneto dobbiamo vigilare il Pigneto come Venezia. Guardando l’isola pedonale del quartiere con i suoi alberelli e le sue panchine sgarruppate mi sembra quasi di stare in un Eden fuori dalla storia. Ma è bene ricordare che una fotografia, anche se di rara bellezza, però non rivela quanto dolore si nasconde dietro un’immagine apparentemente bucolica. Ma non voglio pensare al dolore. Voglio essere propositiva, creativa, viva. Chiudo gli occhi allora e cerco di immaginarmi il quartiere se davvero ci fosse un piano reale per rendere vivibili le nostre città. Invece di mille localini tutti uguali nel mio sogno ad occhi aperti vedo una ludoteca, una biblioteca (che c’è) ancora più grande, più librerie, un teatro. E ci sarebbe un museo.
Ho sempre pensato che la storia di una città grande come Roma non può trovare casa solo al centro, che le sue periferie hanno molto da dire alla città. A pochi chilometri, a due fermate di tram dal Pigneto, c’è del resto la maestosa Porta Maggiore, uno dei monumenti romani trattati peggio in assoluto dall’urbe, e intorno i ruderi di antichissimi acquedotti romani. Il quartiere poi è avvolto dal Novecento e dalla sua storia travagliata fatta di ferite di guerra, resistenza e sogni cinematografici visto che per molto tempo fu un quartiere usato come set di film popolari. Qui Visconti aveva girato Bellissima e Nanni Loy Un borghese piccolo, piccolo. D’altronde c’era il precedente della Roma del neorealismo e subito dopo il Pigneto di Pasolini (celebrati dai murales di Via Fanfulla da Lodi) che ha dato al quartiere quasi un’aura mitologica. E tutto questo andava raccontato a Roma, con una serie di musei diffusi e spazi. Invece purtroppo il presente è tutto una sala bingo e movida, persino a Via Monteccuccoli, la via dove Anna Magnani aveva girato la scena più famosa del cinema italiano c’è un bingo. Mi tocca aprire gli occhi, smettere di sognare e chiedermi se possiamo davvero cambiare il Pigneto? Se siamo ancora in tempo? Dopo questi sogni, dove spesso i miei piedi mi portano proprio in uno dei luoghi mitici del quartiere, me ne torno mogia a casa. Con quell’inquietitudine di non veder esaudita nemmeno la minima parte di quello che si è sognato.
Sulla strada del ritorno all’ovile capita sempre di incrociare un paio di persone per la via, salutare, trovare dietro le mascherine quel calore quotidiano che Roma ancora, dopo duemila anni, non ha perso. E anche a casa i sogni mi inseguono. Il palazzo dove vivo è stato costruito negli anni Trenta, e probabilmente quel carro armato tedesco, quello che faceva occhiolino da tutti i bar, il palazzo l’aveva sfiorato mille e mille volte. Ero in una casa che aveva attraversato la storia, piccola, senza balcone come le tante case del quartiere destinate ai ferrovieri, ma dalle mure alte, tanto che ho usato quell’altezza per metterci un soppalco. Un giorno cambierò casa, ma questo quartiere durante questa crisi del Covid-19 non mi ha lasciato sola. I suoi suoni, le parole dei vicini, la profumeria sotto casa, il ragazzo piemontese dell’alimentare, amici che ho incrociato nelle file (mai lunghissime), il verde delle sue foglie, la sua storia intrecciata con la mia, la sua mano benevola che non ha mai messo distanza tra me e l’essenza del quartiere… tutto mi è stato di conforto. Stare qui ha salvato il mio equilibrio mentale. In altri posti, anche della stessa mia città, forse non sarebbe stato lo stesso.
E forse questo suo essere un paese dentro la città andrebbe preservato e non svenduto al migliore offerente.
Nessuno sa dire ora che vita avrà il Pigneto dopo il coronavirus. Come non si sa nulla sul destino di Roma o di New York o Mumbai o Venezia. Ma già si sta delineando nella testa di molti un quartiere a misura d’uomo. Non una fuga dal borgo, ma trasformare pezzi di città e magari la città in un conglomerato di borghi autosostenibili e collegati tra loro. Un luogo dove nessuno si senta più solo. Come di fatto è successo quando tutti ci siamo affacciati alla finestra e abbiamo cantato insieme fino a che il fiato non ci finisse Bella Ciao.
Il virus non è un nemico come quello che azionava il carro armato tedesco delle foto, ma non è nemmeno nostro amico.
Ci ha solo dotato di occhiali potenti, occhiali che ci mancavano, per vedere finalmente quanto patrimonio abbiamo accanto a noi e salvarlo dal nemico di sempre: il profitto a tutti i costi.

Questo è il secondo di cinque reportage (simbolicamente uno per continente) sui tempi del coronavirus commissionati dal Center for the Humanities and Social Change di Ca’ Foscari a importanti scrittori internazionali. Il primo della serie è Il mondo alla rovescia. Reportage dal Kenya di Stanley Gazemba

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