Statuto dei lavoratori. Vicenda emblematica del riformismo e dei suoi nemici

Cinquant’anni fa, con Brodolini prima e Donat Cattin dopo, lavorarono Gino Giugni, Federico Mancini e Pierre Carniti: esponenti di una cultura riformista non sempre apprezzata negli ambienti di provenienza, ma sempre aggiornata alle evidenze della realtà e rispettosa dei principi del pluralismo sociale.
LUIGI COVATTA
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Nel 1982, alla Conferenza socialista di Rimini, Gino Giugni propose alle parti sociali un pit stop per lo Statuto entrato in vigore dodici anni prima. Non lo preoccupava solo l’articolo 18 (la cui formulazione, peraltro, aveva dovuto subire in Parlamento). Lo preoccupava soprattutto la giurisprudenza che andavano elaborando i “pretori d’assalto”, e che rischiava di inceppare un meccanismo delicato come era quello messo in campo dalla legge 300.

La proposta cadde nel vuoto. Non la raccolsero le organizzazioni sindacali: ma non interessò neanche a Confindustria, che pure non perdeva occasione per lamentare i danni prodotti dalla rigidità di certe norme, per non parlare dell’incentivo al nanismo industriale rappresentato dalle franchigie concesse alle imprese con meno di dieci dipendenti. E fu così che si rinunciò ad un confronto che sarebbe stato certamente utile alla vigilia di una legislatura in cui, con la vertenza sulla scala mobile, il rapporto fra legge e contratto avrebbe affrontato la prova del fuoco.

La vicenda testimonia meglio di molte altre delle difficoltà che il riformismo ha incontrato nella storia dell’Italia repubblicana: osteggiato ovviamente dalla destra conservatrice (la quale peraltro in quegli anni scaricò le sue artiglierie soprattutto contro la nazionalizzazione dell’industria elettrica); ma malinteso anche a sinistra.

Ora Luciana Castellina, sul manifesto, riconosce che – mentre “oggi stringiamo i denti per difendere ciò che ne è rimasto” – all’epoca lo Statuto non piacque né alla sinistra extraparlamentare né al Pci: e sul Riformista Marco Bentivogli ricorda che all’inizio non piacque nemmeno ad un bonzo sindacale non proprio di sinistra come Bruno Storti, il quale obiettò che “il nostro Statuto si chiama contratto”.

Pierre Carniti

Inutile dire che se nel 1982 la proposta di Giugni fosse stata accolta ora si stringerebbero i denti per difendere qualcos’altro, e non si sarebbero dovute fare otto riforme del mercato del lavoro in dieci anni, come deplora Bentivogli. Ma il fatto è che in Italia non conta molto che cosa si riforma e come lo si fa: conta molto di più chi riforma, e quanto consenso potrà acquisire di conseguenza. Fu così per la scala mobile, quando l’opposizione del Pci mirava a mantenere il monopolio delle politiche del lavoro: ed è stato così anche per lo Statuto.

Giacomo Brodolini

Cinquant’anni fa, con Brodolini prima e Donat Cattin dopo, lavorarono Gino Giugni, Federico Mancini e Pierre Carniti: esponenti di una cultura riformista non sempre apprezzata negli ambienti di provenienza, ma sempre aggiornata alle evidenze della realtà e rispettosa dei principi del pluralismo sociale. Perciò optarono per una legislazione di sostegno alle relazioni industriali ed evitarono di procedere ad una sorta di esproprio proletario delle imprese: ma proprio per questo postulavano un’adeguata manutenzione dello strumento legislativo che lo adeguasse all’evoluzione dei rapporti di produzione.

Gino Giugni

Ora celebriamo il 50° dello Statuto in un contesto devastato dalla pandemia, e nessuno si permette più di negare il ruolo dello Stato per il rilancio dell’economia. Ma la pigrizia della politica non riesce ad immaginare forme di governance diverse da quelle tradizionali. Al posto di Giugni e di Mancini ci sono task forces raccogliticce, e l’intervento dello Stato nella migliore delle ipotesi si riduce a far decollare un helycopter money: e non c’è bisogno di essere nostalgici della gran bontà de’ cavalieri antiqui per rimpiangere la programmazione. Nella peggiore delle ipotesi, poi, c’è chi rivendica la partecipazione statale nella direzione delle imprese beneficiarie dei sussidi: per non parlare della polemica sgangherata che si è accesa a proposito del finanziamento di Fca Italia. A nessuno però è venuto in mente che – proprio grazie allo Statuto che ha dato veste giuridica alle relazioni industriali – si potrebbero finalmente sperimentare quelle forme di cogestione che in Italia sono sempre state osteggiate da sinistra e da destra: da chi concepiva il conflitto come l’anticamera della rivoluzione e da chi voleva continuare a fare il padrone delle ferriere.

D’altra parte, se al posto di Giugni c’è Colao, non si può ignorare che al posto di Brodolini e Donat Cattin ci sono Di Maio e la Catalfo: cioè che il riformismo italiano, rappresentato nel secolo scorso dai socialisti e dal cattolicesimo sociale e già allora minoritario, è stato sostituito da un populismo senza principi: che quando non ha prodotto disastri col “decreto dignità” ha affidato le politiche attive del lavoro ad un signore che si è rifugiato sulle rive del Mississippi e da lì non ha ancora fatto pervenire le sue dimissioni.

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Statuto dei lavoratori. Vicenda emblematica del riformismo e dei suoi nemici ultima modifica: 2020-05-21T18:51:50+02:00 da LUIGI COVATTA
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