Nei giorni delle grandi alluvioni, di eccezionali acque alte a Venezia, dell’esondazione di fiumi, di devastanti frane, o peggio, di terremoti, tutti diciamo che la prima cosa da fare è mettere in sicurezza il Territorio. Immediatamente partono dichiarazioni e promesse governative per stanziamenti e infrastrutture di varia portata e urgenza al fine di avviare un’effettiva manutenzione dell’Italia, mettendo in sicurezza città, montagne, pianure e popolazioni. Poi, passato il disastro, i buoni propositi lasciano il passo a precedenti o a successive immediatezze e così, di fronte ad un nuovo evento calamitoso, i problemi ritornano ma in un senso ancora più pesante.
Più che scontato il diffondersi di sentimenti di sfiducia verso la politica e le sue istituzioni, il che non è affatto un bene per la nostra democrazia, né per la tenuta di progetti riformatori costretti a superare ostacoli che a seguito di ciò si fanno assai difficili. Di sicuro resi più gravi da un clima di diffuso scetticismo, se non di un rifiuto di tipo antidemocratico capace di avvelenare l’opinione pubblica.
Con la pandemia Covid auguriamoci di non rischiare le stesse dimenticanze, quelle che darebbero luogo, da lì a poco, a insuperabili difficoltà e che farebbero scrivere: ci risiamo, i soliti “disastri annunciati”.
Il Covid-19 ha rappresentato un epifenomeno di portata mondiale, ma non è stato il primo, e non sarà l’ultimo, perché le prossime sfide con alta contagiosità sociale sono alle porte. Nei soli ultimi vent’anni ne abbiamo avute quattro (Sars, Mers, Ebola, Covid-19), aspettiamocene delle altre.
Inoltre, se la pandemia Covid-19 è stata di portata mondiale, vero è che ogni paese ha risposto con la propria organizzazione sanitaria, diversa da stato a stato. Questo rende ragione anche della diversità dei numeri dei contagiati, di ammalati da virus, dei decessi e dei risultati delle campagne di screening nella tutela dei diversi ambiti territoriali.
Tanti errori strategici, soprattutto organizzativi, si sono verificati nella fase iniziale Covid. In Italia la risposta al contagio e alla malattia è stata solo ospedaliera, mettendo in stato di fortissima crisi qualsiasi ospedale direttamente coinvolto nelle necessità di isolamento e controllo del contagio.
E bloccando in tal modo tutti i percorsi di cura degli altri pazienti. Di qui un enorme problema attuale da porre in relazione alla fase di riapertura e ripresa di un’assistenza globale.

L’importanza dell’intervento sanitario territoriale è stato sottovalutato, o peggio, non c’è stato e questo è stato un grave errore che ha colpito dolorosamente molto personale sanitario e infermieristico, trovatosi indifeso soprattutto nelle prime settimane dell’epidemia.
Dopo le pandemie e le malattie contagiose che hanno investito la specie umana negli ultimi decenni, è fondamentale che le organizzazioni sanitarie dei paesi economicamente avanzati siano in grado di trovarsi pronte a sostenere una “emergenza sanitaria” e un “allarme sociale” come quelli causati dal coronavirus Covid-19. A questo fine, diviene indispensabile investire nel tempo in un’organizzazione di rete sanitaria globale tra territorio e strutture logistiche, tanto da non trovarsi senza ombrello nel momento della pioggia.
Facciamo un breve excursus su come è nato e s’è evoluto da un punto di vista legislativo e organizzativo il nostro Sistema sanitario nazionale (Ssn).
I servizi sanitari nella nostra nascente Italia repubblicana erano originariamente gestiti delle casse mutualistiche (Istituzione dell’Inam nel 1943 e recepita dalla Repubblica Italiana nel 1947), ma non per tutti i cittadini. Passarono molti anni e solo nel 1978 è istituito il Ssn attraverso la legge del 23 dicembre 1978 n. 833. Così i servizi sanitari mutualistici e non per tutti fino ad allora, passarono totalmente a carico dello Stato, operativi su tutto il territorio nazionale come Unità sanitarie locali (Usl), in ottemperanza a quanto già predisposto dall’articolo 32 della nostra Costituzione (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”). Passano circa quindici anni e col d. lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, le Usl sono trasformate in Asl (Aziende sanitarie locali), dotate di autonomia, svincolate da un’organizzazione centrale a livello nazionale e affidate a responsabilità diretta delle Regioni. Pertanto, dall’inizio del 1993, l’Asl diventa un organo di competenza delle Regioni.
Infatti, secondo l’art. 3 d.lgs 30 dicembre 1992, n. 502: “in funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le Unità sanitarie locali si costituiscono in Aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale”. Ciascuna Asl nasce per essere organizzata nelle seguenti strutture tecnico-funzionali complesse: presidio ospedaliero; distretto ospedaliero; distretto sanitario; dipartimenti. I grandi ospedali sono quindi trasformati in aziende ospedaliere, con compiti funzionali all’Azienda sanitaria locale di pertinenza e a discrezione della propria Regione.
Importante per l’organizzazione territoriale risulterà essere anche l’istituzione dei Dipartimenti (con art. 17-bis, comma 1, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 che recita “l’organizzazione dipartimentale è il modello ordinario di gestione operativa di tutte le attività”).
Le Asl sono organizzate in servizi sanitari territoriali con l’istituzione dei distretti, dipartimenti e presidi ospedalieri. In particolare un’Asl comprenderà: consultorio, dipartimento di prevenzione, servizio di continuità assistenziale, servizio per le dipendenze patologiche, ambulatori per visite ed esami specialistici, assistenza domiciliare e in residenze socio sanitarie, servizi per la salute mentale, SerT, Servizio veterinario, Hospice, Servizi prenotazione prestazioni (Cup), medici di famiglia convenzionati e pediatra di libera scelta. Le Asl saranno organizzate in distretti, presidi, dipartimenti, servizi, unità operative, uffici e di quant’altro utile a una valida organizzazione territoriale.

L’istituzione del distretto ha rappresentato il salto di qualità nel territorio, il campo di azione per meglio integrare cittadino e ospedali finalizzando azioni socio sanitarie e assistenziali di qualità. Di fatto, creando una connotazione di stretto legame tra cittadino e istituzioni sanitarie per la prevenzione e i percorsi di cura. A leggere quali e quanti sforzi legislativi e attuativi, nonché finanziari, per la riorganizzazione sanitaria siano stati fatti in circa mezzo secolo di storia repubblicana, se ne ricava un modello assistenziale di grande valore, che unisce e integra un’assistenza sanitaria ospedaliera con una rete territoriale solida sul tema salute. Una sorta di ospedale aperto, in continua attività di controllo del territorio, tale da garantire servizi assistenziali adeguati a percorsi di cura efficaci e solidali.
Basti pensare alla differenza che c’è fra il nostro modello assistenziale e quello rimasto per strada in un paese occidentale-modello come gli Stati Uniti d’America, dov’è completamente naufragato il tentativo della riforma sanitaria voluto da Obama con l’Obamacare.
Ma è con la tempesta Covid-19 che il nostro Ssn corre ai ripari e s’irrobustisce e si rafforza ulteriormente con l’istituzione delle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca) Covid-19 in tutte le Regioni (art. 8 del D. L. 14/2020). Il governo afferma con questa legge che si è deciso di istituire “una nuova unità organizzativa” in affiancamento all’Unità sanitaria di continuità assistenziale già esistente (al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l’attività assistenziale ordinaria).
Le Usca Covid s’occuperanno della gestione domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. In verità a completamento di questa opera organizzativa promossa dal governo andrebbero ridefinite le tipologie e le relazioni funzionali tra gli ospedali territoriali e le aziende ospedaliere (ospedali-azienda). E allora? In un Ssn come quello italiano sembrerebbe più che facile separare il pulito dallo sporco, le palline bianche da quelle nere, il contagiato e il sospetto-tale da chi ne è ancora immune.
Ciò nonostante, perché tutta questa paura, tutto questo panico subito emerso nell’affrontare un’epidemia come quella del coronavirus Covid-19 in un SSN così ben organizzato? Le task force improvvisate dal governo centrale e da ogni Regione, ognuna con i propri distinguo e composte da igienisti, epidemiologi, virologi, matematici esperti delle curve di contagio, e con l’Italia chiusa in casa e incollata ai televisori avida di conoscere i dati dell’ultimo bollettino Covid giornaliero, non hanno fatto altro che diffondere una marea di comunicazioni dovute a scienziati di sicuro esperti, però spesso ognuno su posizioni proprie. Di qui pareri disconnessi tra di loro, incertezze metodologiche su piani disciplinari diversi, così via allarmando.
Ancora, la necessità vertiginosa di reperire posti letto, dispositivi di protezione individuali, istituzione di ospedali Covid in aziende ospedaliere (con interruzione di cure per pazienti oncologici e cardiovascolari gravi), quando sarebbe bastato attivare un isolamento vero ed efficace per la salvaguardia del territorio mediante ospedali territoriali pronti all’uso perché già attivi.
E poi tutto quel discutere se tampone faringeo sì, tampone no, sapendo fin da subito che era e rimane l’unico strumento diagnostico efficace per la diagnosi su larga scala della popolazione. Certo le risorse economiche e gli sforzi organizzativi in base al numero dei contagiati sarebbe apparsa come un’opera ciclopica, comunque possibile perché l’importante sarebbe stato crederci, costruendo un consenso univoco che potesse emergere in sintonia tra studiosi e politici.
Il Covid-19 che ci ha fatto veramente paura è alle spalle. Diciamolo con gioia. Il virus, certo, non è completamente sconfitto, ma sembra un nemico in profonda agonia o un grande nemico in ritirata e che sembra aver avuto pietà di noi. Non credo ai timori per un un suo immediato ritorno e con le auto delle guardie municipali di nuovo per strada ordinandoci di restare in casa. Sembra passato un secolo da allora, tanta è la voglia di rimuovere questi incubi bui e dolorosi di prigionia domestica. Le giornate trascorse appiccicati al video per seguire la curva dei contagi e il numero impressionante dei morti nella lista finale.

Sì, per davvero impressionante il numero delle vittime, compresi i morti sul campo, ovvero i tanti medici, sacerdoti e operatori sanitari. Il dramma dei defunti senza cerimonie funebri e senza parenti con la speranza che le ceneri post-cremazione siano tutte ritornate al proprio domicilio. Ingenti i costi sociali e sanitari, di cui oggi non possiamo prevedere del tutto che ricadute avranno in campo economico-sociale.
Da non sottovalutare la grande valorizzazione dei social, che ci hanno permesso, nel momento del peggior biasimo collettivo verso di loro, uno spazio nuovo per essenziali rapporti sociali, tenendoci legati, attimo dopo attimo, a questi guinzagli elettronici che ci hanno aiutato nel vivere giorni e settimane difficili. Il valore della tecnologia digitale e la scoperta di skills (astuzie) in ogni ambito, ha permesso alla scuola, a molti lavoratori, a tanti cicli produttivi, di non fermarsi quando tutto sembrava fermarsi. Infine, da non dimenticare: tutti noi abbiamo appreso, con senso civico e individuali responsabilità, comportamenti che oggi ci vengono naturali o quasi.
Questo per dire che tre cose sono e saranno fondamentali, se vogliamo tenere lontano il contagio dal virus che tanto male ci ha fatto.
- 1. Uso della mascherina.
- 2. Lavarsi spesso e bene le mani (opzionale l’uso del guanto).
- 3. Stare un po’ lontani gli uni dagli altri (un metro, due metri..), il cosiddetto distanziamento sociale.
Da un punto di vista medico, ricorderemo che il vero primo antidoto alla malattia contagiosa Covid-19 si è confermato essere l’isolamento, (comportamento efficace noto da sempre e che ha sempre funzionato in tutte le malattie infettive a noi note). Durante le discordanze terapeutiche iniziali il cambio di passo virtuoso è stato sicuramente l’introduzione dell’Eparina, usata per evitare fenomeni generalizzati di vasculiti con complicanze gravi soprattutto per i pazienti più fragili.
Da ultimo: non resta che aspettare il vaccino e che ciò avvenga il primo possibile.

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