Il virus si sta rivelando un grande editore, oltre che un signore della morte. Le edicole, e le librerie che sono riuscite ad aprire, traboccano di instant book, che propongono rassegne, cortometraggi, narrazioni, ricapitolazione su questi tremendi novanta giorni che abbiamo alle spalle.
Donatella Di Cesare prova a misurarsi con la velocità dell’instant book attraverso un saggio socio filosofico che affronta il virus per quello che è: un cambiamento antropologico prima e più che un’emergenza sanitaria. La citazione in esergo di Ivan Illich, uno straordinario quanto assolutamente originale ed eccentrico critico della modernità, che proprio sulla socializzazione della malattia e non della sanità aveva concentrato la sua ricerca negli anni Ottanta del Novecento, ci aiuta a leggere le novanta pagine che scorrono velocemente.
L’economia organizzata in vista dello star meglio è il principale ostacolo allo star bene.
Un pensiero che attraversa tutta la riflessione della filosofa che si appoggia alla sua intuizione che descrisse fin da febbraio in un intervento su La lettura, il supplemento letterario del Corriere della sera, dove, eravamo proprio ai prodromi del contagio, ci parlò di democrazia immunitaria, come premessa e conseguenza di una eventuale pandemia.

Premessa e conseguenza perché quella forma di governance delle comunità, statali o locali, basate sull’esclusione, sul potere di tener fuori l’altro, l’estraneo, il diverso, è una tendenza che Di Cesare avverte da tempo serpeggiare nelle pieghe della politica globale. La democrazia immunitaria di cui parla Di Cesare è un meccanismo socioeconomico che cerca uno spazio di espansione facendo convivere mercato e nazione, globalizzazione e separazione. Una nuova marca di liberismo che prova a integrare, esorcizzandola, la dialettica democratica in un sistema che scambia sicurezza per uniformità.
Scrive infatti Di Cesare
se al cittadino greco interessava la condivisione del potere, al cittadino della democrazia immunitaria interessa innanzitutto la propria sicurezza, goduta nella nicchia privata e gentilmente concessa dall’autorità politica. Perciò confonde garanzie e libertà.
Una monade che vaga in una concatenazione di nicchie sempre alla ricerca di autorità compiacenti che gli assicurino appunto che la sua libertà coincide esattamente con le garanzie individuali. Sue e non di tutti, esclusive e non reciproche.
Perfino la mascherina, non dico il lockdown, è vissuta con insofferenza perché il simbolo di un coinvolgimento comunitario, di una responsabilità reciproca, di un’invasione del potere statale.
Paradossalmente, lo stesso cittadino ribelle alle cautele sanitarie pubbliche poi pretende l’assoluta immunità, la sua sicurezza come titolo personale e non condizione collettiva.
Si può sintetizzare nella formula “Noli me tangere” [aggiunge Di Cesare]. È tutto quello che un cittadino esige dalla democrazia: non toccarmi”.

In questo snodo fra garanzie personali e ambizione di libertà esclusiva si sta consumando l’idea di democrazia. Il punto di frequenza, la causa di fragilità di questa ambizione neodannunziana che mira – l’ha scritto il 2 aprile scorso The Economist in un editoriale dall’emblematico titolo di A grim calculus – a riprendere la corsa identitaria al profitto, costi quel che costi, sta proprio negli strumenti di governance. Nella nuova società tecnologica è la tecnicalità computazionale, dove conta chi canta, a generare le forme del potere, in cui politica e istituzione diventano gregari.
Il modello – si legge nel libro – è quello della tecnica: chi lo impiega viene impiegato, chi ne dispone viene scalzato. La governance politico-amministrativa, che governa all’insegna dell’eccezione, a sua volta è governata da quel che si rivela ingovernabile.
Qui sta il gorgo concettuale più interessante del saggio: una mappa di poteri insorgenti non omologabili né riconducibili, meccanicamente, al controllo del capitale. Chi sta guidando la strategia di contrasto al virus se non sistemi tecnoscientifici basati sul calcolo predittivo e sulla capacità di processare dati esclusivi? E questi poteri sono connessi alle élite finanziarie internazionali, che in qualche modo sono rintracciabili fra i beneficiari della democrazia immunitaria?
L’emergere di un nuovo superpartito degli esperti, dei calcolanti, è solo un’articolazione dell’egemonia proprietaria del capitale o si sta affacciando un nuovo sistema di potere che proprio sulla base del calcolo, della capacità di riprodurre artificialmente le variabili più impreviste del mercato, può gestire l’insieme delle relazioni sociali?
Il richiamo che si trova nel libro al noto saggio di Giorgio Agamben Homo Sacer. Il Potere sovrano e la nuda vita, del 1995, ci mostra la matrice dell’attuale deriva immunitaria.
Un’origine che è rintracciata negli istinti della stessa democrazia occidentale post bellica, dove, ripercorrendo il pensiero di Carl Schimitt, Agamben ribadisce come sia potere solo quella funzione che possa proclamare lo stato d’emergenza, e gestirlo, discrezionalmente. È questo il buco nero che alimenta la ricorrente cultura dei pieni poteri, dei commissariamenti, delle semplificazioni, in cui ogni controllo è burocrazia e ogni burocrazia è democrazia.

Il coronavirus, che già nel suo nome rimanda alla sovranità regale, nota Di Cesare, rappresenta di per sé uno spazio di contesa, di conflitto, proprio sulla torsione dei poteri: la democrazia nell’emergenza diventa governance o governabilità? Ancora di più, insiste l’autrice, citando Roberto Esposito: la contrapposizione è proprio fra immunità e comunità. Da una parte un’idea di convivenza esclusivamente ridotta alla propria affermazione individuale, dall’altra la relazione reciproca con gli altri come motore dello sviluppo. In questa contrapposizione si gioca la partita della politica. Infatti scrive:
ma proprio l’anestesia del cittadino immunizzato, la bassa intensità delle sue passioni politiche, che lo rendono spettatore impassibile del disastro del mondo sono anche la sua condanna.
Stato terapeutico, potenza di calcolo, democrazia immunitaria sono categorie che sembrano tutte prescindere, anzi escludere e rimuovere la cultura del conflitto, la pratica del negoziato, i linguaggi della contrattazione degli interessi come esperienza per modificare, orientare, formattare l’evoluzione della convivenza.
Nella conclusione del suo saggio l’autrice affronta il nodo della nuova realtà virtuale, di quella forzata transizione che si è dovuta promuovere dall’analogico al digitale nel lavoro, nello studio, nell’amministrazione.
È questo oggi l’orizzonte di una nuova democrazia che al tempo del distanziamento deve ritrovare il suo calore nella capacità di competizione degli utenti con i proprietari delle piattaforme. Il digitale è un aggettivo e non un sostantivo, una qualificazione di un sistema di relazioni sociali, intessute di primati, poteri ed egemonie, e non un’eterea dimensione extrasensoriale della vita. In queste relazioni che si realizzano mediante linguaggi virtuali, domini e subalternità. Nulla di asettico, ma molto ancora di sconosciuto. Ridare a questa forma della vita, come sembra trasparire dalla riflessione di Di Cesare, non il carattere di un rassegnarsi a un cambio di specie ma il prolungamento di una conflittualità sociale che dal lavoro si sposta sulla struttura e semantica del sapere, dai big data agli algoritmi predittivi, significa dare anche alla pandemia lo spessore di una storia che rimane profondamente umana, proprio perché contendibile e contesa.


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