Teatro o non teatro? Questo è il dilemma. Torneremo presto a teatro, a vedere delle persone in carne e ossa sulla scena, o continueremo a guardare uno schermo? Ma soprattutto: come sta il teatro, qual è il suo stato di salute, il suo stato d’animo, il suo umore? Come avrà vissuto questi mesi di chiusura forzata, e come vede il suo futuro, nel breve e nel medio termine? Da qui all’inverno, almeno, la situazione è incerta per tutti. C’è un po’ di preoccupazione, essendo quello dello spettacolo, incluso quindi il teatro, “arte fisica” per eccellenza, uno dei settori più colpiti e che rischiano di più, per la loro natura, di risentire della situazione critica che stiamo vivendo.
È difficile immaginare il telelavoro per una compagnia teatrale, difficile immaginare come mantenere le distanze di sicurezza in scena, come recitare con una mascherina. E pensando a una riapertura, di certo i teatri vanno ripensati per un pubblico a distanza di sicurezza. Insomma, gli interrogativi, pratici, sono molti. E a questi si aggiunge una preoccupazione seria, riguardo alla sopravvivenza stessa di molte compagnie e associazioni. Si sa che la cultura, soprattutto quella piccola e legata ai territori, è tanto importante per le comunità in cui opera quanto è fragile, e quello che stiamo vivendo sta mettendo a dura prova la resistenza di molti.
Tuttavia, il teatro sta reagendo, resiste, si adatta, con fantasia e immaginazione, che sono sue caratteristiche. E per fortuna. Ma scostiamo (virtualmente) il sipario, infiliamoci dietro le quinte e andiamo a parlare direttamente con qualcuno del mestiere, che pratica questa arte da molto e il teatro lo conosce bene, e che in questi mesi non si è fermato e ha trasformato questo confinamento in un tempo di ricerca e lavoro. Non per niente the show must go on.
Dietro le quinte incontriamo Ferruccio Merisi e Lucia Zaghet, della Scuola Sperimentale dell’Attore di Pordenone, fondata nel 1990 e attiva quindi da ormai trent’anni a livello locale, nazionale e internazionale, nell’ambito della ricerca e della produzione teatrale, della formazione attoriale e artigianale (per le arti connesse al teatro), della promozione culturale, dell’utilizzo sociale del teatro e della pedagogia teatrale.
Ferruccio, avresti mai immaginato di vivere in un mondo con i teatri chiusi?
Sinceramente no. Perfino sotto i bombardamenti di Parigi i teatri erano aperti: i più avveduti avevano trasformato i sotterranei, che a quell’epoca c’erano in tutti i palazzi, in un rifugio per gli spettatori nel caso ci fosse un allarme durante la rappresentazione. Quindi è la prima volta che come categoria viviamo un blocco così totale.
E come state vivendo questa situazione?
Diciamo che con un po’ di fortuna andrà bene, se andrà male la pagheremo, amaramente. Ma il teatro è un essere vivente e quindi combatte per adattarsi all’ambiente, anche quando questo muta tragicamente. Pochi giorni fa ero a passeggio con mia figlia e ho visto una cosa incredibile: un papavero nel bel mezzo dell’asfalto! C’erano così poche macchine che è spuntato in mezzo alla strada. E allora c’è da sperare che il teatro sia un po’ così, che in una situazione del genere cavalchi la sua forza vitale e riesca a spuntare, in qualche modo.

C’è la possibilità di tornare presto a teatro?
La questione adesso è: come possiamo celebrare i nostri riti in sicurezza? A livello nazionale, la discussione è su come trasformare le platee perché si mantengano le giuste distanze, come stare sul palco, con o senza mascherina… insomma, come trasformare la fruizione teatrale in modo che si possa riaprire in tutta sicurezza.
La grande domanda è: il pubblico ci verrà? Da come hanno risposto gli italiani finora, per esempio all’apertura dei bar, il pubblico ci andrà. Io pensavo: non ci andrà nessuno al bar, data la situazione, le modalità con cui riaprono, e invece ci va molta gente, moltissima, per la voglia di tornare alla “pseudonormalità”. Quindi io penso e spero che il pubblico verrà. Sicuramente andremo in sale più che dimezzate in quanto a capienza, con prenotazioni, posti per nuclei familiari, posti individuali separati di alcuni metri ecc…
E come state vivendo il cambiamento per quel che riguarda il lavoro, le prove, la messa in scena “in sicurezza”?
La mia fantasia coreografica mi dice: possiamo inventare degli spettacoli in cui gli attori stanno lontani, li muoviamo in coreografia rispettando il metro e mezzo. Interessante, come esercizio… a teatro tutto è possibile! Al momento stiamo facendo degli esperimenti. Su come stare vicini tra di noi con le mascherine, ad esempio, trasformando le mascherine in maschere: per adesso di animali, poi faremo altra ricerca. Il teatro è nato con la maschera, pensiamo al teatro greco; quello che vogliamo è trasformare il filtro antivirale in una parte di una maschera che abbia una funzione teatrale estetica.
So che avete cominciato a lavorare molto con il video.
Sì. L’altro esperimento che stiamo facendo è cercare di capire come il messaggio dal vivo riesce a passare anche nel video. Significa chiedersi in che formato, che caratteristiche deve avere, quanto deve durare, e come fare a rompere quella sensazione di estrema freddezza che ti da il video. Non si tratta solo si fare un video di uno spettacolo, ma di fare uno spettacolo per il video. Abbiamo fatto già degli esperimenti e ci sono state molte risposte interessanti, a cominciare da quella del pubblico che si fermava fuori della cancellata mentre eravamo nel giardino della nostra sede in diretta!
Penso che in futuro questa esperienza che stiamo facendo, di essere “costretti” nel web, sarà interessante mantenerla a fianco del teatro: un’altra cosa dal vivo fatta per il web. Un’estensione del teatro, forse. O magari diventerà un’arte a sé. Purché diventi arte. Quello che mi affascina di quest’arte è che è povera, un telefono o un computer sono alla portata di tutti. Ne facciamo un uso quotidiano, e l’arte è qualcosa che permette di andare al di là del quotidiano, lo trasforma in un “non quotidiano” e fa passare altre cose negli interstizi del linguaggio.

Questo lavoro con il video, con il telefono, ti affascina a tal punto che hai cominciato da poco a tenere un corso al riguardo, giusto?
Sì. D’altra parte la dimensione pedagogia è fondamentale per la nostra scuola, e interrompere mi dispiaceva. Ho pensato allora di fare un corso non di “recitazione” online, ma di “recitazione online”. Si parte da una domanda: cosa si può fare di artistico con un telefono? Cercheremo di rispondere nel corso, vedremo la differenza tra un messaggio privato e un messaggio artistico, il livello performativo artistico che si può fare davanti a una webcam… Abbiamo sempre chiamato i nostri corsi “laboratori”: ci sono delle idee di partenza, ma non si sa di preciso cosa succederà!
Mi sembra giusto, l’esito dell’esperimento si scoprirà alla fine!
Prima si accennava a usare la mascherina come elemento scenico: vorrei chiedere a Lucia com’è recitare con una mascherina…
Non è diverso in verità dall’avere un’altra maschera, o un oggetto di scena. Ogni strumento che utilizzi in teatro è sempre un limite, ma il combattimento con il limite ti da anche delle possibilità. La mascherina è sicuramente un limite con cui abbiamo dovuto combattere, ci abbiamo messo un po’ a capire come funzionava senza sollevarsi, senza andare negli occhi, senza cadere, come muovere la bocca, come fissare bene gli elastici, l’acconciatura.. Abbiamo dovuto fare un piccolo studio su come utilizzarla, ma in fondo non è molto diverso dallo studio che fai per qualsiasi altro oggetto o supporto che usi in scena. Per ora abbiamo lavorato con maschere di animali, perché l’animale ha un muso che ricorda l’immobilità che hai con una mascherina e perciò l’identificazione con l’animale è abbastanza facile. Adesso vogliamo capire come questo strumento può aprire ad altri tipi di personaggio e di racconto.

Ho visto che avete usato maschere di animali in un video dei Musicanti di Brema. I personaggi sono un asino, un cane…
…un gatto e un gallo. La storia è stata riscritta da Ferruccio che ha fatto anche tutto un lavoro di immaginazione e prove dal punto di vista scenico, perché gli attori rispettino le distanze di sicurezza. Quindi nei Musicanti di Brema c’è già in nuce un piccolo esperimento di come muovere gli attori in scena perché rispettino le distanze. Anche nelle prove abbiamo rispettato le distanze, invece di essere in quattro eravamo in due, e immaginavamo i movimenti degli altri.
E come vanno le prove?
La cosa di cui abbiamo più nostalgia in questo momento è la presenza del compagno. Vale per le prove di questo “esperimento scenico” dei Musicanti di Brema, ma soprattutto per quelle che facciamo a distanza dello spettacolo che avevamo in prova prima: quello è stato molto più doloroso da affrontare, per tutti… Perché nelle prove a distanza rinunci a due cose, fondamentalmente: prima di tutto alla presenza del compagno, che è indispensabile, perché dalla sua vicinanza ti arrivano tutta una serie di informazioni fisiche ed energetiche che vanno oltre le parole, è un flusso infinitamente più grande, e all’inizio ne senti moltissimo la mancanza.
E poi c’è la questione dello spazio. Non puoi usare più di due metri quadrati a casa, e la visione dello spazio è limitata dalle pareti della tua stanza. Quindi soffri dello spazio in due modi: della tua possibilità di occupare lo spazio e dell’orizzonte di spazio che una sala prove di solito ti regala.

Facendo le prove in videoconferenza, come si sopperisce a questi limiti?
Per lo spettacolo che era già stato provato dal vivo, con l’immaginazione. Quando proviamo non ci guardiamo sul video ma immaginiamo, visto che già era stato fatto un lavoro, i movimenti del personaggio del compagno nello spazio, anche se non c’è. Devi sviluppare molto l’immaginazione, che comunque in teatro è fondamentale. Ma, in maniera diciamo più precisa, in questo momento sviluppi l’immaginazione seguendo il suono del compagno, che tu comunque continui a sentire via internet. È come se ti creassi un personaggio a partire da una materia sonora, che è l’unica cosa che ti arriva dallo schermo. Perché il video non conta, è inutile: se guardi il tuo compagno nello schermo perdi completamente il senso di quello che stai facendo.
Immagino non sia facile.
Diciamo che oltre a questi esperimenti ci stiamo scervellando un po’ tutti nel nostro ambiente su come riprenderci gli spazi fisici, che è un orizzonte irrinunciabile. Quindi quello che si diceva prima sui distanziamenti eccetera, tenendo gli stessi spazi. Oppure facendoci venire delle idee per utilizzare gli spazi in tutt’altro modo…
Prima si accennava alla dimensione pedagogica che per voi è molto importante: lavorate molto con laboratori e corsi, anche con i bambini, tutte attività che purtroppo saranno saltate in questi mesi.
Da questo punto di vista abbiamo perso tantissimo, perché avevamo un calendario strapieno. Perché devo dire che negli ultimi anni ci stanno cercando molto, soprattutto le scuole. Credo che grazie a tantissimi anni di lavoro, una ventina, la didattica che si è andata formando lavorando con i bambini è diventata piuttosto precisa in termini di comunicazione e ascolto, comunicazione fisica e verbale. È diventata un’attività di cui i bambini sentono molto il bisogno. Vivono in un mondo in cui le esperienze fisiche e dirette sono rigidamente regolamentate, in cui gli spazi sono sempre più dedicati, e l’attraversamento trasversale e libero di uno spazio fisico è sempre più limitato, soprattutto in città, e quindi scoprono delle dimensioni della comunicazione fisica che li fa sbocciare come fiori. E si fidano moltissimo: senti proprio che ne hanno bisogno, che in qualche modo questo lavoro è andato a dare acqua a una sete effettiva e profonda.
Anche le maestre sono molto contente, perché vedono delle
ricadute oggettive in classe: migliora molto la dimensione dello stare bene
insieme, e di conseguenza migliora molto l’atmosfera che si riproduce in classe
anche quando non ci siamo.
E tutto questo è perduto, perché non si può gestire attraverso uno schermo: non
si basa solo su delle tecniche che proponi, ma passa attraverso la dimensione
dell’ascolto e della fiducia e della dignità dell’essere umano che tu crei solo
con la presenza fisica, in uno spazio fisico condiviso.
Un gran peccato…
Ci sta dispiacendo moltissimo. Da un punto di vista pratico nostro, perché è
comunque un’entrata economica importante che poi ci aiuta a fare il resto con
maggior sicurezza e indipendenza: le prove, il lavoro artistico e organizzativo.
Ma ci stiamo anche facendo molte domande su che cosa questo distanziamento
produce poi nei bambini. Però io tendo a non essere pessimista, nel senso che i
bambini sono organismi vitalissimi, con più facilità di tanti altri si adattano,
e appena sentono qualcosa di vivo ci si buttano, istintivamente. Mi è capitato
qualche giorno fa, uscendo dalla nostra sede, di vedere nel condominio di
fronte due sorelline che pattinavano nel terrazzino minuscolo, ma con tanta di
quella felicità che mi sono fermata a vedere questo miracolo, e loro mi hanno sorriso
e salutato! Credo che questo quadro corrisponda un po’ al papavero che spunta
dall’asfalto.
Ferruccio, voi organizzate ogni anno da molti anni a settembre un Master e un festival internazionale, l’“Arlecchino errante”, con un programma sempre ricco di spettacoli, incontri, conferenze, workshop, lezioni aperte, mostre… cosa ne sarà quest’anno? Immagino ci siano problemi a pensarlo.
Il problema non si pone per quanto riguarda il Master tanto dal punto di vista fisico, perché potrebbe essere più facile mettere in sicurezza un laboratorio come quello che uno spettacolo. Non ci siamo ancora mossi per ragioni diciamo “commerciali”: tutti i grandi appuntamenti che sono saltati adesso e salteranno a giugno e luglio andranno a finire a settembre, quindi ci sarà un intasamento di calendario dentro il quale per il momento non riusciamo a capire come inserire l’appuntamento, o se sia meglio spostarlo. Inoltre la maggior parte dei nostri frequentatori è gente di teatro che ha perso molte entrate in questo periodo e non so se avranno molto da investire. È un corso abbastanza economico il nostro, però è comunque una spesa che un allievo deve affrontare. Lo abbiamo già fatto altre volte di regalare la parte didattica, ma vitto e alloggio non possiamo. Siamo quindi un po’ cauti, ci prendiamo del tempo per pensare come riformularlo. Una cosa è certa, saltarlo mai: andiamo anche solo a fare un esercizio e piantiamo un papavero sull’asfalto, ma il 2020 sarà comunque onorato.

Nell’attesa che si possa tornare a teatro, intanto avete dato vita ai Mercoledì alle Diciannove, spettacoli in diretta Facebook.
Sì, in diretta dalla nostra sede, o dal giardino. Tutti gli anni a maggio cominciavamo i nostri “spettacoli delle 19”, e ci siamo detti ok continuiamo, su Facebook. Quello che sogniamo è che, a poco a poco, mettiamo delle sedie vuote, poi qualcuno dalla cancellata lo portiamo dentro… ci piacerebbe trasformare il nostro giardino in un laboratorio di sperimentazione di spettacoli a distanza! Alla fine il nostro approccio è, nel pieno rispetto dei limiti e delle norme, provare a vedere quello che si può fare.
Volevo anche chiederti qualcosa a proposito delle misure economiche che il Governo ha preso e sta prendendo per sostenere l’economia e i settori in crisi, se vi siete sentiti in certa misura tutelati.
Purtroppo no. Le imprese culturali grosse, che hanno dipendenti, ricevono finanziamenti ministeriali eccetera sono rientrate o nella categoria della cassa integrazione, soprattutto le cooperative, o nella categoria degli aiuti una tantum. Per gli altri, che sono la maggior parte, che come noi hanno poche giornate lavorative e diciamo pagano di persona il piacere di lavorare coi bambini perché accettano i prezzi che fanno le scuole, i fondi sono insufficienti. Quello che è stato stanziato con un recente decreto non basta, diviso per tutte le varie associazioni secondo i nostri calcoli porterà circa duemila euro ad associazione, se va bene. Non c’è tutela da quel lato, per noi come per tante altre categorie.
E non credo che in un futuro prossimo ci saranno molti aiuti importanti, né dallo Stato, né dai Comuni o le Regioni. Sappiamo benissimo che mentre aspettiamo che venga un medicinale o un vaccino, se non ci viene un’idea forte su come fare il teatro, siamo nei guai. C’è poco da fare. È per quello che favoriamo tutte le energie “papaveresche” che abbiamo dentro.
E poi speriamo che almeno venga concessa flessibilità nell’uso dei fondi che sono stanziati. Ad esempio nel nostro caso, i soldi che l’istituzione pubblica ci dà per il festival che normalmente va insieme al master dell’Arlecchino Errante, speriamo di poterli usare per fare noi una produzione, studiata e adattata per questi tempi, che ci aiuti a riprendere con forza dal vivo dopo. Per lo Stato sarebbe un bell’investimento: investire sul presidio invece che sulla visibilità. Invece che costringerci a comprare tre o quattro compagnie estere per fare uno spot, dire: voi siete un presidio, i soldi che vi ho dato usateli per fare un festival con in primo luogo la vostra produzione.
Lo spettacolo che stiamo provando è buono, pensato per avere un successo popolare medio alto, e i risultati delle sperimentazioni che stiamo facendo le applicheremo per essere pronti, quando sarà, con un prodotto forte, che piaccia alla gente.

E speriamo che la gente torni a teatro, che il pubblico vi sostenga.
Ho fiducia nel pubblico, c’è questa “osmosi fisica” che si produce a teatro e tira fuori, c’è poco da fare, il lato migliore delle persone. Che cos’è il teatro? Un posto dove tiri fuori il lato migliore delle persone. E speriamo che tanti lo capiscano e ci diano una mano.
Certo, c’è qui una questione importante: alla gente deve tornare la voglia di pagare il biglietto. Perché in cultura troppo spesso, quando possono, le persone non pagano. Ma c’è qualcuno che pensa di prendersi uno spritz gratis? Allora perché lo spettacolo deve essere gratis? Il pubblico va convinto a sostenere il proprio benessere mentale, va convinto a comprare biglietti.
Senza contare il paradosso per cui si tendono a privilegiare i grandi avvenimenti: e così il pubblico che è disposto a pagare diciamo trenta euro per andare nel teatro grande a vedere magari uno spettacolo mediocre, poi non vuole pagare dieci euro per andare a vedere una piccola compagnia.
Come mai?
C’è spesso una certa incapacità di vedere l’offerta culturale piccola o chiamiamola “ruspante”, che è un termine che mi piace, nella sua positività. Certo molto dipende anche da noi, come categoria: certe volte – noi come compagnia spero mai – si mettono in scena delle schifezze, diciamolo. Però anche nei grandi teatri mettono a volte in scena delle schifezze, però più costose. Succede: c’è chi è stato costretto a fare un lavoro e non ci ha messo la giusta passione, chi ha avuto sfortuna e non gli è riuscito bene, chi proprio imbroglia… Dobbiamo convincerci che si può prendere una fregatura a teatro, ma allo stesso modo in cui andando in un bar possono rifilarmi uno spritz troppo annacquato. Allora, in quel bar non ci torno più, però non è che smetto di bere lo spritz. Quindi lo spettatore deve capire che è giusto pagare il biglietto per uno spettacolo: bisognerebbe insegnarlo a scuola, perché lo Stato smetterà prima o poi di sostenere la cultura. Siamo lanciati contro il muro della legge onnipresente del mercato, c’è poco da fare, e il teatro, la cultura non è redditizia in questa logica. Quindi dobbiamo convincere la gente a prendersene cura.
Quindi a pagare il biglietto e andare a teatro…
E a vedere il teatro piccolo, a vedere le cose di periferia… Ecco, secondo me bisognerebbe fare questa campagna: bar, ristoranti e negozi piccoli, basta con i mega centri commerciali, le cattedrali… I teatroni lasciamoli alla lirica! Negozi piccoli, bar piccoli, teatri piccoli. Dobbiamo riscoprire questo. E quando tutto sarà passato, mi auguro rimanga qualcosa anche da questa esperienza di distanziamento che stiamo facendo: basta con il contare il numero delle sedie piene, basta coi numeri grandi, basta con la folla: c’è bisogno d’aria, diamoci aria!
Ferruccio Merisi è attivo nella ricerca teatrale italiana degli anni Settanta. Drammaturgo, regista, formatore di attori, direttore artistico in varie istituzioni teatrali. Nel 1985 ha fondato a Pordenone prima la compagnia Attori & Cantorie (oggi compagnia Hellequin) e poi, nel 1990, la “sua” Scuola Sperimentale dell’Attore. Ha diretto e scritto oltre cento spettacoli, specializzandosi nella drammaturgia “popolare di ricerca”, con molta passione sia per il teatro della parola sia per quello del corpo, unendo i due aspetti con risultati nuovi e importanti. Ha ideato e dirige il Festival internazionale “L’Arlecchino Errante”, dedicato al meticciato contemporaneo dell’Arte dell’Attore.
Lucia Zaghet si è formata nel ricco clima di offerte laboratoriali degli anni Novanta finalizzando e completando il suo percorso presso la “Scuola Sperimentale dell’Attore”, entrando poi nel suo staff. Si è specializzata nelle grandi tradizioni teatrali di tutto il mondo e nelle arti sceniche contemporanee. Con la Compagnia Hellequin della Scuola ha partecipato a una ventina di produzioni, per adulti e ragazzi. Lavora anche come insegnante in corsi di espressione teatrale per adulti e ragazzi. È referente per il settore Teatro Migrante, e partecipa come responsabile organizzativo per il territorio alla realizzazione del Festival “L’Arlecchino Errante”.
Copertina: “Don Giovanni dell’amore” con Giulia Colussi, Amerigo Gardenal, Anna Pegolo, Cecilia Scrittore, Vene Vieiyez, Lucia Zaghet, regia di Ferruccio Merisi.
Le immagini sono pubblicate per gentile concessione della Scuola sperimentale dell’Attore.

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