Questo non è un libro politico, e neppure un manifesto ideologico. Solo un saggio d’interpretazione storica e di proposta concettuale, che vorrebbe contribuire, tenendo insieme prospettive diverse, a definire i termini di una questione cruciale nel nostro presente.
Così inizia la premessa dell’ultimo libro di Aldo Schiavone, pubblicato da Einaudi. Il concetto di cui egli intende fare il tema conduttore del suo sguardo prospettico che dal passato si rivolge al presente è quello di uguaglianza.

Nella questione dell’uguaglianza egli vede il filo conduttore della nostra civiltà occidentale, a partire dai suoi primordi, giunta oggi con ogni evidenza a una svolta epocale, dopo che con un ultimo atto creativo ha avviato una mondializzazione senza precedenti dell’economia, della comunicazione e anche dei modelli di vita.
Lungo tutto lo svolgimento del libro, dall’Antichità ai giorni nostri, egli ricostruisce, senza pretendere di farne una storia, il formarsi nella Grecia classica della sua idea, l’arricchirsi di essa con il contributo romano e la ripresa rinascimentale, illuministica, rivoluzionaria, liberale e comunista, via via fino ai giorni nostri.
Questo perché egli percepisce, con preoccupazione,
da qualche tempo, da prima ancora che iniziasse il nuovo secolo, abbiamo perduto il valore, e forse addirittura il significato stesso, di questa presenza.
Stiamo rischiando così di smarrire qualcosa di essenziale, di cui abbiamo – mi sembra – più che mai bisogno.
Il Prologo del libro inizia con Montaigne. Non perché da lui parta l’idea di eguaglianza: perché Schiavone vede nell’autore francese un vero punto di connessione e di separazione, di snodo tra antico e moderno.
Montaigne non è Defoe, o Locke, o Descartes: non vi è alcuna continuità né progressione tra loro.
Rappresenta un’altra possibilità di evoluzione dall’antico, diversa da quella dell’individualismo aperta da questi autori. Una possibilità rimasta aperta e in larga parte inesplorata.
Nel primo cammino della modernità – egli osserva – non siamo messi di fronte al tracciato lineare di un’unica, rinnovata, costruzione del sé: alla formazione intellettualmente compatta di una sola, nuova forma di soggettività.
Montaigne scopre la connessione profonda che c’è tra l’individualità che tende a distinguersi e la pienezza che una vita che si compie nell’attuazione del paradigma comune dell’umano. “Le vite più belle sono quelle che si conformano al modello comune e umano, diceva Montaigne”. Camminare sulla via più battuta, dove il solco dell’umano è più profondo – si potrebbe dire – consente di farci apprendere meglio la condizione degli uomini, che è una condizione comune.
Montaigne vive in un momento di particolare fluidità, in cui “i giochi non sono ancora fatti”, anche se lo saranno ben presto. Prevarrà l’individualismo, nella rappresentazione del naufrago che ne darà Daniel Defoe. Una rappresentazione, quella del naufrago, ben nota agli antichi, che anzi avevano fatto di quella del naufrago una delle figure archetipiche della condizione umana, ma rivissuta all’ennesimo grado nell’inusitata, infinita apertura dell’oceano.
Questo ruolo dello spazio aperto entro cui si ridefinisce la condizione umana moderna – a differenza di quella antica che si appagava come “perfezione del finito” – come dice Schiavone – coglie qualcosa di essenziale. Ogni sviluppo dell’umano nasce da una profonda ridefinizione del suo rapporto non solo con il tempo, ma anche con lo spazio. Così avviene con la scoperta dell’America e l’imporsi della dimensione oceanica, così con la “rivoluzione copernicana” che apre la strada all’idea di un cosmo infinito. Sempre, un allargamento dello spazio in cui l’uomo si vede vivere e agire, ha l’effetto di radicarlo più a fondo nell’essere. Tanto più siamo – si potrebbe dire – quanto più siamo assillati dal dover decidere, dal dover chiudere o aprire, escludere o includere.
Sul crinale tra il chiuso antico e l’aperto moderno si colloca appunto Montaigne, e la sua posizione attesta la straordinaria fluidità dei momenti di passaggio:
Il suo punto di vista rifletteva un tempo d’eccezione – l’auroralità del moderno: uno stato di sospensione in cui tutto era ancora possibile (p.8).
Una volta posto Montaigne a far da confine – congiunzione tra Antico e Moderno, Schiavone può lanciarsi indietro, verso le origini, verso qui VI e V secolo a.C. nei quali, con il “miracolo greco” la nostra civiltà fa i suoi primi passi:
Per quel che ci è dato di sapere, il primo cristallizzarsi di una riflessione sull’eguaglianza si collega a uno degli eventi più significativi di questo periodo: la nascita della polis; della città, cioè, come organizzazione politica che noi diremmo sovrana – ma gli antichi non avevano un simile concetto (p.10).
Effettivamente la nascita della polis può, pur con tutti i suoi limiti, essere interpretata a tutt’oggi come il più ardito e originale esperimento di regolazione delle relazioni interumane che la nostra storia abbia prodotto. La sua origine segna una sia pur graduale ma rivoluzionario cambiamento di punto di vista: la verticalità gerarchica tradizionale concepisce un ordine solo come crescente restringimento verso l’alto, verso l’unità, o, in senso opposto, verso il basso, come differenziazione tendente al caos.
Prima della polis, l’arché – un principio – era considerato unica alternativa a un ordine dei “molti” identificato con il caos. Per questo -– i molti erano identificati con i cattivi (polloì kakói ) come dice Eraclito citato da Platone.
Ma la stessa radice di polis rimanda a polýs (“molto”) e sta a indicare l’insieme dei cittadini come “molteplicità” (polloì) buona, fondata non sulla subordinazione gerarchica verticale ma sulla parità orizzontale:
Ed è in questo quadro che ci troviamo all’improvviso di fronte a un annuncio, arrivato sino a noi mutilo e decontestualizzato, ma che, per l’essenzialità del suo contenuto, avrebbe finito col non abbandonare mai più la storia d’Europa e dell’Occidente: in certo senso, il punto originario del percorso che stiamo cercando di ricostruire (p.11).
Se l’ordine della sottomissione è in un certo senso “naturale” quello della parità è un ordine di tipo nuovo, solo umano. Perché “artificiale”, problematico, difficile da mantenere: richiede un costante impegno e sforzo delle coscienze perché sia mantenuto.
Non si tratta più solo di parità affermate in ristrette cerchie aristocratiche, ma di un nuovo ordine isonomico che coinvolge tutte le categorie, che abitano la città. In questo clima, sentiamo pronunciare per la prima volta parole che affermano l’eguaglianza naturale degli uomini. È Antifonte che le dice, un sofista fiorito ad Atene nel fortunato cinquantennio seguito alle guerre persiane, durante il quale la città costruisce il suo impero marittimo. Egli stabilisce una distinzione tra ordine della natura e ordine umano. Gli uomini – afferma – sono uguali per natura (cioè per la loro conformazione fisico- biologica) e differenti solo a causa delle leggi che sono convenzioni che essi stessi si sono date nei diversi luoghi e situazioni.
Questa affermazione, qualsiasi sia stato il vero intento di chi l’ha fatta, istituisce di fatto una concezione di “umanità” che ha il suo fondamento nella “natura”, al di là della distinzione tra Elleni e barbari e tra le leggi e gli ordinamenti delle diverse poleis. Con ciò veniva superato il principio di opposizione, che definiva cioè per negativum le identità (Greci sono i non barbari), in nome di un primato della natura (physis), del dato biologico, sulle costruzioni degli uomini.
La naturale uguaglianza tra gli uomini trascende i limiti della polis, precede e sostiene con la sua uniformità le infinite differenze interne che caratterizzano il genere umano. Anche se il pensiero di Antifonte resterà a lungo isolato, la sua affermazione dell’uguaglianza naturale tra gli uomini apre allo sguardo un orizzonte nuovo, ricco di potenzialità future.
Il vero iniziatore della politica sarà Erodoto, che, nelle sue Storie, per la prima volta formula la teoria dei tre regimi (monarchico, oligarchico e isonomico, quest’ultimo, cioè, fondato sul principio della legge uguale per tutti) e li mette a confronto.
E’ con il regime dell’isonomia, della democrazia, dice Schiavone, che la politica nasce:
la politica, insomma, nella sua interezza, coincideva geneticamente con la democrazia, non era semplicemente un suo antefatto (p. 17).
È con il governo dei più (polloi) che si può dire che si realizzi quella che Aristotele chiamerà la politéia, la democrazia, come regime più confacente alla polis che porta l’idea di moltitudine nel suo etimo.
Senza eguaglianza non poteva esserci democrazia; e senza democrazia non si dava politica – non si dava cioè la possibilità di un qualsiasi ordine costituzionale. Poteva esistere solo un potere indicibile e immane, come nei dispotismi che, agli occhi dei Greci, avevano sempre caratterizzato gli imperi d’Oriente.
Alle spalle della politica così intesa, si può intravvedere la figura cosmica dell’armonia. Derivata dall’osservazione dei movimenti regolari dei corpi celesti tale idea ha avuto tanta rilevanza nella civiltà degli Elleni (p.18) e avrebbe costituto il nucleo costitutivo della politica dell’Occidente.
L’idea che il regime democratico sia “il più bello”, affermata da Erodoto, è ripresa da Tucidide, nelle parole che egli fa pronunciare a Pericle nel discorso di commemorazione dei caduti della guerra del Peloponneso. Ma la democrazia –aggiungerei – è detta “forse la più bella”, anche da Platone, sebbene ironicamente. Egli, infatti, non la considera certo la costituzione migliore, ma certo almeno la più affascinante, se lascia alle donne e ai bambini di farsi soggiogare dal fascino del suo aspetto variopinto (Repubblica 557 c).
L’uguaglianza nella democrazia – sottolinea Schiavone – è però limitata nella polis alla sfera della politica, non riguarda i rapporti famigliari e privati, né si estende al di fuori delle mura della città. Si tratta perciò di uno spazio, quello della democrazia, che si può considerare come solo dischiuso, quasi strappato a una natura (esterna alla città, ma anche interna: nella famiglia, nei rapporti con gli schiavi, ecc. ) in cui domina l’ordine gerarchico, basato sulla forza. L’ordine della democrazia, più bello perché più “umano”, si afferma a fatica e solo se supportato, come nel caso di Antifonte, di un’idea di una sostanza comune, di uno stato di naturale uguaglianza comune a tutti gli uomini. Ma era proprio questa che mancava:
L’universalità intuita da Antifonte sarebbe stata perciò irrealizzabile, senza distruggere le basi stesse della civiltà che pure era riuscita a concepirla, sia pure ai margini del proprio pensiero. L’eguaglianza da lui intravista non apparteneva a quel tempo. Perché le cose cambiassero, sarebbe stata necessaria un’autentica rottura della storia. Una catastrofe, e un nuovo inizio: esattamente, quel che noi chiamiamo la fine delle civiltà antiche (p.22).
In effetti, ciò che decide dell’ordine politico è sempre, direttamente o indirettamente, un’idea di natura. È quest’idea, qualsiasi essa sia, a condizionare la politica, nel senso che quest’ultima si vede calata in un ordine naturale preesistente e si percepisce come riflesso di esso. Universale è quest’ordine, cui, a differenza del nomos umano, nessuno può sfuggire. È quello il più forte: i nostri edifici politici non possono resistere a lungo se non ne rispettano i principi:
l’eguaglianza nelle poleis democratiche era, nei fatti, circondata dal diseguale, dall’asimmetrico, che le si moltiplicava intorno da ogni lato, come il prezzo inevitabile di un meccanismo sociale ed economico che non poteva farne a meno (p.23).
L’universalismo intuito da Antifonte doveva perciò restare lettera morta, astratto. L’idea di una physis in cui vige un ordine paritario tra gli esseri umani prima che essi creino tra loro le disuguaglianze non trova alcuna eco in Aristotele, il quale anzi giustifica naturalmente anche la schiavitù, considerata non antagonistica, ma anzi complementare, rispetto all’isonomia, alla relazione simmetrica tra i cittadini. Questa uguaglianza si sovrappone alla naturale asimmetria, e può esistere solo se “la riproduzione della specie e l’organizzazione del lavoro materiale” restano conformati a questa. Se Antifonte aveva giustificato la parità physei (per natura), Aristotele in base allo stesso principio di natura giustifica la disuguaglianza, in particolare delle donne e degli schiavi (anche se non disuguali nello stesso modo):
Per entrambe, la natura – qualunque cosa si intendesse con questa parola – racchiudeva in sé un valore intrinsecamente normativo: fissava, come abbiamo detto, il destino dell’umano (p.29).
Schiavone cerca di indicare, nelle pagine successive, il mutamento di punto di vista, in senso apologetico dell’effettuale, riconoscibile nella posizione dello Stagirita. Il rapporto con la physis viene ribaltato rispetto a quello che avevano tenuto i materialisti ionici. Essa non è più terreno aperto di osservazione, ma inserita in una gabbia metafisica nella quale le cose naturali sono – per così dire – “fatte cantare” a conferma della mentalità dominante dell’epoca di Aristotele:
Un modo di procedere che culminava in una legittimazione metafisica dell’esistente – e dei suoi rapporti sociali e di potere – di inaudita efficacia (p.31).
La conseguenza di ciò si sarebbero sentite a lungo, soprattutto nell’ambito della scienza. Almeno fino al Rinascimento. Solo allora gli occhi di una civiltà rinata e profondamente diversa da quella antica, da cui pure proveniva, avrebbero guardato la natura in modo nuovo, non pregiudicato dal pregiudizio teleologico. Ma l’idea di un universalismo umano venne ripresa dallo stoicismo, nel senso di una vaga solidarietà tra esseri umani, senza disporre di alcuna carica socialmente dirompente.
Nel suo sfondo – osserva Schiavone – emergeva distintamente solo quel cosmopolitismo intriso di tolleranza e di relativismo, ma socialmente e politicamente del tutto sterilizzato, che avrebbe costituito tanta parte della nuova cultura ellenistica (p.33).
L’universalismo greco sarebbe stato facilmente assorbito dalla mentalità romana, senza produrre concrete conseguenze, oltre a quelle di un blando umanesimo che avrebbe ispirato Cicerone e i circoli intellettuali romani dell’età imperiale. Se ci fu a Roma una stagione di lotte per l’uguaglianza (in particolare nell’età dei Gracchi), essa si concluse presto e senza lasciare una vera eredità culturale.
Ma l’idea di uguaglianza in ambito romano dà i suoi frutti originali “lontano dalla politica”, in un ambito al quale i Greci avevano dato poca attenzione: quello dei rapporti privati (p. 35).
Il diritto romano sarà essenzialmente non un diritto politico, ma un Jus civile, finalizzato a dirimere le controversie tra i cittadini posti sul piano di eguaglianza riguardo ai loro rapporti privati:
Quando Aristotele sottolineava che l’essere umano è essenzialmente un “animale politico”, era proprio questo primato del “pubblico” che voleva ribadire; il resto, la sfera privata dei cittadini, cadeva nell’ombra, in una zona grigia della quale non valeva la pena occuparsi troppo.
Mentre i Greci sono attratti principalmente dai problemi della città in quanto tale, del suo assetto politico, della sua “costituzione”, i Romani si interessano soprattutto del singolo (privatus) nel suo rapporto con altri singoli, derivante da quella fitta rete di norme e prescrizioni di natura religiosa, che ordinava la vita, delle comunità arcaiche organizzate fin nei minimi particolari su basi parentali, sul primato della gens, del clan e di un potere assoluto – anche di vita e di morte sui propri figli – del pater familias.
A Roma, nonostante il periodo d’intense lotte di classe, non ci sarebbe mai stato nulla di simile alla democrazia delle città greche. L’unico prodotto di questa stagione di lotte sarebbero state le Leggi delle dodici tavole.
Le XII Tavole sarebbero rimaste come un monumento della repubblica, ma Roma avrebbe adottato un regime oligarchico, nelle mani di un ristretto numero di grandi famiglie patrizio-plebee – la nuova nobilitas – non solo molto lontano da ogni ipotesi di democrazia radicale, ma nemmeno corrispondente al modello pericleo di un temperato governo della maggioranza, con cariche pubbliche parzialmente coperte per sorteggio (p.37).

La res publica romana si costituisce intorno al nucleo “privato” dell’insieme dei capiclan (delle gentes): i patres che compongono il senato, cui si aggiunge inseguito la volontà popolare. Il primato resta del Jus, l’insieme di regole che disciplinano i comportamenti privati, ma ad esso viene associata la Lex, che esprime la volontà comune del popolo, “una sintesi poi suggellata nella formula del Senatus populusque romanus”.
Il compromesso fra patriziato e élite plebee, che dagli inizi del III secolo diede un assetto definitivo alla repubblica, ne fissò per sempre la forma aristocratica, sia pure in parte corretta da una contenuta presenza popolare (ideologicamente molto enfatizzata dalla stessa nobiltà)” dice Schiavone (p.42).
E in effetti, la funzione del Jus è di garantire, con una regolazione minuziosa e con criteri egualitari, una coesione prepolitica – e anche, fino a un certo punto, indipendente dalla politica – costruita molecolarmente e dall’interno, a partire cioè dai rapporti immediati, privati nella comunità. Distinto e talvolta perfino contro la “verticalità” della politica – potremmo dire – si erge l’orizzontalità di un privato sociale strutturato dal principio paritario posto dal Jus: la stabilità di quest’ultimo a far da contraltare all’instabilità di quella. La forza del diritto romano sta nella sua capacità di assumere entro schemi formali neutrali quasi ogni tipo di contraddizione, gli infiniti attriti e fratture della sfera della “vita immediata”, quotidiana, della comunità, preservandone con ciò la coesione d’insieme: “un diritto capace di acquisire una dimensione interamente formale, di spingersi in qualche modo oltre la sua stessa storicità – nel senso che dal suo punto di vista null’altro si sarebbe potuto percepire se non la forma astratta dei rapporti reali da esso considerati. Niente nuda forza, niente potenza chiusa in se stessa, niente accadimenti contingenti, niente soggettività debordanti; solo intelletto ed essenze: un ordine normativo cui si legava lo sviluppo di una specifica razionalità strumentale, calcolistica e quantitativa, destinata a segnare per sempre ogni argomentazione giuridica, e a identificarsi con la ragione stessa del diritto” (p.50).
Era, aggiunge Schiavone: “l’invenzione del “diritto eguale”: la più formidabile costruzione del pensiero sociale dell’Occidente”. Non era – diciamo noi – il riconoscimento del diritto degli individui “in sé”, della loro singolare soggettività, ma la regolazione del loro “tra”, l’ordinamento rigorosamente neutrale di relazioni in cui essi risultavano perfettamente interscambiabili.
A Impero costituito, questa “macchina della coesione sociale” da sola non sarebbe più bastata. L’Impero avrebbe avuto bisogno di una giustificazione etica complessiva. Ecco allora il ritorno del giusnaturalismo stoico, e, prima ancora l’eco dell’universalismo di Antifonte, nel quale:
una cultura capace di offrire una dottrina della giustizia (una parola fino ad allora ignorata dai giuristi, ma da Ulpiano clamorosamente usata nell’apertura delle sue Istituzioni), in cui la tecnica giuridica, diventata impegno etico e scelta di vita, si potesse trasformare in canone universale di condotta, in ideologia stessa dell’incivilimento umano all’ombra dell’impero (p.61).
Il problema dello schiavismo – fondamentale nel sistema economico sociale romano – che non poteva trovare, come in Aristotele, giustificazione in una presunta “inferiorità naturale” – trovava il suo fondamento nel diritto delle genti, per il quale il più forte ha il diritto di imporre la sua piena potestà sui popoli assoggettati. Ciò lasciava al padrone anche il diritto di manumissione, che
che trasformava, per decisione insindacabile di un qualunque padrone privato, un prigioniero che non aveva nemmeno la garanzia della vita, nel cittadino della comunità padrona del mondo (p.65).
Proprio la distinzione tra natura e storia, consentiva ai maestri giuristi dell’età dei Severi di proclamare “l’uguaglianza tra tutti gli uomini” e di accettare l’istituzione della schiavitù. L’universalismo egualitario del “diritto naturale” sarebbe rimasto senza conseguenze pratiche, un’ideale, evanescente aureola di un impero che restava fondato sulla forza:
Il sapere (di questi giuristi romani) era schierato agli estremi confini di un mondo che non aveva più futuro, e che stava per essere travolto da una delle più devastanti crisi mai conosciute dalla storia (p.67).
In ogni caso, questo pensiero avrebbe segnato una sorta di orizzonte estremo della forma umano nello sforzo di elaborare se stessa, che sarebbe stata ripresa, con ben altra forza, molti secoli dopo, da un Occidente che, per costituirsi, avrebbe avuto bisogno di ripercorrere, a suo modo, le tappe del suo lontano passato.
Nella fase del suo tramonto, l’Antichità – per salvarne l’essenza – trasferisce il “progetto dell’umano” appena accennato dalla polis in una trascendenza metafisica e teologica. In tale modo la prospettiva dell’uguaglianza nel mondo ideale avrebbe potuto convivere a lungo con un “mondo reale” ai suoi antipodi. Il messaggio cristiano del Dio che si dona, facendosi esso stesso uomo e compensando con questo l’incapacità dell’uomo di stare all’altezza di se stesso (di ciò che egli stesso era riuscito solo a concepire di sé) elabora e rovescia nella speranza la disperazione della sua impotenza creaturale. L’amore di Dio non è solo per l’umanità, ma per ciascun uomo preso singolarmente, nella sua concreta e irripetibile singolarità, scavata in modo che né la politica greca, né il giurismo romano, erano mai riusciti a concepire.
Il concetto di persona, non a caso tratta dal linguaggio teatrale, trova la sua prima affermazione in Tertulliano, che cerca così di definire la duplice natura, umana e divina, del Cristo, poi ripresa da Agostino, il quale, in particolare nel De Trinitate, si addentra nel complesso problema della natura una e trina di Dio. Ciò che sembrava: “poter superare ogni precedente difficoltà nel tenere insieme l’eguale e il diverso” (p.71).
Ma il carattere metafisico di quest’uguaglianza nella diversità degli uomini, rendeva storicamente non operante l’affermazione del nuovo principio. Questo mondo veniva anzi confermato in tutte le sue gerarchie storico – politiche, consentendo alla nuova Chiesa di inserirvisi senza problemi, potendo contare – aggiungerei io – sul monachesimo, prima anacoretico poi cenobitico – come avrebbe rilevato Franz Overbeck nel penetrante saggio ad esso dedicato – a far da contrappeso spirituale.
Si profila un quadro in cui l’uomo appare tanto più uguale ai suoi simili quanto più è diverso. Con ciò l’idea di eguaglianza vive di una sua interna dialettica grazie alla quale la stessa appartenenza dell’individuo alla specie comune spinge fuori con forza la sua inaudita unicità.
Schiavone sintetizza, il valore – nonostante l’assenza di una carica di trasformazione storico sociale di questo passaggio – osservando giustamente che: “Con Agostino siamo già, per molti versi, fuori del mondo antico” (p.74).
La sua descrizione del destino storico dell’idea di eguaglianza – saltando i secoli del Medio Evo – riprende direttamente dalla Modernità, identificandola con l’età del lavoro. Anzi, del lavoro – merce: “Il lavoro come fatica e come riscatto: il lavoro che scolpiva le classi sociali e dava forma alle vite, e consistenza” (p.77).
Il lavoro – merce dell’età moderna è essenzialmente diverso da quello antico: a differenza di questo ha un valore quantificabile, mentre nel mondo antico non ne ha alcuno, affidato com’è a una mano d’opera fatta di schiavi che non fanno parte, o hanno perduto il diritto, di appartenere all’umano.
Il lavoro moderno può essere trattato come merce, ha valore, perché compiuto da uomini, che non lavorano come “strumenti animati”, perché vendono solo la loro forza lavoro. E’ questa la merce che viene venduta e comprata dal lavoratore, il quale perciò rimane soggetto di se stesso, come venditore del suo lavoro.
Il lavoratore – a differenza della schiavo – è libero di vendere il suo lavoro. Non vende se stesso ma solo una certa quantità del suo tempo. Proprio per questo egli continua a far parte della sfera dei liberi.
L’organizzazione del lavoro è in tal modo radicalmente diversa da quella della schiavitù antica: essendo un bene che si paga a tempo, la forza lavoro, da parte di chi la acquista, è finalizzata da un lato alla messa a frutto più intensa possibile del tempo lavoro acquistato con l’aumento dei ritmi di lavoro, dall’altro al risparmio di lavoro, attraverso la sua sostituzione più ampia possibile con macchine:
Il lavoro eguale di individui eguagliati dal processo produttivo; proiezione insieme ideale e reale della formazione storica di grandi masse di lavoratori, che nelle botteghe, negli opifici e poi nei sistemi di fabbrica industriali svolgevano tutte insieme le stesse mansioni, attraverso la ripetizione infinita dei medesimi gesti (p.80).
L’effetto equalizzante del lavoro produce polarizzazioni e nuove solidarietà. Lo sviluppo di un capitalismo impegnato a una produzione sempre più allargata di merci su scala industriale, mentre mete a disposizione della società una quantità sempre crescente di beni – merce, spinge lavoratori sempre più parcellizzati nel loro lavoro, ma organizzati nella disciplina di fabbrica, verso una stagione secolare di lotte sociali.
La conoscenza – prima finalizzata essenzialmente alla teoresi – è messa sempre più al servizio di un processo produttivo al servizio di se stesso, dell’accumulazione di capitale che e è il motore inarrestabile:
“La rivalutazione delle “arti meccaniche” avrebbe portato presto al macchinismo di Descartes: fra lavoro che trasforma, intelletto che elabora e macchine che eseguono si stava stringendo un rapporto inconcepibile nell’antichità – destinato a decidere la storia d’Europa” (p.84).

Mentre descrive il quadro dei mutamenti dell’organizzazione sociale che avrebbero aperto le porte al moderno capitalismo, Schiavone cerca di abbozzare una sorta di storia delle idee, del complesso processo di riprese originali di idee del passato, di intrecci, filtraggi, contaminazioni e interazioni tra movimenti di pensiero, quali l’Umanesimo italiano – europeo, conseguenze della Riforma, apertura ideale offerta dai nuovi spazi oceanici che darà luogo a una nuova idea di un “comune umano”, ormai sempre più consapevolmente distinta da quella elaborata dall’Antichità:
Veniva aperta in tal modo una strada che avrebbe consentito all’Occidente un processo di autoidentificazione come il luogo per eccellenza di una radicalità individualista senza confronti: capace di grande forza e suggestione, sviluppatasi per ondate successive – l’ultima, di eccezionale intensità, iniziata alla fine dello scorso secolo, tuttora in atto (p.91)
Peraltro Schiavone, cerca di mantenere il carattere aperto e non scontato dei complessi processi di agglomerazione alla base della formazione dell’humus originale della nuova civiltà in formazione, evitando il determinismo da cui può facilmente essere compromesso uno sguardo, che, come il nostro, vede le cose ex post.
Il nuovo individualismo va di pari passo con la formazione degli Stati, che riguarda – non a caso – soprattutto le nazioni atlantiche. Con quella avviene anche la formazione delle classi economiche, le quali gradualmente sostituiscono il sistema degli ordini di origine medievale. Con il dissolversi delle cristallizzazioni medievali individuo e Stato saranno sempre più le polarità – i due soggetti dialettici – su cui si appunterà la ricerca e la riflessione politica:
l’orizzonte intellettuale nel secolo da Hobbes a Rousseau, e poi subito dopo, sino alle Rivoluzioni americana e francese (p.93).
A far da base a tutto questo il nuovo giusnaturalismo (ripreso dall’Antichità), nell’arco che va da Grozio a Kant.
La Storia ritrova nella “natura” il metro per misurare se stessa, il medium necessario a collegare individuo e Stato. “Noi – osserva Schiavone – ci muoviamo ancora nel suo raggio”.
Ma l’interesse per il “comune umano” si torce ben presto in direzione dell’esaltazione di un individualismo che marca soprattutto le differenze:
La concezione secolarizzata dell’individuo e quella calvinista secondo cui ciascuna creatura – ciascuna persona – era rimessa nella sua solitudine (“nei segreti di un cuore solitario”) alla grazia dispensata dall’imperscrutabile maestà di Dio, e non aveva che da affidarsi a un’etica esigentissima della responsabilità, della professionalità e del lavoro, stavano ormai consolidando uno spazio comune di provata solidità (p.98).
L’individualismo, nella sua duplicità – allo stesso tempo spazio d’inaudita libertà e prigione – rimane un nodo ancora da sciogliere, quando:
ormai si è trasformato, quasi senza eccezioni, nella forma complessiva dell’umano sull’intero pianeta.
L’uguaglianza naturale tra gli uomini viene rovesciata nel suo senso antico. Lo stato di natura, per Hobbes, è uno stato infernale di “guerra di tutti contro tutti”. La condizione civile è una condizione di diseguaglianza prodotta e garantita dallo Stato. Un organismo “artificiale” prodotto dalla ragione e “contro” natura:
L’immane potenza dello Stato non avrebbe fatto se non schierarsi in difesa della crescente articolazione delle differenze – del diseguale – in cui consisteva propriamente il fondamento di ogni civiltà (p.102).

Anche in Locke l’uguaglianza naturale tra gli uomini costituisce il sottofondo di una disuguaglianza civile, in funzione del primato dell’individuo. Inteso però non più astrattamente, ma connesso al suo rapporto con la natura attraverso il lavoro. Il diritto individuale alla proprietà, secondo Locke, discende, infatti, dalla capacità – diversa da individuo a individuo – di trasformare la natura in ricchezza per l’uomo. Si creava così una divaricazione sempre più marcato tra l’astratta eguaglianza naturale tra gli uomini nei loro pari diritti e la reale disuguaglianza, accentuata dalla separazione della proprietà dal lavoro e dall’introduzione della moneta.
Questo dualismo sarebbe stato confermato e rafforzato dalla reintroduzione nel XVIII secolo del diritto romano, nella sistematizzazione datagli dal Corpus Juris di Giustiniano, la cui astratta impalcatura imbrigliava efficacemente le complesse disparità della vita reale.
Fu un nuovo diritti romano, rivisto e adattato alle esigenze poste dall’affermarsi del nuovo individualismo sia nell’Europa continentale che in Inghilterra. Fu un’elaborazione originale, perché “al centro dell’impianto formale del diritto romano c’erano gli status, non i soggetti” (p.109). La codificazione tipologica delle relazioni non doveva dimenticare che a gestirle erano sempre “persone”, titolari di “diritti”. Tutto l’impianto del diritto romano veniva così stravolto e fatto rivivere alla luce del nuovo principio di soggettività, il vero fulcro del nuovo diritto:
l’esito della combinazione fra il dispositivo – del tutto moderno – dell’individuo-persona definito dal suo isolamento e dal suo lavoro, e quello – già romano – del formalismo giuridico, si sarebbe rivelato in breve esplosivo (p.111).
Per quanto non specificata, l’identità del nuovo soggetto giuridico era nettamente maschile. Ne erano di fatto escluse le donne e i nuovi schiavi, la cui tratta verso le colonie del nuovo mondo si attivò ben presto, per quanto la schiavitù vera e prioria fosse sostanzialmente scomparsa in Europa fin dal tardo Medio Evo.
Schiavone passa a tracciare il quadro della rivoluzione industriale, attraverso le descrizioni di Locke e di Defoe, la testimonianza di Mandeville e la teoria di Adam Smith, con il quale il pensiero economico raggiunge la sua prima maturazione.
Ma lo scritto che apre la riflessione moderna sull’eguaglianza è il Discorso sull’origine e il fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini, di J. J. Rousseau. Tra l’uscita del saggio del pensatore ginevrino e quella di Per la critica dell’economia politica di Marx c’è circa un secolo, con in mezzo a troneggiare l’evento della Rivoluzione francese.
In entrambe quelle vedute – in Rousseau non meno che in Marx – il tema dell’eguaglianza acquistava una centralità mai prima raggiunta; anche se solo nel secondo che esso veniva ricondotto in modo stringente al tema del lavoro,
osserva il nostro autore.
Un periodo cruciale per la civiltà occidentale, in cui fiorisce quella complessa articolazione di pensieri che a lungo ne guideranno la direzione di sviluppo. E torna in scena il giusnaturalismo, quel fondo naturale, quel “grado zero dell’umano” – come lo chiama lo stesso Schiavone, di cui la Storia ha bisogno per valutare se stessa, quel “pessimismo storico” cui farà da contraltare il “pessimismo cosmico” di un Leopardi, non citato da Schiavone, ed è certamente un peccato, perché gli avrebbe consentito di scoprire un piano di pensiero nuovo, “oltre l’Ottocento e il Novecento” ancora impregnati di storicismo, direttamente dialogante con il nostro di oggi.
Le disuguaglianze sono di origine sociale – storica, dice Rousseau. La condizione naturale che egli descrive è però solo un percorso all’indietro da quella sociale. L’uomo naturale per lui è l’uomo sociale cui sono stati tolti i difetti prodotti dalla socialità. La socialità intrica e confonde la via, rendendo impossibile alla vita umana di conseguire linearmente a se stessa. La vita sociale è di per sé vita alienata che reagisce alla cieca a un quadro sempre più frammentario e complesso. Tutto il pensiero di Rousseau si può riassumere nell’ipostasi metafisica dell’origine.
Egli suggerisce un senso della vita inteso come ricostruzione di sé ab initio. Un pensiero fortissimo, ripreso dall’antico, ma posto su scala sociale e storico – universale, capace di dar ragione dell’essenziale asimmetria della Storia e di offrire una “filosofia del ritorno” al soggetto moderno, di condizionare un’intera epoca, nonostante (e proprio per ) la sua astrattezza. Dal rovesciamento speculare del rousseauiano “primato dell’originario” prenderà avvio un’idea di Storia che procede verso il suo compimento, di Hegel e di Marx. Saranno questi pensatori i veri assi portanti del pensiero europeo dell’Ottocento europeo, restando la posizione leopardiana isolata e solitaria in attesa di un’attualità in grado di accoglierla.
Dunque la posizione di Rousseau e la sua idea di sovranità afferma in politicis un indiscusso primato dell’originario. La volontà generale, dallo stesso Ginevrino teorizzata nel suo Contratto sociale, non esprime altro che il senso della supremazia inalienabile di un’intatta origine metafisica, costruita retrospettivamente dalla storicità del sociale, su tutto quanto possa essere politicamente determinato.
Tutto lo sviluppo del pensiero politico e sociale di questi ultimi due secoli si può intendere come una contesa, intorno all’asimmetria della storia, tra il principio dell’origine e quello della fine o compimento: tra il movimento epimeteico di Rousseau e quello prometeico di Hegel e Marx, avente come loro oggetto e posta in gioco proprio l’idea di eguaglianza che avrebbe dovuto essere raggiunta rispettivamente con il movimento all’indietro o in avanti, ricomponendo nell’inizio o nella fine l’asimmetria della Storia.
Si sarebbe aggiunto, come tertium, l’approccio “aristotelico” di Montesquieu. Per quanto, come sottolinea Schiavone, anche per Montesquieu: “La repubblica democratica era per eccellenza un luogo di virtù: nessun altro modello preso in esame meritava un simile giudizio”, ed egli si avvicinasse, nell’identificazione di democrazia e eguaglianza, al Rousseau radicale del Contratto sociale.
Con la Rivoluzione americana e quella francese, si apre un’età di rivolgimenti profondi. Schiavone mantiene, contro il tentativo conservatore di dividerle nel giudizio storiografico, una stretta relazione tra la Rivoluzione americana e quella francese, aggiungendovi – secondo me giustamente – una terza: la rivoluzione industriale inglese, tutta sociale. Egli le racchiude tutte e tre entro il quadro di una “Rivoluzione atlantica” che egli riprende da certa storiografia angloamericana, pur senza sottacerne le peculiarità.
Credo anch’io che si sia formato dopo la metà del XVIII secolo nella parte occidentale dell’Europa e nella sua propaggine nordamericana un cuneo di novità dirompente, che questo abbia dato un colpo al corso dell’evoluzione dell’Occidente. La diversificazione sarebbe avvenuta presto, ma più tardi, osserva Schiavone: “non prima cioè dei moti europei del ’48- 49”, dopo la guerra messicana e l’uscita del Manifesto del Partito Comunista i cui effetti si fecero sentire quasi solo nel continente europeo (p. 130).
La divaricazione fra mondo anglosassone e quello europeo continentale si sarebbe chiusa veramente di fatto solo dopo la fine dell’esperimento socialista sovietico e della guerra fredda.
Quando, in altri termini, siamo tornati di nuovo tutti, che ci piaccia o no, sulla stessa barca, ad affrontare il medesimo, sconosciuto mare (p.131).
Quasi riluttante a lasciare la questione, il nostro autore riporta gli acuti giudizi di Hannah Arendt sulla Rivoluzione americana, intendendo con ciò corroborare la sua valenza universale, nonostante le pesanti limitazioni pratiche dell’attuazione. Effettivamente essa l’ebbe veramente, non solo alimentando con il suo spirito il Trascendentalismo di Emerson e il naturalismo di Thoreau, ma anche agendo, nonostante tutto, a quasi duecento cinquanta anni di distanza dalla Dichiarazione d’Indipendenza, come una brace non spenta – almeno non del tutto – sotto lo strato di cenere sempre più alto della politica americana fino a oggi. La carica universalistica mi pare sprigionarsi soprattutto direttamente dalla radicalità fondativa dello spirito della Rivoluzione americana, favorita certo dalle condizioni irripetibili di chi si trovava, quasi libera da ogni storia, a progettare “un mondo nuovo” dalle basi. Ma disponendo, alle spalle, di tutto l’immenso deposito della storia europea, soprattutto di quella antica, da Atene a Roma, da cui i fondatori della nuova repubblica poterono a piene mani attingere. Di condizioni insomma di cui nessuna rivoluzione europea, né quella inglese prima, né quella francese o russa poi, avrebbero goduto.

Per la Rivoluzione francese, Schiavone rileva la complessità quasi insuperabile del fenomeno, nel quale tendenze di lunga durata, fattori contingenti, casualità si sono intrecciati in modo tale che anche un piccolo spostamento nel punto di vista dello storico o nel paesaggio degli eventi che egli cerchi di descrivere, può provocare di colpo mutamenti inattesi e radicali nella sua visione. Come osserva l’autore in un bel passaggio:
Il rapporto con il passato, per eccellenza instabile, e basta un niente – il soffio di vento di un’idea, l’affiorare di un dettaglio nascosto – a capovolgere anche drasticamente prospettive, luminosità, consistenze.
La Rivoluzione francese è uno snodo così ampio e importante della Storia dell’Occidente che sembra poter contenere interpretazioni opposte e alternative senza che con ciò ne sia dominata ed esaurita la complessità. L’evento rivoluzionario infatti, è “come un’onda schiumosa” e “L’indeterminazione, forse – egli osserva – è il solo modo concesso alla nostra intelligenza di percepire e rielaborare in ultima analisi la realtà che ci forma e ci avvolge” (p.138). A parte la ricchezza immaginifica, molto efficace, trovo importante questo passaggio di riflessione sulla complessità dello e nello sguardo storico. Forse, nella meditazione di Schiavone rivolta all’eguaglianza, esso non riceve il risalto che meriterebbe.
Tra Rivoluzione francese e quella d’Ottobre corre più di un secolo, durante il quale si vede aumentare la divaricazione tra eguaglianza formale, affermata dalla legge e disuguaglianze reali prodotte dallo sviluppo economico. La prima aveva mantenuto le differenze sociali e aveva attribuito legittimità solo a quelle richieste egualitarie che potevano favorire il funzionamento di un sistema economico in ascesa che prometteva di operare a vantaggio di tutta la comunità statuale. “Rousseau era dimenticato in nome di Smith e di Mandeville – o, se si vuole, di Voltaire” (p.141).
Era questo il succo della rivoluzione “borghese” che lasciava irrisolto il nodo dell’eguaglianza non solo politica, ma anche sociale, sebbene tentativi di andare oltre ci fossero stati anche nel corso di questa Rivoluzione. Essa di fatto oscillò, senza arrivare a una soluzione definitiva tra il formalismo libertario liberalborghese e un egualitarismo sociale più spinto. La vertiginosa successione delle idee e degli eventi rivoluzionari – osserva Schiavone – convinse le élite che potesse valere una sorta di “onnipotenza della politica”, ovvero un volontarismo senza limiti del soggetto politico, che generò il vortice del Terrore e l’autoconsunzione della Rivoluzione nel delirio del sospetto.
Il fallimento del soggettivismo politico rivoluzionario lasciò irrisolti tutti i nodi che poi sarebbero ritornati alla ribalta della storia degli ultimi due secoli, primo dei quali quello del rapporto tra democrazia, libertà ed eguaglianza sociale. Si creò una divaricazione tra l’opzione “formalista” (sulla linea di Kant, Weber e Kelsen) e quella “sostanzialista” di Marx e dei socialisti.
Tra i due paradigmi – dice Schiavone – si pone l’esperienza della democrazia americana, come viene rappresentata da Tocqueville.
Il nostro autore passa poi all’esame del formalismo di Kant, che egli vede come una sorta di continuazione di quello del diritto romano: “E’ il trionfo – ma un trionfo frutto della separazione e della scissione – della logica sull’effettività storica, dell’intelletto astratto sulla positività della contraddizione. Ed è insieme – in controluce – la codificazione definitiva delle due eguaglianze nel pensiero europeo” (p.153).
È evidente che la divaricazione tra piano formale e quello sostanziale dell’eguaglianza resta il vero nodo irrisolto – una sorta d’impasse tragica. Forse essa non può essere risolta nell’ambito della rappresentazione occidentale dell’umano, così come si è storicamente determinata, ma richiede di essere trasferita su una base più ampia di consapevolezza ontologica, tutta da pensare, in cui anche l’acquisizione – secondo me definitiva – della straordinaria categoria di “Rivoluzione”, di rovesciamento dello stato di cose sulla base del primato dell’autocoscienza, deve poter trovare sue nuove feconde declinazioni.
Nel solco di una tradizione già consolidata pare la critica di Schiavone a Hegel, al suo panlogismo, che come aveva già affermato Marx, porta il filosofo a considerare i fenomeni reali quasi solo come mere parvenze dell’idea, sicché “la logica oggettiva prende il posto della metafisica di una volta”.
L’individualità moderna viene a formarsi, nel pensiero di Hegel, nella riconciliazione dei suoi due lati, l’oggettivo – Dio come Necessità e Cosa assoluta – e il soggettivo: Persona o Soggetto assoluto. E’ la riconciliazione cristiana – che chiamerei “il convergere nell’umano dell’assoluto Divergere” – la condizione del superamento della scissione che spezza l’anima dell’uomo.
Ricongiungimento possibile – osserva giustamente Schiavone – solo grazie all’incarnazione umana del divino, all’infinito che si è fatto Persona e si è fatto storia (p. 157).
Quell’individuo può esistere solo come articolazione dello Stato, totalità mediatrice tra universalità e particolarità. Questa mediazione, a me pare, esso la può compiere solo sul presupposto della totalità e della società civile intesa come insieme di parti. In realtà tutto il movimento dialettico di Hegel non è altro che un movimento interno alla tautologia della ragione che spinge dentro il “condotto forzato” della totalità la complessità sfuggente del reale.
L’individuo che ha superato la scissione e conciliato in sé finito e infinito non si attaglia all’ambigua figura del produttore – consumatore massificato, che la Modernità produce.
La stessa celebre dialettica tra signore e servo non tiene, perché quello del servo non è “desiderio tenuto a freno” che si cumula fino a raggiungere una “indipendenza dall’oggetto” che il signore, nel suo godimento immediato di esso, non ha e perciò viene a formare cumulativamente nel servo stesso il vantaggio sul signore.
Il servo stesso è reso anche signore, per il fatto che, appunto, è anche consumatore. In commedia ha insieme le due parti. Queste parti, in cui egli è scisso, non si conciliano, ma possono convivere in lui, nel loro irrisolto rapporto, indefinitamente. Anche l’eventuale rivolta di questo “servo – signore” contro il “signore – signore” rimarrà ambigua, non potendosi mai veramente decidere se in lui è il servo produttore o il signore consumatore che si ribella. Anche se fossero entrambi insieme, le loro motivazioni e finalità rimarrebbero sempre distinte e divergenti, se non contraddittorie.
Davanti a quest’ambiguità, apparentemente insolubile, la dialettica s’incarta e resta tramortita. Nella tarda modernità ha via libera l’esplosione di una complessità senza freni, nella “uguaglianza universale alienata” del mercato: tutti possono teoricamente starvi nella duplice veste di servi produttori e di signori consumatori.
Tutto questo certo era al di fuori della possibilità di previsione di Hegel: egli concepiva lo Stato come sintetizzatore – armonizzatore di una società ancora di ordini (Stände). Questo è ben presente in Schiavone il quale osserva:
Egli (Hegel) tenta quindi una composizione – per quanto debole – nel nome degli “stati”, di una strutturazione gerarchico-corporativa della società, in cui cercava di conciliare una base individualistica con una mediazione di tipo organicistico (p. 166).
Per iniziare a trattare dell’eguaglianza nella democrazia americana l’Autore sceglie un passo di Melville tratto da Moby Dick. Certo però che Melville non si può ricondurre facilmente nella schiera degli apologeti acritici della democrazia americana: basta ricordare il duro pessimismo dell’autore in The confidence Man.
Ma l’incipit solenne di Melville serve a Schiavone per introdurre una riflessione più articolata sulla realtà della giovane Repubblica nordamericana, per esaminare la quale egli si serve dello sguardo straordinario di Tocqueville.
È di questo pensatore francese l’intuizione che rovescia il punto di vista europeo sull’esperienza americana da poco iniziata. Egli non ravvisa negli Stati Uniti, come molti in Europa, qualcosa di analogo a quanto si può riconoscere nel passato della storia europea, ma il futuro.
Tocqueville resta colpito soprattutto dall’atmosfera di eguaglianza che regna nel giovane paese. La coincidenza di formalità e sostanzialità rilevata da Tocqueville, nelle diverse accezioni di significato che egli conferisce al termine “democrazia” riferendolo alla realtà politico-sociale americana, potrebbe derivare, secondo me, dallo straordinario dinamismo della nuova compagine, capace di sopravanzare, senza lasciarli cristallizzare, i propri equilibri interni.
Un corpo che cresce e si espande rapidamente in tutti i sensi è capace di contenere in sé tutti i contrasti, senza doverli frenare e senza esplodere a causa di essi. Una marcata disuguaglianza nelle condizioni economiche può quasi non essere avvertita, se nessuno che vi si trovi svantaggiato vive la propria condizione come definitiva.
Le opportunità aperte davanti a tutti (la libertà) rendevano sopportabile e anzi addirittura promettente la disuguaglianza economica e la già smisurata ricchezza di pochi. L’eguaglianza formale e la disuguaglianza sostanziale non restano distinte, ma sono fuse in un unico dinamismo in cui, nel quadro dell’affermata sovranità del popolo, la tensione al possibile sopravanza il giudizio sull’effettuale:
Si trattava piuttosto di una struttura culturale profonda, di un’autentica mentalità egualitaria capace di trasformarsi in tessuto sociale e corpo istituzionale, di diventare per dir così sostanziale: eguaglianza nelle opportunità e nelle occasioni di vita; eguaglianza nel non escludere nessuno da nulla; eguaglianza nel ritenere modificabile in breve tempo, e anche in modo radicale, qualunque situazione individuale (p.170).
Il processo che sopravanza lo stato di fatto percepito sempre come momentaneo, l’immensa apertura del possibile, identificata con quella degli immensi spazi aperti del West, l’epopea della Frontiera, sono i tratti essenziali da cui trae la sua forza della giovane democrazia americana, di cui Tocqueville descrive il formarsi.

Schiavone, anche con riferimenti all’altro grande libro di Tocqueville – L’Antico regime e la Rivoluzione – riporta l’attenzione sulla Rivoluzione francese nella quale, in assenza delle condizioni irripetibili che hanno consentito lo sviluppo della nuova Repubblica nordamericana, libertà ed eguaglianza si sono addirittura tragicamente contrapposte, fino a condurre la rivoluzione allo stallo nel Terrore: “il tentativo di raggiungere il massimo dell’eguaglianza si era trasformato in un “delirio” che aveva portato alla morte della libertà” (p.177).
Il punto di equilibrio Tocqueville crede di trovarlo nell’individualismo, carattere essenziale americano sebbene – come osserva Schiavone – filtrato da una lunga tradizione, sull’esempio della borghesia inglese e supportato dal robusto apparato teologico luterano e calvinista, secondo il quale ciascuno deve attribuire a sé – e non alla società – il proprio personale successo o insuccesso nella vita.
Un individualismo “umanitario” perché il diritto a praticarlo è riconosciuto da ciascuno a tutti gli esseri umani, ma anche – secondo Tocqueville – non privo di pericoli, se l’individuo si chiude in se stesso come un atomo senza finestre.
La società europea – mi viene da dire – ridonda all’interno di una rappresentazione della Storia da cui le azioni dei singoli, delle categorie e delle classi ricevono – come una eco – il loro senso. Niente di tutto questo – o quasi – in America, dove le azioni umane valgono per loro stesse. Non è però, quella americana, una società senza autocoscienza: essa la riceve non dalla Storia, non dal passato, ma dalla possibilità e dal futuro. Come osserva Schiavone:
La velocità del ricambio, insomma, agiva come attore depotenziante della forza e della radicalità del contrasto tra capitale e lavoro, o almeno dei suoi effetti principali sulle forme di coscienza, creando un ambiente dove le classi riuscivano a formarsi, ma solo in modo fluido e discontinuo (p.182).
Quella lotta di classe che ha avuto un secolare ruolo preminente in Europa, ha avuto perciò un ruolo secondario in America, segnando una divaricazione secolare tra la vicenda europea e quella americana, solo da poco – da dopo la caduta del Muro di Berlino – sostanzialmente ridimensionata.
Così il nostro autore passa a tracciare un quadro della vicenda, durata due secoli, della “lotta di classe”, che egli riduce – forse con eccessivo schematismo – a fenomeno peculiare della storia europea. L’organizzazione del lavoro di massa nella fabbrica, nell’ambiente socialmente chiuso e stratificato europeo, creava una massa d’urto sociale che ben presto si sarebbe data le sue espressioni sindacali e politiche. La lotta di classe rendeva evidente il contrasto fra l’eguaglianza formale, che pure con grandi difficoltà si andava affermando, e quella sostanziale, ed era perciò in grado di scuotere in profondità e a lungo le società europee, specie dopo che essa aveva assunto l’involucro della filosofia della storia del marxismo.
La sua centralità, affermata teoricamente da Marx, si sarebbe dissolta solo negli ultimi decenni del Novecento, con la fine della centralità della grande fabbrica:
La sua teoria dell’eguaglianza era dunque anche una teoria della liberazione, ed era legata a una sorta di palingenesi, di superiorità ristabilita. Voleva essere la teoria del lavoro, che ritrovava finalmente se stesso (p. 188).
Marx, osserva Schiavone, non è mai stato un teorico della politica. E’ stato essenzialmente – direi per riassumere con mie parole – un filosofo della Storia. E un filosofo della prassi, che collegava cioè intimamente conoscenza e trasformazione, come lui stesso riassunse nella famosa affermazione dell’undicesima tesi su Feuerbach sul ruolo dei filosofi nella trasformazione del mondo. Ciò separava e contrapponeva nettamente Marx a ogni soggettivismo non solo rivoluzionario, ma della politica come tale.
Egli metteva in luce, nella sua ricerca, la crescente e ineludibile contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali, entro i quali tale sviluppo restava ineluttabilmente sempre più imbrigliato, fino al punto che la loro incompatibilità avrebbe aperto “un’epoca di rivoluzione sociale”. Tutto nella teoria di Marx ruota intorno al problema del lavoro – merce. Al fatto cioè che il lavoro, pur essendo trattato da merce, non è una merce come le altre, perché attribuisce valore, non semplicemente lo riceve. Credo però che, mentre dice cose del tutto condivisibili sulla problematicità irrisolta del rapporto fra critica del presente e anticipazione del futuro in Marx, Schiavone non ponga nel dovuto rilievo la distinzione che il filosofo di Treviri pone tra eguaglianza e comunismo. Credo che egli ritenesse che l’egualitarismo dovesse riguardare solo quella parte della storia dell’umanità in cui il problema principale fosse di “condividere la penuria”, e nella fase di transizione. Ma che questo problema sarebbe caduto in un mondo nel quale, liberate le forze produttive dalla camicia di forza dei rapporti di produzione capitalistici e venuta meno l’alienazione (Entäusserung), come Marx afferma nei Manoscritti economico – filosofici del 44, e con il progressivo “venire meno dello stato e del diritto borghesi” (p.195), come riprende Schiavone, non ci sarebbe stato più bisogno di eguaglianza e ciascuno avrebbe avuto parte della ricchezza comune secondo i suoi bisogni.
Resta il fatto che, nell’esame che il nostro autore compie del pensiero di Marx, il concetto di eguaglianza si sovrappone, fino ad assorbirlo, a quello di disalienazione, mentre invece, secondo me, esso è – ben più dell’eguaglianza, che è un’idea sostanzialmente comparativa – il vero baricentro intorno al quale ruota la vicenda non solo della lotta di classe ma il destino “dell’essenza umana”. “L’appropriazione sociale di sé” essendo un obiettivo ben più profondo e vitale di quello dell’uguaglianza con gli altri: solo in questa prospettiva, infatti, si può evitare che l’idea di eguaglianza cada nell’ambiguità che può renderla indistinguibile dell’invidia sociale. Mentre una società egualitaria può essere – e lo abbiamo visto concretamente – oppressiva, un’eventuale società che pone la disalienazione come suo scopo non può esserlo. Perciò ritengo che questo concetto – e non quello di uguaglianza – possa fare da stella polare di un’umanità rimasta senza riferimenti.
Certo questo passaggio non può avvenire sul palcoscenico della rappresentazione della Storia, ma richiede ben altra fondazione ontologica, tale da porre su un altro piano – quello della complessità – quel dualismo tra quelle che Schiavone chiama le due eguaglianze: quella formale e quella sostanziale. Questo dualismo rimane insolubile sulla scena della “rappresentazione storica”.
È l’assenza sostanziale in Marx della categoria della complessità che vanifica la rappresentazione dell’andamento dialettico della Storia, che Schiavone giustamente rileva, ma senza egli stesso tematizzarla adeguatamente nelle pagine, peraltro lucide, di puntuale critica di Marx e del marxismo. Egli rileva la base metafisica del convincimento marxiano: “che la forma del movimento – la dialettica del rovesciamento – potesse tramutarsi direttamente nella sostanza della cosa ormai rovesciata: che la negazione portasse con sé già tutte le determinazioni del positivo che distruggeva capovolgendolo” (p.205).
Condivisibili del tutto anche le osservazioni critiche sulla rigidità astratta della concezione di Marx del rovesciamento, egli:
non sembra rendersi conto che questa riappropriazione mondana e diretta dell’universale avrebbe richiesto un cambiamento che non poteva riferirsi ai soli rapporti di produzione, al solo universo del lavoro, per quanto questo fosse determinante. Avrebbe comportato che si mettesse in discussione la figura stessa dell’individuale – e il suo archetipo nella persona cristiana – e che essa comunque non risultasse più come l’unica forma concepibile dell’umano (p.206).
Resta però implicito quale possa essere, nella dissolvenza della visione metafisica della storia, la nuova idea forza, la polarità da cui possa irradiare un nuovo orizzonte di senso per il “progetto dell’umano”. Personalmente non credo che questo ruolo possa essere svolto dall’idea di eguaglianza, piuttosto da quella – ben più radicale – di disalienazione. Questa può assorbire e far rivivere in sé molte delle istanze dell’egualitarismo, ma investendo e sollecitando più profondamente – oltre ogni “rappresentazione della Storia” – “l’essenza” umana. Essendo perciò potenzialmente ben più capace di coagulare forze, di produrre, dal magma atomistico in cui la globalizzazione ha ridotto la società attuale, vortici complessi di autoaffermazione sociale, emergenze performative, isole a macchia di leopardo, o ondate in grado di toccare direttamente il cielo del potere prima di ricadere.
Nonostante tutti i suoi limiti – in ciò mi sento in piena sintonia con Schiavone – resta lo sguardo profondo di Marx che attraversa lo spessore dell’umano, storicizzando molto di ciò che prima era stato considerato “naturale”, e la sua straordinaria capacità di sintesi. Il movimento marxista ha svolto un’enorme funzione non solo di contenimento delle aberrazioni, ma ha inciso in profondità sulle stesse dinamiche del capitalismo. Soprattutto con la sua immensa carica messianica è servito a spazzare via resistenze e sopravvivenze dell’Ancien Régime dove ancora ve ne erano.

Concordo anche sulla critica di Schiavone sulla sottovalutazione di Marx delle potenzialità della “democrazia borghese”, ma non per assumerla come cornice di una “rappresentazione storica” in chiave evolutiva, messa in crisi, secondo me definitivamente, nonostante possibili, temporanei “ritorni di fiamma” delle nazioni e della Storia, dal primato di un presente complesso, alienato, onnivoro, irrappresentabile, sulla prospettiva storica.
La prima guerra mondiale viene a segnare una cesura radicale nella storia d’Europa e apre alla “rivoluzione contro il Capitale” del soggettivismo bolscevico e, d’altra parte, alla prospettiva della totale Mobilmachung, della fusione delle energie morali, economiche e sociali di un popolo in funzione della guerra, che sarebbe stata avanzata poco più tardi da Ernst Jünger. A questa esperienza di una massificazione bellicista senza precedenti nella storia dell’umanità, che avrebbe aperto la via ai fascismi, Schiavone dedica limpide pagine:
Mobilitate dalle armi alla politica, masse di individui disintegrati dai loro ambienti originari e gettati sulla scena della “nazione” o della “classe” (o di tutt’e due insieme), si scoprivano disponibili a un contratto sociale senza precedenti, fondato non sulla cittadinanza, ma sull’ideologia (p.214).
Egli, pur evocandolo, evita di adottare il concetto di “totalitarismo” forgiato dalla Arendt e destinato poi a un grande seguito, che associa insieme fascismo e comunismo. Ma non evita di avanzare il pensiero che i due movimenti avessero in comune qualcosa di molto concreto: l’odio per la democrazia borghese. Sarebbe questo allora – al di là del patto Ribbentrop – Molotov voluto da Hitler e Stalin. Ma questo fu solo un accordo diplomatico, ben presto tradito.
Come si spiega allora la lotta mortale tra nazismo e comunismo che esplose poco dopo? Come si spiega, soprattutto, che i nazisti pensassero, nell’ultima parte della seconda guerra mondiale, che una loro proposta di una pace separata potesse essere accolta dalle potenze occidentali, e non dall’U.R.S.S., per consentire alla Germania di concentrarsi su un solo fronte? Come si spiega che i nazisti proponessero di liquidare l’U.R.S.S. con una sorta di crociata dell’Occidente riunificato, e non un’opposta, dell’Oriente unificato contro l’’Occidente, in nome del comune odio contro la democrazia?
In realtà l’esperienza sovietica non è fallita per il soggettivismo politicista di Lenin, né per le aberrazioni dello stalinismo, che in caso di riuscita dell’esperimento sarebbe stato considerato un prezzo accettabile da pagare per il successo. Ma dalla sua incapacità di “desoggettivarsi”, di tradursi, da progetto politico – ideologico “verticale”, nell’“orizzontalità” concreta della dinamica sociale, riqualificando gradualmente e articolandone le relazioni povere e arretrate, facendo incamerare a esse crescenti dosi di cultura e di potere, fino a fare diventare il sociale interagente – e non il partito – il vero protagoniste della società.
Invece, un soggettivismo giacobino incarnato nel partito e nello stato, incapace di progettare il proprio deperimento, si sarebbe sempre più irrigidito e “verticalizzato”, assorbendo in sé verso l’alto, fino a esplodere, le contraddizioni sociali che, invece di liberarle, esso cristallizzava e manteneva irrisolte. Questo soggettivismo verticale avrebbe negato la complessità, risucchiato le energie sociali più preziose per mantenere se stesso, la propria demiurgica separatezza dal processo su cui operava, segando con ciò il classico ramo su cui stava seduto.
La tentata esperienza dei soviet, dal cui fallimento Schiavone dice giustamente che Lenin “fu annientato”, fu invece un ingenuo tentativo di rovesciare direttamente il “potere” in tutta la sua astrattezza e povertà simbolica su un popolo la cui “costituzione materiale” era particolarmente povera e arretrata, irta com’era di particolarismi e di separatezze sociali che rendevano difficile la circuitazione vivificatrice dei flussi comunicativi.
Il contraccolpo fu tremendo: invece che la socializzazione dello stato, si ebbe una drastica statalizzazione del sociale, il declassamento della comunicazione a propaganda, i momenti cruciali della produzione collettiva di senso sfigurati e trasformati in riti vuoti.
il patto corporativo tra partito e classe operaia, avrebbe segnato irreparabilmente tutta l’esperienza del socialismo reale e poté reggere solo fino a che rimase centrale la grande fabbrica. Mancava un quadro teorico adeguato, un pensiero del soggetto nella complessità, l’indicazione esplicita di quello che avrebbe dovuto essere il vero, chiaro obiettivo della Rivoluzione d’Ottobre: la disalienazione sociale, intesa come potere orizzontale che nasce da uno sviluppo sempre più libero della dialettica tra individualizzazione e socializzazione, capace di dare contenuti creativi sempre nuovi a quell’estraneo, a quel “vuoto centrale” che sempre, a causa dei limiti della comunicazione interumana, si riforma nel cuore della società.
Solo Gramsci sarebbe riuscito, più tardi, parzialmente a intuire la necessità. Questo vero unico asse di ogni progetto dell’umano, sfugge alla sintesi peraltro acuta e penetrante di Schiavone: egli se ne fa sviare da un’idea, come quella di eguaglianza, che non è, nella sua essenza, incompatibile con l’alienazione, mentre vale il contrario. Ogni reale prospettiva di disalienazione (che definirei come libertà + creatività sinergica sociale) è compatibile e anzi richiede larghe dosi di egualitarismo, ma non si ferma a questo. La vita sociale è sempre un’avventura in divenire, sempre in deficit comunicativo, sempre minacciata da separatezze, chiusure e cristallizzazioni individualistiche o corporative. È come un puzzle che si produce da sé, perpetuamente alla ricerca del pezzo che gli manca. Noi non possiamo avere su di essa un sapere definitivo. Non possiamo averne rappresentazione se non a condizione di chiuderla, di irrigidirla. Non c’è un quadro della Storia, né un fondo naturale che ci sostenga. La realtà non conta di più delle nostre escogitazioni, anche se queste non possono ignorare o aggirare la sua centralità.
Ma, tornando a Schiavone e alla sua analisi critica della Rivoluzione d’Ottobre, è del tutto da condividere la sua affermazione:
La rivoluzione sovietica aspetta ancora il suo Tocqueville, o almeno il suo Furet (p.218).
Ma non condivido, quando, facendo all’inverso l’errore deterministico di Marx, dice che
Il dispotismo si rivelava così come l’essenza stessa del comunismo, nella sua completa dipendenza da una teoria senza fondamento: ne era la sostanza, non un semplice accidente creato da scelte soggettive o dalle circostanze (p.225).
Il dispotismo fu la conseguenza dell’assolutizzazione dell’egualitarismo come astratto, supremo principio dell’umano da realizzare in modo definitivo: un’eguaglianza concepita come meta finale, a cui sottomettere, nel frattempo, tutto, al posto di una disalienazione sociale e individuale che, pur con qualità migliorate nel tempo, si compie sempre ora, che è sempre al suo ultimo atto ma anche non lo è mai.
Certo questo avrebbe richiesto una ridefinizione profonda del ruolo del soggetto nell’ontologia dell’umano, liberato dal guscio di ogni rappresentazione storico – metafisica che solo ora, grazie agli errori del passato, noi cominciamo a intravvedere. Qui possiamo toccare direttamente l’ineludibilità del tragico nella vicenda umana.
Schiavone salva – e qui siamo di nuovo d’accordo – dalla sua condanna il pensiero di Gramsci. Egli lo considera una deviazione del pensiero marxista ortodosso degli anni Venti e Trenta. Intuisce, ma non afferma esplicitamente che Gramsci compie per la prima volta, elaborando la sua teoria dell’egemonia, il tentativo – peraltro secondo me parziale – di ripensare la questione del potere nella luce della complessità.

Acute e icastiche sono le sue considerazioni sulla “improvvisa obsolescenza” del comunismo nel rapido tramonto del mito industrialista a partire dagli anni Settanta, avvenuto inseguito alle rapide trasformazioni del capitalismo, secondo me in larga parte per la forte spinta delle lotte operaie che lo hanno costretto a superare un’economia incentrata sulla grande fabbrica fordista, mediata politicamente dallo stato.
Il capitalismo scoprì che, mentre la classe operaia lottava nello spazio locale o nazionale, esso aveva a disposizione il mondo intero, nel quale avrebbe potuto far valere tutta il vantaggio della sua asimmetria con il lavoro. Così decise di delocalizzare e polverizzare le sue contraddizioni, che non sono scomparse, ma pervadono in modo pulviscolare tutto il mondo, diventato un unico instabile sistema. La globalizzazione, facendo cadere ogni limite, faceva esplodere anche la cornice della rappresentazione della Storia, in un presente sistemico senza limiti e quindi senza futuro.
È a causa della loro tacita condivisione del quadro metafisico della Storia che furono possibili gli abbagli di Schumpeter e di Samuelson, che Schiavone ricorda, ma si potrebbero citare molti altri. È di questo quadro metafisico, come tale, che dobbiamo liberarci, non soltanto di una sua determinata declinazione.
Caduta l’alternativa socialista, il nostro autore si dedica all’esame di ciò che resta in piedi senza e dopo di essa: di quella democrazia come governo della maggioranza che dall’antichità greca giunge fino a noi, nella sua versione moderna, rappresentativa:
L’idea e il congegno – in qualche modo paradossali – per cui il popolo, proprio per poter esercitare la democrazia, dovesse spogliarsi del potere che essa gli conferiva, e separarsi dalla sua stessa volontà politica – da quel che il pensiero moderno chiamava ormai sovranità – per cederla a un ristretto gruppo di rappresentanti, selezionato attraverso una procedura elettorale. Era a questi ultimi che veniva affidato il potere di legiferare, e quello di controllare il governo della cosa pubblica (p.239).
Schiavone ripercorre le tappe della moderna democrazia, dai suoi albori in Inghilterra, quando ancora era privilegio aristocratico, al sorgere del bilanciamento dei poteri nello stato e via via fino all’universalità del suffragio. Fatto questo, che avrebbe mutato anche qualitativamente la natura della democrazia:
Dagli ordinamenti liberali si stava passando alle democrazie di popolo, che presupponevano un diverso e ben più esigente regime dell’eguaglianza pp. 240-41).
La ricerca di Schiavone lungo la linea direttrice dell’eguaglianza a mano a mano che si avvicina al presente, dominato dalla mondializzazione, mi pare perdere di visione, effondersi in una nebulosa di spunti e osservazioni, spesso episodici e divergenti. Ciò che egli stesso ammette, quando annota:
Dall’interno del vortice in cui ci troviamo – di questa improvvisa e inaudita accelerazione del tempo storico intorno a noi – ci sfuggono ancora la portata e la direzione del cambiamento (p.272).
E aggiunge francamente:
Facciamo fatica a distinguere le figure nuove dai resti del vecchio mondo ormai perduto (p.273).
La fatica – aggiungerei – è quella di staccarsi dai “trenta gloriosi”, come Piquettì ha definito l’arco di tempo, dopo la fine della seconda guerra mondiale, in cui si affermò lo Stato sociale europeo, la crescente influenza operaia e popolare inquadrata in quelle socialdemocrazie che seppero ridurre le diseguaglianze. La fatica è di entrare in un mondo radicalmente mutato dalla rivoluzione tecnologica e dalla globalizzazione che ha marginalizzato la secolare centralità del lavoro (almeno nei paesi capitalisti avanzati) che credevamo definitiva e che ora invece è stata dissolta dall’automazione e dalla delocalizzazione. Il mondo che ne risulta è fantasmagorico e pulviscolare: la produzione è occultata e le merci sembrano farsi da sé.
Il lavoro che resta è – potremmo di dire – di “servizio alla merce”, e alla merce per eccellenza: il danaro.
Si apre così un’epoca che potremmo definire di neoframmentazione corporativa del lavoro – osserva Schiavone – che non determina eguaglianza e non crea reti di legami sociali di massa, né tantomeno stabili strutture di classe – paradossalmente, proprio come il vecchio lavoro precapitalistico (p.266).
Le conseguenze sociali e politiche di questo cambiamento sono enormi. In pochi decenni sono stati disgregati “i fondamenti culturali e sociali delle società industriali”. Il lavoro è sempre più parcellizzato, astratto. Nonostante che per accedervi siano richieste saperi e competenze sempre più elevate, la posizione del lavoratore è sempre meno interna al processo produttivo. Egli è sempre più solo a contrattare il valore della sua forza lavoro. La sua è una posizione è sempre più simile a quella del consulente, del collaboratore esterno, il cui lavoro è on demand. Evidente che in questa situazione, salta il rapporto tra eguaglianza e lavoro, che l’autore giustamente definisce “un architrave della modernità” (p.268).
La conseguenza è la completa svalutazione delle attività umane non portatrici di nuovo sapere e di nuova tecnica: il loro immiserimento, la loro riduzione a pura quantità, sostituibile in ogni istante, perché la serialità del lavoro non ha quasi più valore alcuno (p.269).
Conseguenza di ciò è anche l’erosione della base sociale su cui si è costruito l’equilibrio del dopoguerra. In particolare la sparizione o marginalizzazione della classe operaia e dei ceti medi tradizionali, l’emergere del populismo come “grido disperato – ma che in breve rivelerà tutta la sua impotenza – contro il consolidamento della nuova aristocrazia capitalistica globale” (p.270). Ma non mette in evidenza che l’immensa, reticolare orizzontalizzazione di saperi che sta avvenendo, non può non avere conseguenze significative, anche nel senso di una socializzazione molecolare del potere che deve diventare consapevole di sé, producendo in sé le proprie “fibre nervose”.
Schiavone dedica l’ultimo capitolo del suo libro al destino dell’eguaglianza, che è secondo lui: “la misura della nostra visione dell’umano, che è il suo retroscena” (p.271). Questo filo conduttore della Storia – dice sostanzialmente – si è inabissato, anche se, dice, in una delle sue più belle ed efficaci formulazioni:
Il vecchio tracciato ha lasciato, al di là della sua conclusione, un irradiamento culturale – diciamo un modello di intelligenza critica ed etica – che oltrepassa la scomparsa delle fondamenta che l’avevano reso possibile, e continua a produrre effetti; come una sopravvivenza della genealogia rispetto al tempo: ed è proprio quest’ultima onda di efficacia ad avere una diffusione planetaria. Provoca una luminosità che non si spegne (p.277-78).
Nel riverbero persistente di questo tramonto egli vede la necessità di realizzare l’aggregazione a livello di politica nazionale di nuovi blocchi che portino avanti nei diversi paesi nella situazione di fatto l’idea di cittadinanza e il ruolo del popolo. Ma questo non basterà. Il tramonto dell’età del lavoro – egli annota – lascia un tremendo vuoto d’identità. L’eguaglianza – direi io – mostra i limiti della sua capacità di fare da diametro alla rappresentazione della Storia. Eppure il nostro autore non pensa di separarsene:
L’altro nodo riguarda invece l’elaborazione di un nuovo paradigma di eguaglianza, senza il quale non riusciremo a spostarci di un millimetro rispetto alle difficoltà che dobbiamo fronteggiare; un paradigma non dimentico del passato, ma adeguato alla realtà del nostro presente, che possa farci da guida nel cammino che ci aspetta (p. 281).
Ma il nuovo paradigma nella complessità non può avere il suo principio nell’esteriorità dell’eguaglianza. Perché l’eguaglianza insieme postula e richiede un mondo in bianco e nero, dialettico. Nel mondo complesso in cui siamo entrati, invece, il nuovo paradigma deve puntare su interiorità che si disalienano socializzandosi: il bisogno primario dell’uomo di oggi è quello di sé, di un sé concreto, realizzato nell’altro, attraverso l’altro (anzi gli altri), liberato dall’autoreferenzialità dell’individuo moderno.
Il sistema mondiale ha già attuato un certo tipo di eguaglianza, affermando centralità dell’interscambiabilità tra valori eguali delle merci di cui siamo tutti consumatori. Si tratta però di un’eguaglianza universale nell’alienazione e il potere che vi domina è quello delle cose (merci). Perciò mi pare che solo la riduzione della prima (la disalienazione) possa portare anche una riduzione della seconda. Qui appare tutta l’insufficienza della categoria di “eguaglianza”, nella sua pretesa di abbracciare l’umano. L’eguaglianza delle merci e quella, teorica, dei consumatori come tali, il sistema l’ha realizzata nella pratica che si rinnova ogni giorno del mercato. Questa è l’eguaglianza universale realmente in atto.
il sistema può attuare l’astratta “eguaglianza nel mercato” solo imponendo una sempre più marcata disgregazione, atomizzazione e disuguaglianza sociale. Ma “l’essenza” non è quella della diseguaglianza, quella è una sua condizione ed effetto: l’essenza del sistema sta nell’alienazione universale che esso produce, nel patto col diavolo che lo costituisce, per cui, in cambio dell’“aver cose”, l’uomo rinuncia a se stesso e al suo essere sociale.
Così l’alienazione, e il suo effetto diseguagliante, possono essere ridotti solo attraverso processi di disalienazione concreta che possono avvenire nell’interazione creativa insieme individuale e collettiva. Come abbiamo potuto constatare, storicamente l’egualitarismo può benissimo convivere con l’alienazione generale, anzi addirittura essere la giustificazione di essa.

Schiavone sente l’angustia ormai soffocante della rappresentazione della Storia imperniata sul soggetto, e intravvede la possibilità di un’autocoscienza nuova, impersonale, dell’umanità come “specie”. Apre alla ricerca di un nuovo più larga coscienza ontologica di un’umanità ormai giunta alla sua unificazione planetaria.
Nell’affievolirsi delle voci della Storia e della sua enfasi nel tempo unificato planetario, nella minaccia concreta che si rivolgano contro di lei le sue conquiste economiche e tecnologiche (al tema cruciale della crisi climatica, quadro entro cui oggi siamo obbligati a porre tutti i nostri pensieri, tutte le nostre prospettive , egli – ed è certo una lacuna – non dedica esplicitamente neanche una parola) l’umanità può trarre un inedito senso di responsabilità verso il proprio essere. Il nostro autore va alla ricerca di un nuovo quadro, di una nuova rappresentazione di senso:
non rinunciare alla forma dell’individuale, ma saperle affiancare un’altra determinazione non meno ricca, e non meno feconda. Una configurazione che vada oltre l’individuo, senza negarlo, ma integrandolo in una dialettica in cui il polo che gli sta di fronte abbia non minore forza, e non minore capacità di espressione (p.282).
E preconizza: “Una figura che non s’identifichi né nell’”mio”, dell’individuale, né nel “noi” della tradizione rousseauiano socialista, ma nell’impersonalità di quell’ “egli”, di quella “non persona” che, fuori di ognuno, permette a ciascuno di esistere e di pensare, e di non annegare nella prigione di un’autorappresentazione senza fine” (p.283).
Una figura in grado di superare la contrapposizione tra particolare e universale, senza dover ricorrere alle tradizionali mediazioni: quella metafisica trascendente o quella, immanente, hegeliana dello Stato (p.283).
Ricorrendo a un’osservazione di Simone Weil, l’autore ricorda che “il noi può essere peggiore dell’io”. Qui Schiavone ricorre alla ricerca di Roberto Esposito, e alla sua critica serrata “al dispositivo della persona”.
“Attraversando” Esposito, Schiavone formula infine la sua proposta:
collegare il pensiero dell’impersonale all’idea di eguaglianza; e di costruire una teoria dell’eguaglianza come proiezione primaria dell’impersonalità dell’umano sul piano sociale, etico, giuridico (p.285).
La storia dell’Occidente – dice in sintesi – è stata incapace di coniugare efficacemente individuo e eguaglianza:
riconoscere nell’impersonale l’autentico luogo di giunzione – storico, non metafisico – tra finito e infinito: tra il finite che muore, e l’infinito come illimitata capacità di produrre il mondo della storia; un’attitudine che attraversa il finito, anche mentre muore (p.286).
Quello che Schiavone vorrebbe superare è l’asimmetria fra soggetto e universalità. Non più punti di vista, rappresentazioni soggettive dell’universale, ma una visione universale dell’universale. Ciò che consentirebbe di farla finita con ogni rappresentazione.
Schiavone è alla ricerca di una rappresentazione che contenga insieme l’uno e i molti: la disimmetria dell’essere. Ma le sintesi della ragione teoretica afferrano l’uno o i molti, l’identità o la differenza. Secondo me va affermato il superamento di ogni quadro metafisico nel concreto agire di un l’umano che rinuncia a vedersi dall’esterno ma che si disaliena nel rapporto creativamente interrelazionale.
La relazione intraumana è tanto il quadro quanto il banco di prova dell’agire consapevole. Un quadro non astratto, ma che ha la forma del luogo (il qui) determinato in cui la relazione si produce. Così la relazione intraumana è anche relazione ambientale, per le condizioni in cui avviene e gli effetti d’insieme, ambientali, che produce. È allo stesso tempo personale e impersonale, io, noi, soggettiva e oggettiva, ma inseparabile dal “terzo”: la forma impersonale – ambientale localizzata che essa produce e in cui, allo stesso tempo, si sviluppa.
Il sociale interagente che è diventato consapevole dei suoi effetti ambientali è come il famoso viandante di Machado: “caminante no hay camino, caminante, son tus huellas el camino, y nada mas”. Non c’è un sentiero da battere: traccia la sua via percorrendola.
Questa può avvenire perché sono le relazioni sociali stesse a spingere, le esigenze del loro costituirsi in sinergie organiche che le rendono embrioni localizzati di una nuova universalità attuale, che fiorisce qua e là, a pelle di leopardo, nell’alienazione universale del mercato. Queste sinergie per essere organiche devono essere totali, cioè inglobare in sé, plasmandolo e rifondandolo, anche lo spazio fisico in cui avvengono.
La relazione interumana si è rappresentata come adagiata su un fondo naturale, ora questo fondo deve direttamente prodursi irradiandosi dalla relazione stessa, come aveva intuito Marx, prima di ricadere in una nuova metafisica della Storia. Non è la Storia a comprendere in sé la dialettica della relazione. Al contrario, è la relazione consapevole, cioè allo stesso tempo interumana e ambientale, le sue potenzialità infinite di sviluppo creativo, a comprendere in sé la storia delle infinite potenzialità delle relazioni interumane.
L’impersonalità della relazione non sarebbe dunque un dato, ma l’irrappresentabilità stessa dell’agire umano prima scomposto nella diade soggetto – oggetto dal quadro metafisico della Storia.
Abitare consapevolmente l’essere è l’attività più totale che l’uomo possa compiere. Comprende e attua insieme tutto l’umano. E’ totale, perché contiene tutte azioni, tutti i loro intrecci, tutti i loro effetti, come anche le loro possibilità aperte, tutte le rappresentazioni, ma è esso stesso irrappresentabile.
Si fa, è sempre localizzato, essendo la fisicità di un luogo il tertium tra io e noi. Contrariamente al passato nel quale era rappresentato come rifugio, come tana, proprio il localizzarsi costringe l’abitare ad essere aperto.
Il luogo dell’abitare non è né una tana, né solo una cornice: è coessenziale alla dinamica relazionale della comunità, la quale perciò, per quanto grande o piccola che sia, è sempre comunità locale. Solo per questo, perché si costruisce e comprende in sé la determinatezza di uno spazio locale, aderendo e assumendo incondizionatamente le accidentalità, l’abitare è impersonale e universale. La comunità locale consapevole, nell’affrontare la radicale problematicità del suo abitare un luogo determinato, avverte che il suo esperimento locale ha una valenza mondiale, universale.
La “rivoluzione dell’impersonale”, il nostro nuovo umanesimo senza soggetto, che dovrebbe emergere con “fasce di vita deindividualizzata” non sarebbero tanto “regolate da un’eguaglianza che agisce, per così dire, secondo “equilibri puntuati” ma da un farsi integrale dell’umano nella sua realtà consapevolmente dinamica quale si crea nella relazione. Così verrebbe meno anche l’esigenza di avere “beni comuni”, in quanto essi verrebbero assunti, quando se ne manifesti il bisogno, nel processo di autoproduzione della relazione consapevole. Essa certo può mettere al suo servizio dosi crescenti di tecnologia per ridurre quell’incomunicabile che sempre di nuovo si forma nel cuore di ogni comunicazione.
Se non è focalizzata esplicitamente la relazione organica consapevole, il cui motore è l’esigenza di disalienazione individuale e sociale, le diverse esigenze umane evaporano in elenchi dispersivi, con scarsa forza performativa autorealizzatrice, buoni solo per riempire programmi politici e campagne elettorali. Al contrario, l’azione dell’abitare consapevole così come abbiamo cercato di definirla, può produrre anche i gradi di coesione e di potere (più coesione sociale = più potere sociale) grazie ai quali ha meno bisogno di chiedere, di rivendicare, di quanto non sappia procurarsi esso stesso ciò di cui momento per momento ha bisogno per crescere.

Sono del tutto l’accordo – come ho detto sopra – si tratta di pensare a delle “isole”, come le chiama Schiavone, ma la loro essenza non sarà determinata dal loro carattere egualitario (non voglio richiamare l’esperienza delle “comuni” degli anni ’70) bensì dal loro essere spazi di disalienazione, embrioni in atto di universalità, sebbene a diversi livelli di completamento. Il suo continuo insistere sul principio di eguaglianza, come se esso potesse servire da stella polare in una complessità che invece non lo consente, rivela secondo me la sua titubanza a staccarsi da una rappresentazione “esterna”, metafisica, dell’umanità.
Le ultime pagine di Schiavone contengono pensieri per lo più condivisibili e sono talvolta di sintesi brillante. Egli però – come ho già detto – trascura il carattere ultimativo (direi escatologico) della crisi climatica, che prospetta a breve la fine dell’intera specie e cambia radicalmente il quadro entro cui noi tutti eravamo abituati a ragionare. Egli ribadisce l’intuizione – profonda e secondo me decisiva – dell’impersonalità, il cui potente respiro, giunti all’estremo limite della crisi del soggetto moderno, siamo oggi in grado di avvertire.
L’allusione evangelica “a un ordine impersonale e divino dell’universo” nel quale “la figura di Dio e la figura dell’uomo possano ritrovarsi anche al di là di una teologia della persona concepita come senza alternative” era in qualche modo già presente in Platone e prima ancora in Eraclito.
Il sapere del mondo – dice Schiavone – è strutturalmente impersonale, e la sua energia egualitaria è fortissima, se sappiamo trovargli con cura i vettori, le linee di trasmissione, i punti sociali d’impatto (p.298).
Giustissimo, ma questi vettori, linee di trasmissione e punti sociali d’impatto non possono essere gestiti da individui atomizzati, ma vanno creati e finalizzati per la promozione di comunità consapevoli localizzate e aperte, che producono nel senso che si è detto la loro impersonalità.
Se l’autore preconizza il sorgere di un “lessico transnazionale dell’eguaglianza – e delle sue proiezioni etiche, politiche, giuridiche – connesso non più ai soggetti, ma all’oggettività. Dei beni ricompresi al suo interno, e alle funzioni sociali attivate dalla loro fruizione paritaria e comune” (p.300), io auspicherei che le comunità consapevoli, man mano che si formano, dovrebbero radicare sempre più la loro “localizzazione” aprendosi a reti transnazionali di comunicazione e di confronto tra loro, ricordando che gli alberi più robusti sono quelli che hanno radici che giungono più lontano.
I processi realmente disalienanti mirano all’universalità – come anche la volontà di potenza – ma, a differenza di questa, che intende l’universalità come “verticalità pura” della propria assolutizzazione, sono processi relazionali nei quali la soggettività si realizza trascendendosi.
Queste reti relazionali orizzontalmente interagenti, in grado però di condizionare la “verticalità” del potere, potrebbero produrre strutture di una nuova, concreta universalità, intrecciata ma allo stesso tempo alternativa a quella del mercato. Importante è a questo proposito quanto Schiavone afferma:
La quantità di lavoro da destinare al mercato – direttamente sotto il controllo del capitale – tende sempre più a ridursi, perché una sua parte è sostituita dalla tecnica, e questo rende disponibile per altri scopi una quota sempre maggiore di energia psicofisica umana (p.301).
Queste energie vanno rivolte allo sviluppo delle relazioni interumane nell’ambito della sfida delal disalienazione sociale e della crisi climatica sempre più drammatica in atto, che deve attivare un’inedita “coscienza di specie”.
Schiavone scrive poco prima della svolta epocale imposta al mondo dalla pandemia: un drammatico tornado che ha gettato in aria e sparpagliato ciò che sembrava assestato e definitivo. Essa ha messo in luce, in un flash istantaneo, tutta la fragilità, l’artificiosità del liberismo e della sua creatura: l’universalità astratta reale del mercato. Questo, presupponendo falsamente di operare in un mondo senza limiti, sta portando l’umanità alla rovina. Quest’universalità astratta delle merci dovrebbe essere rovesciata d’un colpo, sostituita da quella positiva degli umani. Ma cadremmo nello stesso errore di Marx: la potenza del negativo è solo negativa. Ma possiamo molecolarmente introdurre qua e là, isole di positivo nell’abitare alienato: sintesi autopoietiche di io – noi – ambiente che, su quella liscia e oscura omologazione alienata, possano produrre un diffuso, pulviscolare effetto luminoso: lucus a non lucendo.
Copertina: Silhouette nella mostra di Mario Ceroli Aria di Daria presso la Galleria de’ Foscherari a Bologna 1968. Foto di Paolo Monti.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!