Non ho ancora capito cosa sia Venezia

Tuttavia quello che è successo dal carnevale con peste fino a oggi, quando c’è chi sostiene che la storia sia tutta un’altra storia.
FRANCO MIRACCO
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Con un intervento di Andrea Martella, che abbiamo voluto titolare significativamente Il filo d’Arianna per non perdere Venezia, ytali ha avviato una discussione aperta e larga sul futuro della città. Non l’ennesimo dibattito, ma un confronto che intende essere senza precedenti: lo impone la situazione senza precedenti creata da Covid-19, come spiega il direttore di questa rivista in un articolo teso a illustrare lo spirito e i contorni entro cui avviene questa discussione. È intervenuta Tiziana Plebani, quindi Michele Mognato. Oggi pubblichiamo volentieri il saggio di Franco Miracco.

Nel momento in cui “la cosa” si fa seria, anzi grave, quello è il momento di fermarsi a pensare, il momento di capire dove e come possono esserci possibili soluzioni, credibili vie d’uscita da una crisi che se ha un elemento di un qualche considerevole interesse questo non lo si trova sul versante sanitario o “solo” su questo, malgrado tutta la nostra ansiosa speranza che la Scienza trovi al più presto la risposta più efficace nel garantirci la Salvezza, l’umanissima salvezza del giorno dopo giorno, fino al prossimo giorno che sarà. Giustamente allora è un invito a proporre e approfondire idee e suggestioni progettuali, ciò che si coglie nel tempestivo compendio con cui Andrea Martella “prende partito” per una, tutt’altro che rassegnata, fuoriuscita dalla crisi politica, culturale, sociale, (economica?) che conoscono il Veneto e Venezia, in particolare Venezia.

Una crisi in atto assai prima della comparsa devastante del virus e al cui seguito la sofferenza e i dolori dei mesi passati, ammesso che siano finiti, sono serviti, se non altro, per vederci chiaro su alcuni nostri antichi e mai scomparsi mali e sui recentissimi, ripugnanti mali cresciuti all’ombra dell’epidemia, presto “sfruttata” con la compiacenza di molti, mediante i vari trucchi e inganni degli esperti in malaffare. Esperti sul genere di coloro che, a poche ore soltanto dal terribile terremoto dell’Aquila, già immaginavano che sarebbero caduti nelle loro tasche i finanziamenti della ricostruzione.

Erano i cosiddetti “furbetti del quartierino”, gli onnipresenti corruttori, gli avvoltoi immancabili su ogni tragica evenienza e che chissà in quali modi avranno operato nelle fasi più dure dell’epidemia. Martella, politico di buone letture e con buoni studi, cui ritengo non sia stata affidata per caso la delega all’Informazione e all’Editoria a Palazzo Chigi, nel concludere il suo sollecitante compendio ha citato un pensiero del Goethe veneziano e democratico che coglie in pieno il fascino della potente energia originaria di Venezia, della sua storia e del suo popolo. Ma c’è il Goethe di un resoconto quasi giornalistico e che in Italia ha avuto per titolo il verso carducciano “Incomincia la novella storia” (in Goethe si può pescare da un oceano sconfinato), in cui lo scrittore narra la propria disincantata esperienza nella guerra dell’Europa delle monarchie contro la Francia ancora rivoluzionaria del 1792. È lì che si legge

tanto nelle disgrazie procurate dall’uomo all’uomo, quanto in quelle che la natura ci invia, si presentano dei casi particolari che sembrano indicare un destino, una provvidenza benefica.

La nostra provvidenza benefica è stata quella di aver potuto misurare (ove ci fosse stato bisogno di un’ulteriore riprova), tra l’attonito e l’incredulo, a che punto di imbarazzante perdita di consistenza politica siano giunti i politici al vertice nella Regione del Veneto e nel Comune di Venezia. Un’inconsistenza chiaramente sostituita, o meglio mascherata, dalla disinvoltura tipica dei dilettanti, pronti a interpretare tutti i ruoli in commedia pur di rendersi credibili in ogni ramo dello scibile umano, e in qualunque altra impetuosità dettata dalla recita in cartellone fissata giorno dopo giorno, nell’attesa sempre più nervosa, del “si passi subito dal dopo virus al giorno delle elezioni”. E la maschera ha iniziato a logorarsi, a cedere, a far intravvedere il vero, solito volto della Lega a conduzione zaista, quando l’ottimo e generosissimo Andrea Crisanti, il professore portato in palma di mano nella lotta al virus dal presidente del Veneto fino all’altro ieri, non ce l’ha fatta più a sottostare a insinuazioni, a malignità, alla più che prevista sottovalutazione del suo instancabile impegno.

Non aveva capito il bravo e sapiente Crisanti che lo zaismo prevede un solo Scienziato globale, un solo Medico di famiglia per tutto il Veneto, un solo Terapeuta, un solo Esercente di tamponi, per l’appunto Luca Zaia. Allora, se non si hanno idee chiare e fondati giudizi su cosa sia la “sua” Lega, diventa impossibile delineare le necessità indispensabili per uno sviluppo di civiltà nel Veneto e a Venezia e di cui si dirà. Alla polemica ingiuriosa, Crisanti ha risposto così:

È una polemica a senso unico. Io l’ho ignorata fino all’ultimo, ma quando vengono dette bugie a fini politici, con sprezzo di tutte le sofferenze e dei morti, devo rispondere perché sono indignato. Si vuole riscrivere la narrativa per accaparrarsi un dividendo politico.

Come tutte le persone mansuete e oneste quando decidono di parlare, parlano, e Crisanti parla:

Se in Veneto esisteva un piano regionale sui tamponi al 31 gennaio, allora mi devono spiegare come mai l’11 febbraio il direttore della Sanità regionale mi ha minacciato di danno erariale perché cercavo di intercettare gli asintomatici che venivano in Italia. Sia chiaro: se non fossi stato fermato, probabilmente le prime infezioni le avremmo intercettate e l’epidemia avrebbe avuto un corso completamente diverso. Chi ha scritto quelle lettere ha una responsabilità precisa.

Questo in una non sottomessa intervista rilasciata dal professore al Fatto, dove si accenna a lettere censorie nei suoi riguardi e a lui indirizzate, così pare, da qualche funzionario zaista. Comunque da un “apparato” regionale, non si sa se lo stesso in grado di manovrare il “covo di decisori” che ha classificato all’ultimo posto l’Azienda Ospedaliera di Padova, nell’ambito di una graduatoria spruzzata di veleni. Nella ricostruzione dei fatti di cui parla il mite ma non turlupinabile prof. Crisanti ci sono alcune date che possono aiutare a capire il grado di responsabilità (solo politica?), anzi, di irresponsabilità che sembrano essere passate assai presto nel dimenticatoio nostrano.

Se qualcuno in Regione predisponeva addirittura un piano sui tamponi già il 31 gennaio, se l’11 febbraio il direttore regionale della Sanità accusava Crisanti di danno erariale essendo intenzionato, il professore naturalmente, a intercettare gli asintomatici, e se, sempre Crisanti, ricorda una lettera dell’ufficio regionale della dottoressa Francesca Russo inviatagli in data 8 febbraio e con la quale si intima, al mite ma non turlupinabile professore, ”di non fare più i tamponi agli asintomatici che tornavano dalla Cina”, abbiamo o non abbiamo il dovere di avanzare la seguente domanda: come mai nessuno, ma proprio nessuno, con una qualche competente e specifica responsabilità si è ricordato, a tutt’oggi, delle date di un Carnevale di Venezia lasciato correre di fatto fino al giorno prima del 25 febbraio, martedì grasso? Nulla sapevano il presidente Zaia e il sindaco di Venezia Brugnaro di una grave epidemia da Covid-19 esplosa il 21 febbraio a Codogno e subito estesasi tra Lombardia ed Emilia? Nulla sapevano dei due turisti cinesi provenienti da Wuhan e ricoverati allo Spallanzani di Roma in condizioni gravi il 30 gennaio?

La triste verità è che niente e nessuno doveva fermare il Carnevale, che per giorni e giorni ha visto decine di migliaia di persone addossate le une alle altre per calli, bar, ristoranti, parcheggi, vaporetti, treni e bus. In verità, le date di cui parla il prof. Crisanti sono molto rivelatrici e in Regione non potevano non sapere quello che stava accadendo con il Covid-19. Ci si riferisce alla Regione perché non sembra esserci un sindaco a Venezia, ma questo lo si sa da tempo. In ogni caso, ove servisse a qualcosa, è di qualche settimana fa la drammatica notizia che a seguito della folla di tifosi accorsa ad assistere alla partita Liverpool-Atletico sono morte da virus 41 persone. Lo rivela uno studio eseguito per conto del Servizio Sanitario Britannico, mentre noi non sapremo mai quanti furono i contagiati e i morti causati dal virus del Carnevale, con sofferenze e dolori non si sa se trasferiti in aree ben più vaste del centro storico veneziano. A proposito del Covid-19 in Italia, lo scorso 19 marzo la coppia cinese esce guarita dal mitico Spallanzani e l’assessore regionale alla sanità del Lazio dichiara: “È una notizia positiva che deve rendere orgogliosi tutti gli operatori sanitari italiani”. Semplicemente così, tenendosi lontano da vanità politiche sgradevoli del genere “prima Roma con lo Spallanzani, primo il Lazio con una grande qualità sanitaria”.

Giunti a questo punto ci si potrebbe chiedere se non la si stia prendendo un po’ troppo alla lontana nel cercare di contribuire al compendio proposto da Andrea Martella. È che solo dall’analisi, o almeno dall’individuazione dei mali di un Veneto chiuso da decenni tra reali difficoltà, grossolane vanterie e inganni populisti di una pericolosa politichetta da imbonitori, si possono evidenziare i rimedi migliori per Venezia e per Il Veneto. Oltretutto, c’è da considerare seriamente che la studiata nebbia, diffusa a piene mani dallo zaismo, aleggia spesso nelle menti confuse e disinformate di più appartenenti a gruppi politico-mediatici (tempo fa li si sarebbe detti di area progressista) che giocano al distinguere il Salvini cattivo dallo Zaia buono, il Salvini sovranista dallo Zaia realista.

È un gioco insensato cui prendono parte anche alcuni vecchi arnesi di una politica fanfaronante, la stessa che ha mandato in rovina Venezia governata da costoro per decenni con il risultato di ritrovarci ora con l’incognito Brugnaro. Trattasi di distinguo buoni per comparsate televisive ma non per la verità storica: la Lega nasce e si espande grazie a solide radici razziste, incolte, coerentemente antieuropeiste (e quegli imprenditori dagli ottimi affari ovunque in Europa e che a casa votano un partito nemico dell’euro e dell’Unione Europea?). La Lega di Zaia è la Lega che per anni ha sfilato per Venezia dietro a slogan contro l’Italia, contro il tricolore, contro Roma ladrona, un tormento nient’affatto scomparso dalle manifestazioni zaiste del dopo emergenza virus. E non ci fu alcuna distinzione nella Lega durante il, dannosissimo per l’Italia, caso delle quote latte. Una triste vicenda con tutta la Lega protagonista di

decisioni che hanno danneggiato migliaia di allevatori onesti e tutti i cittadini, visto che lo Stato ha già pagato 4,5 miliardi di euro.

Questo il commento di Maurizio Martina quando fu ministro delle politiche agricole, dopo la sentenza dell’Unione Europea che condannò l’Italia per non aver recuperato 1,3 miliardi di euro dai produttori lattieri che non avevano rispettato le quote latte nel periodo 1995-2009. Caso mai se distinguo hanno da esserci questi sono quelli tra gli allevatori onesti e quelli che onesti non furono, tra i professionisti generosi e competenti alla Crisanti e i politici che mai renderanno conto di quanto accaduto con il loro Carnevale nel mezzo dell’epidemia, tra chi sta progettando nuovi e devastanti impatti contro il territorio e l’ambiente in vista delle Olimpiadi invernali e chi invece ritiene prioritarie la tutela e la salvaguardia dei territori compresi tra le Alpi e il Mare, obiettivi da perseguire e praticare nell’interesse anche di operatori sportivi e turistici onesti e non incolti.

È che in Veneto se c’è un legante che tiene assieme, nel bene e nel male, non tutto ma abbastanza, sia direttamente che per infiniti rivoli di indotto, comprese le offerte culturali, questo è il turismo, da Verona a Venezia, dalle Dolomiti alle spiagge, da antiche città speciali come Vicenza e Padova alla mostruosa calamita che da e per Venezia attira e dissemina lungo il vasto arco costiero adriatico miliardi di euro, centinaia e centinaia di alberghi, ristoranti e pizzerie, eccetera, eccetera. Un affare gigantesco che tra Veneto e Venezia cresce ben oltre i settanta milioni di presenze l’anno, di sicuro così nel 2019, e che, in Veneto e a Venezia, incredibile a dirsi, sono bastati i tre mesi di chiusura da virus per lasciare senza un euro in tasca tanti “poveri” imprenditori, talmente poveri da non aver mai potuto mettere alcun risparmio in banca durante i lunghi anni di grasse vacche turistiche.

Molti di costoro hanno immediatamente messo in cassa integrazione il loro personale, oppure se ne sono completamente dimenticati non aiutando in alcun modo migliaia di dipendenti e le loro famiglie. Sono quegli stessi imprenditori, imprenditori si fa per dire, assai lesti nel piangere e urlare per avere rimborsi da parte dello Stato, pur essendo proprietari di più alberghi, di più ristoranti, di più caffè, bar e pizzerie, oramai quasi tutti riaperti. Esercizi sicuramente in perdita c’è da supporre, visto il comportamento tenuto nei confronti di dipendenti messi spietatamente in strada. D’altra parte, non siamo forse i maestri indiscussi del “chiagni e fotti”? Ovvero quelli “cui nulla riesce tanto bene quanto la parte di vittima e perseguitato”, come diceva Montanelli e che, se fosse vivo, avrebbe aggiunto trattarsi di presunti imprenditori “perseguitati dal Virus, dal Governo e dall’Europa”.

Nella Venezia dai circa quaranta milioni all’anno, o poco meno, di turisti di vario genere o in sosta o di passaggio o “invisibili” nelle sistemazioni extra alberghiere, non c’è alcun dubbio che ci siano ristoratori e albergatori onesti e responsabili, del tutto estranei alla infame genia dei “furbetti del quartierino”. Sono quelli che certamente non vanno ogni giorno a recitare in piazza San Marco la parte dei disperati derelitti senza più turisti, senza un euro, ma tra coloro che hanno fatto la parte dei piagnoni ci sono quelli molto impazienti di potersi impossessare di nuovi alberghi. Il resto lo ascolteremo da chi se ne intende, e molto. Restando in tema di “acchiappa il turista” ad ogni costo, lo scorso 17 maggio, il supremo vertice della Sanità veneta, il presidente Zaia, durante la quotidiana conferenza stampa informativa e preelettorale, ogni giorno di ogni settimana in eterno per ogni mese virale, si è lasciato andare a una inarrivabile goliardata.

Volendo dirottare turisti da ogni parte del pianeta verso il Veneto, non ha esitato un secondo nello spararla grossissima:

Noi dovremmo spendere in maniera migliore l’atout della qualità sanitaria che eroghiamo. Se un turista che arrivasse qua e avesse bisogno di un trapianto urgente di cuore o di fegato, da noi lo fa gratis.

Qui l’imbarazzo non può che essere più che imbarazzante, perché non c’è dubbio alcuno: Luca Zaia conosce ogni aspetto del sistema sanitario regionale e nazionale, ne conosce i pregi, le qualità individuali e di squadra, anche se metodicamente dimentica il tanto o il poco che non funziona (il giudizio ultimo dipende da chi si trova nella necessità di essere assistito). Dunque, il presidente sa bene che per un trapianto di cuore o di fegato ci sono severi protocolli da osservare, liste di attesa da rispettare, procedure per la regolazione, formazione e vigilanza della rete trapiantologica, nonché funzioni operative di allocazione degli organi… parole tratte dal Centro Nazionale Trapianti.

La questione è molto seria e quindi invece di prenderla alla leggera o a ridere con la figura del turista in vacanza in Veneto, ma con urgente bisogno di trapianto di cuore o di fegato, è doverosamente più fondato dire che non esiste affatto un trapianto gratuito. Né per il turista straniero, né per un ammalato italiano, sia esso veneto o pugliese. Si paga, eccome se si paga, secondo un preciso tariffario: per il trapianto di cuore 62.601,67 euro, per il trapianto di fegato 83.530,34. E chi paga? Il sistema sanitario italiano per quanto ci riguarda, o quello tedesco o britannico o belga, se il trapiantato viene da uno di questi oppure da altri sistemi sanitari dell’Unione Europea. O no, gentile presidente? Dal “liberi tutti”, prima che lo potesse dire un presidente di Regione non “veneto”, al surreale “turista con bisogno urgente di trapianto che, se si trova in vacanza in Veneto, il trapianto lo fa gratis”.

Giusto de’ Menabuoi: Adoratori e malati presso la tomba di Luca Belludi nel 1376, nella cappella a lui dedicata nella Basilica di Sant’Antonio a Padova.

Diciamo che il presidente Zaia a volte esagera, forse anche troppo, nonostante si stesse parlando di un delicatissimo e nient’affatto secondario ramo della sanità ospedaliera veneta, i trapianti, che a Padova hanno visto e vedono ancora oggi storici, straordinari successi. Chi invece non la prende alla leggera è Luigi La Spina, che nell’editoriale di venerdì 29 maggio della Stampa, dal titolo più che esplicito, “A rischio l’unità dello Stato”, scrive:

La responsabilità dei governatori, come amano essere definiti, è gravissima perché soffiano sul fuoco di un demagogico risentimento contro lo Stato.

Ciò che ottengono è di

abbattere qualsiasi residuo di fiducia (…) ricorrendo al sottofondo di ostilità campanilistiche e provinciali che, purtroppo, ancora è presente negli umori della nostra comunità nazionale.

E questo “costituisce una bieca e vile operazione politica”. Ma chi sono i protagonisti di un simile e non proprio dignitoso comportamento politico? La Spina, dopo un cenno a una “furbesca ambiguità”, non ha mezze parole e dice:

Si è assistito a uno spettacolo indecente, in cui la troppo esaltata fantasia italica si è accoppiata a una corsa alla popolarità dei presidenti regionali, che sono stati, a sinistra, il campano De Luca con il suo immaginifico lanciafiamme, e a destra il veneto Zaia con la sua bandiera a tamponi.

L’irriducibile Luigi La Spina conclude con una manzoniana lucidità per nulla rassicurante:

Il contagio finirà, lo speriamo. Ma gli untori più pericolosi, purtroppo, resteranno. Sono quelli che stanno demolendo la dignità e l’unità del nostro Stato.

La spregiudicata, cinica, disinvoltura con cui l’epidemia è stata manovrata al solo scopo di ottenere il maggior tornaconto politico possibile per il presidente e per il suo partito, la Lega, non può non indurre a pensare a un Veneto immeritatamente ingessato da una sindrome che si riflette patologicamente sull’economia, sul sociale, sul culturale (dove per cultura di norma s’intende un qualsiasi sgabello, sia esso la Biennale che una Sagra alla Papeete, basta che serva ad alzare il numero dei turisti). E problemi tutt’altro che secondari riguardano il sistema sanitario e quello dei trasporti pubblici (nulla di peggio dei trasporti in esercizio a Venezia prima e dopo il virus). L’involucro che soffoca le enormi, spesso incredibili, potenzialità del Veneto è la Sindrome del “Re è nudo”.

La favola, meglio sarebbe chiamarla la parabola, del beffardo bambino che annienta con il suo urlo l’inganno dei due falsi tessitori, a loro dire capaci di creare per il Re un inesistente abito nuovo, un abito che avrebbero visto solo gli intelligenti, non gli stupidi, è l’eterna favola cui assistiamo ininterrottamente. Il significato della parabola non può che essere il seguente “abilità dei persuasori, credulità dei vanitosi e delle folle, servilismo dei gigli magici che fioriscono intorno ai potenti”.

È di questa Sindrome che è ammalato il Veneto, una paralisi che a Venezia si raddoppia assurdamente: da una parte la città antica che annega nel suo non poter essere più città, dall’altra Mestre, la Venezia di terraferma che vampirizza, incolpevolmente, la città d’acqua dove scorrono le ricche arterie del turismo. Oltretutto sia a Mestre che a Venezia è stata negata la nascita di una favolosa “isola del tesoro”, quale sarebbe dovuta e potuta essere Porto Marghera, il waterfront della modernità e del futuro innovativo in ogni senso e direzione, un politecnico delle scienze e delle arti, un nido da cui dare le ali alle nuove generazioni non più costrette a cercare altrove le loro “isole del tesoro”.

Imperdonabile il rachitismo di cultura politica e di inerzia progettuale sofferto dalla sinistra veneziana del tutto sterile su Porto Marghera, nonostante sia stata al governo della città dagli anni Ottanta in poi, fino all’insediarsi in Comune di un pasticcio velenoso a suo modo “figlio” di quel rachitismo, di quella inerzia, di quella sterilità politica. E lo sguardo di Medusa che pietrifica le intelligenze e le energie migliori del Veneto, si fa paralisi insopportabile a Venezia, come può esserlo un Carnevale tristissimo, perché senza senso, se non quello di trasferire milionate di euro, ma nelle tasche di chi? Di chi non sappiamo e non lo sappiamo per davvero, perché è impossibile distinguere se si stanno piangendo lacrime vere o non invece lacrime false nella speranza di ricevere dallo Stato quel poco o quel tanto di euro che andrebbe dato a chi ne ha bisogno sul serio, siano questi artigiani o commercianti onesti, imprenditori o negozianti non evasori, in breve a chi è degno di vivere e lavorare a Venezia.

Ventisei marzo 1979. Funerale al petrolchimico di Porto Marghera per la morte di tre operai foto Donato Rossi ©Laboratorio Mestre 900

Se si parla di centro storico, di città antica, di millennari borghi appenninici, di una delle molte terre illuminate dal doppio arcobaleno del paesaggio e dell’arte, terre spesso accresciute dall’amore e dalla creatività per l’agricoltura, dal rispetto e dalla conservazione delle testimonianze storiche immateriali e materiali, immediatamente il discorso scivola sul binomio cultura e turismo. Purtroppo, di norma, anche se non sempre, l’odiosa conseguenza dell’abbinamento è il turismo desertificante, quello che da una carovana di anni, per esempio, ha plasmato Venezia e la sua storia con una vernice mortifera e mortificante, che turba gravemente la qualità della vita dei residenti e con essa la socievolezza e l’acquisizione di un soggiorno a Venezia più che motivato e civilmente desiderato, se non preteso, dal turismo migliore.

Il primo, fondamentale, ragionevole e quindi proprio per questo più che urgente proposito di rinascita, dovrebbe essere un unico capitolo di un programma di politica culturale essenziale perché con un solo intento, quello di essere radicalmente trasformativo nei riguardi di un destino che oggi ci appare segnato. Un programma che si concentri sul controllo e sulla lungimirante e culturalmente consapevole, cioè competente, regolazione (che non è espropriazione) del patrimonio immobiliare pubblico e privato. Regole e controllo che dagli appartamenti di provata e sostenibile residenzialità alle botteghe autenticamente artigianali e trasparentemente commerciali (la trasparenza di cui ha anche scritto Tiziana Plebani) accertino, sulla base di valutazioni d’ordine culturale e socio-economico, l’uso e la destinazione degli immobili storici. In sintesi, che ci sia un osservatorio per una programmazione non fittizia dell’intero tessuto edilizio, architettonico, monumentale, pertanto storico e culturale su tutto l’arcipelago veneziano.

Si sta dicendo del corpo e dell’anima di Venezia, un bene che va tolto agli interessi speculativi di chi compra palazzi storici per farne alberghi e residence o per allestirvi sedi espositive di Fondazioni private le cui attività vanno a sovrapporsi le une con le altre, con raro vantaggio per la cultura, quando non sia un di più in perdita sotto ogni punto di vista. D’altra parte si sa, il troppo stroppia, perché nell’annullarsi vicendevolmente le offerte diventano insignificanti e portano a uno sterile vuoto culturale. Un vuoto che si riempie del peggior turismo, quello vagante a milioni di persone (a giorni torneranno a inquinare la città e la laguna) e che ha spinto varie istituzioni pubbliche a vendere, anzi, a svendere gran parte della città vendibile a speculatori effimeri o soltanto di passaggio. C’è un verso di Montale che può aiutare a capire l’estrema importanza dell’ultimo bivio di fronte al quale si trova Venezia. Il poeta ha scritto “spendersi era più facile”, ma nel nostro caso le alternative sono due: portare via, oppure spendersi per cambiare la sorte di Venezia.

Non se ne abbia nessuno, è che non credo ci sia una diversa accentuazione tra le boutique da dove si porta via qualcosa di culturale e le boutique da dove si porta via qualcosa alla moda, abiti, borse, scarpe, eccetera. Il riferimento è a Punta della Dogana, Palazzo Grassi, Fontego dei Tedeschi, Ca’ Corner della Regina, l’ex Scuola della Misericordia e agli altri tanti contenitori, compresi quelli pubblici, dai Musei Civici alla Biennale, tutti risucchiati da una omologazione conformistica volta ad appropriarsi di una fetta delle moltitudini vaganti. Una omologazione che rende ogni proposta del tutto indistinguibile e che non può fare di Venezia una capitale culturale, a impedirglielo è la sua natura turistica, il suo essere schiava del turismo. Si rileggano alcune riflessioni che Italo Calvino ci lasciò e che, senza ironia alcuna, dovremmo tenere presente per una città cui lo scrittore guardò più e più volte, però ritenendola, forse, sempre più difficile da vivere, fino al punto di dire, si era nel 1972, l’anno in cui fu pubblicato Le città invisibili: “Il senso vero del mio libro potrebbe essere questo. Dalle città invivibili alle città invisibili”. A chi gli chiedeva “come sarà l’uomo colto nel 2000?”, Calvino rispose:

Dovrà essere uno che sa cucinare, che sa fare le pulizie in casa e dovrà farlo; comunque, dovrà metterci un certo piacere, comprendere che una civiltà è fatta di tutte queste cose, che tutto deve cominciare dalle basi materiali del vivere.

Quali e dove sono le basi materiali del vivere oggi a Venezia, una città “bolla di sapone” in cui i residenti autentici rappresentano un fastidio sociale e politico per gli speculatori d’ogni risma e genere, compresi i politici mosche cocchiere di costoro? Al dunque, le basi materiali del vivere sono un fastidio da eliminare. Ed è un Calvino, ohimè scomparso nel 1985, fortemente calvinista a indicare una possibile strada per gli anni Duemila:

Bisogna puntare solo sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo; diffidare della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare. E combattere l’astrattezza del linguaggio che ci viene imposta ormai da tutte le parti. Puntare sulla precisione, tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno.

Nella città “bolla di sapone” l’astrattezza è certamente tra i mali maggiori; sono due mali che si sostengono a vicenda. Il turismo che soffia per una bolla sempre più grande e una totale irrealtà, che è poi l’astrattezza nemica di ogni fonte di energia. Più che un ammonimento, una lezione che dovrebbero tenere a mente le Università veneziane, dedicandosi al “saper cucinare e fare le pulizie in casa”, il che significa puntare esclusivamente solo sulle cose difficili “eseguite alla perfezione”.

Un modello di studi e di ricerche estraneo alle lauree in Piazza, un triste scimmiottamento della più banale faciloneria turistica, un modello che richieda invece “la perfezione” nel sostegno e nella valorizzazione dei depositi di qualità accademiche e di adesioni studentesche presenti nelle nostre Università. È così che si aiuta chi vuole sgonfiare “la bolla di sapone” in cui è stata rinchiusa Venezia, rendendola irreale. Identico modello per i pubblici Musei veneziani, sia statali che civici: puntare sulle cose difficili, eseguite alla perfezione. Sono stati scritti molti libri su cosa sia un museo, ma ciò che conta per davvero è quello di cui parlava Giulio Carlo Argan:

I musei delle grandi città sono oggetto di un turismo di massa che sfocia nella paralisi di tutte le attività culturali. I grandi musei non hanno più una funzione culturale, bisogna ristabilirla. Per farlo esiste un solo mezzo: ridurne l’apparato spettacolare e dare maggior spazio alla funzione scientifico-culturale-didattica.

Dove per apparato spettacolare da ridurre vanno intese le costose mostre acchiappa-turisti, le mostre imposte dal mercato, le mostre acquistate nei supermercati privati e pubblici che hanno le loro dependance nei soliti musei o collezioni internazionali, le mostre senza idee solide perché mostre della faciloneria, esattamente le mostre di cui Venezia non ha alcun bisogno. Si è detto del dovere di puntare sulle cose difficili, che sono quelle di cui ha scritto Alessandra Mottola Delfino, storica dell’arte e museologa:

Per me un museo diventa un’opera d’arte quando nella sua epifania definitiva esso appare un tutto fuso di elementi diversi e tutti di grande qualità estetica, storica, emozionale. Ma quali sono questi elementi? Le collezioni, il contenuto (e perciò le ragioni e le scelte di gusto che gli stessi oggetti raccolti sottintendono) sono uno degli elementi essenziali. L’altro è l’edificio, il contenitore, e il rapporto che tra i due si è instaurato (fin dall’inizio o in seguito, poco importa). Il terzo elemento è più indefinibile: è l’aura; ma è anche il linguaggio con il quale il museo comunica all’esterno i suoi messaggi culturali.

Naturalmente le parole, le nozioni, i principi, espressi da Argan e dalla Mottola Molfino non si soffermano su molti altri elementi, li danno per scontati, dalla capacità di operare ottimi restauri all’efficienza e fruibilità dei depositi, dalle accertate competenze storico-artistiche all’ordinamento e allestimento delle opere, eccetera. E le mostre? Soltanto quelle che spiccano il volo dall’interno del museo, con le opere che di quel museo rappresentano le qualità estetiche, storiche, emozionali.

Non sembri una digressione, quello che riporterò calza come meglio non si potrebbe con quanto si va dicendo grazie a questa rivista on line su Venezia, sulla sua storia, sul suo presente. È appena giunto nelle migliori librerie un libro con una premessa scritta da Chiara Frugoni e con un saggio di Arsenio Frugoni, uno storico i cui scritti, la cui vita – morì nel 1970 a soli 56 anni – si distinsero per valori, convinzioni, esperienze che meriterebbero di essere ricordate da un romanzo o, come a me piacerebbe, da un film di formazione etica, culturale, politica, vivificato da irrinunciabili orizzonti.

Nella sua premessa Chiara Frugoni cita un pensiero del padre che dovremmo sigillare in noi:

I cultori della storia si sentono impegnati in un’opera che non può essere di pura ricerca, ma assume sempre più le forme della testimonianza personale, dell’esempio morale.

Nel libro, che ha per titolo La storia, coscienza di civiltà, Chiara Frugoni, grande storica, e proprio per questo grande storica dell’arte, si sofferma sugli sventramenti mussoliniani che distrussero l’area centrale del cuore storico di Roma, la sua stratificata e affascinante bellezza. È che la divorante pratica degli sventramenti (avidamente praticata a fine Ottocento anche a Venezia) assomiglia molto allo svuotamento della Venezia contemporanea imposto da un turismo mostruoso, nuovamente vorace e invasivo con il virus ancora in agguato.

Le conseguenze degli sventramenti però non si esaurivano con la distruzione materiale: interrompevano la bimillenaria continuità di vita della città, emarginando, dislocando, sradicando abitanti di tante case e quartieri medievali nei quali erano vissuti per generazioni. Spezzavano i rapporti fra le persone, tranciando qualsiasi legame con il territorio (…). Eppure il territorio è la prima e più semplice forma di cultura e memoria, di affetto per il passato, da proteggere e tramandare.

Così Chiara Frugoni. Ma c’è qualcuno che ritiene di poter immaginare e progettare cultura a Venezia prescindendo dal territorio, che “è la prima e più semplice forma di cultura e memoria, di affetto per il passato”?

Se l’idea di territorio va intesa in senso frugoniano, non resta che l’obiettivo del radicamento nella città d’acqua e nel suo arcipelago di nuovi veneziani, di un ripopolamento (i veneziani antichi seppero farlo più e più volte) garante di una “continuità di vita nella città”, resa finalmente autosufficiente, libera, in vantaggioso equilibrio tra una nuova Porto Marghera e una Mestre non più parassitaria; una città arcipelago difesa dalle acque alte, vivibile anche nel suo saper convivere con un turismo sostenibile. Un turismo che per essere tale sia l’esatto contrario di quello avvelenato dagli Zaia e dai Brugnaro, che è un turismo inadempiente rispetto a qualsiasi obbligo di civiltà. E di inadempienze ce ne sono molte in Veneto e a Venezia, in ogni campo, ora, all’inizio del terzo decennio di un secolo non più nuovo. Inadempienze che trascolorano dall’irrilevante, al grave, al criminale.

Mentre scrivevo il mio intervento, ho riletto più volte l’intervista rilasciata lo scorso mese di maggio dal generale Bruno Buratti, comandante della Guardia di Finanza dell’Italia nord-orientale e conoscitore appassionato, colto, di Venezia e della sua storia. A intervistare il generale Buratti un giornalista non distratto e di lungo corso, qual è Gianluca Amadori, e il risultato è stato quello di gettare un severo fascio di luce che ha ben delineato i tanti aspetti “dell’illegalità diffusa” in Veneto e a Venezia [testo dell’intervista a seguire]. Un Nero incardinato in una regione e in una città su cui molti parlano e scrivono, ma che in pochi conoscono per quello che è realmente. Infatti, dove c’è un turismo spaventosamente fuori controllo lì ci sono fiumi di denaro, non sempre frutto di guadagni leciti. Ed è per questo che possiamo sostenere, come avrebbe sostenuto il Pereira di Tabucchi, che in tanta illegalità diffusa, stando alle parole del generale Buratti di seguito pubblicate, è assai difficile che cresca e si consolidi la pianta della buona politica. Almeno per il momento.

La garanzia della legalità è il principale presupposto per una ripartenza

di Gianluca Amadori

“La garanzia della legalità è il principale presupposto per una ripartenza dopo l’emergenza coronavirus”.
Il generale Bruno Buratti, comandante interregionale della Guardia di Finanza dell’Italia nord orientale, interviene nel dibattito sul futuro di Venezia, offrendo un contributo di analisi e di proposte affinché non vengano sprecate le occasioni che si propongono alla città in questa fase particolarmente difficile, ma al tempo stesso ricca di possibilità.
“La legalità non deve essere vista come freno alle possibilità di sviluppo, ma come garanzia per tutti: dobbiamo lavorare per impedire che l’economia illecita possa sottrarre risorse a chi opera onestamente rispettando le regole, e di conseguenza per consentire a quest’ultimi di mantenere spazio, di contribuire alla crescita della città. Negli ultimi anni abbiamo assistito al proliferare di un sistema improntato alla massimizzazione del profitto, non sempre lecito, che ha impoverito Venezia, sfruttandone il nome per arricchirsi, dando poco in cambio”.
A quale economia illecita fa riferimento?
La Venezia della monocultura turistica, basata su flussi mordi e fuggi e su una qualità al ribasso, non ha soltanto avuto effetti importanti sul sociale, sulla residenza: ha portato ad una crescita significativa di fenomeni che si reggono su un substrato non sempre lecito. Pensiamo alle centinaia di negozi che offrono a prezzi sempre più bassi: in molti casi i fondi alla base di queste attività non hanno un’origine chiara. Si tratta di attività improvvisate, gestite da persone senza alcuna specifica esperienza, estranee al tessuto della città, che per mantenere quei prezzi commercializzano beni di scarsa qualità e incerta origine, in violazione delle norme fiscali e di quelle relative al tracciamento del prodotto, con marchi e simboli ingannevoli. Queste attività tolgono spazio ad artigiani e botteghe tipiche che non possono reggere una concorrenza in molti casi illecita. Un dato statistico è eloquente: dal 2001 al 2019 il numero dei negozi low cost nel centro storico è passato da due a 155: un fenomeno cresciuto in modo esponenziale, con effetti notevolissimi sul tessuto socio economico della città. Qualche anno fa il problema era il commercio clandestino ambulante, con la contraffazione di marchi: oggi per strada non ci sono quasi più venditori perché tutto si vende nei negozi e la problematica principale è divenuta quella della sicurezza dei prodotti, della mancanza di etichettatura, dello sfruttamento dell’immagine di un Paese o di una località per promuovere oggetti di bassa qualità, realizzati chissà dove.
Quali sono le strade per porre rimedio a questa situazione?
Servono innanzitutto norme nuove, un adeguamento all’attuale impianto di regole per poter contrastare fenomeni che in buona parte sono nuovi. Le norme europee hanno imposto la liberalizzazione, ma realtà particolari come Venezia necessitano di misure specifiche per poter difendere un tessuto delicato e fragile. Garantire un certo tipo di commercio, di artigianato locale, significa arricchire il tessuto sociale, favorire un’economia sana, agevolare la residenza. Mi auguro che l’indagine conoscitiva sulla salvaguardia di Venezia avviata dalla Camera dei deputati possa diventare l’occasione per avviare una seria riflessione sull’argomento e spingere ai necessari cambiamenti.
La Guardia di Finanza può avere un ruolo di stimolo in questa fase, oltre che di controllo e repressione degli illeciti?
Sicuramente sì. In questi anni abbiamo lavorato molto sul fronte del monitoraggio dei fenomeni in atto, per analizzare come è cambiato il tessuto economico della città e avere dunque un quadro d’insieme, utile ad orientare gli interventi a contrasto degli illeciti. Ma, ad esempio, non è sempre facile risalire all’effettiva origine del denaro investito in un’attività economica, così come non sempre è possibile perseguire un’etichetta con un marchio che, giocando sull’equivoco, fa riferimento a Venezia o all’Italia per indurre il turista straniero a credere che si tratti di un prodotto tipico, quando in realtà è fatto all’estero e di tipico non ha assolutamente nulla. In questi anni sono stati denunciati diversi casi di evasione fiscale e lavoro in nero.
L’emergenza Covid-19 può trasformarsi da disgrazia ad opportunità, come ritengono in molti?
Può diventare l’occasione di azzerare e ricominciare daccapo, facendo tesoro delle esperienze del passato. Venezia è stata fondata da mercanti, che nei secoli hanno guadagnato grazie alla città, ma hanno saputo restituire molto. Negli ultimi anni Venezia è stata utilizzata come una cava, una miniera da sfruttare, senza immaginare che l’oro potesse finire e che il tessuto urbano rischiasse in assenza di alternative di rimanere vuoto… esattamente quello che sta accadendo per colpa dell’emergenza coronavirus. Il tutto creando anche problemi di sicurezza, perché una città con pochi residenti e poche attività aperte è meno sicura. Ora c’è la possibilità di ripartire su basi diverse, con un’economia che non sia centrata sul turismo di massa e, che, invece, investa su un turismo gestito con altre modalità, non soltanto speculative, e su altre attività. Se si dovesse invece ripercorrere la stessa strada, gli effetti sarebbero ben peggiori.
Quali sono i rischi delle fasi di crisi come queste?
I momenti di debolezza e ricostruzione sono delicati e il rischio di infiltrazioni criminali è sempre molto alto. Un mercato debole fa fatica a difendersi, un imprenditore in difficoltà ad accedere a credito bancario può chiedere prestiti alle persone sbagliate. E il Veneto, da sempre motore dell’economia nazionale, è più a rischio di altre regioni: per questo è necessario che le istituzioni tengano alta la guardia. Venezia è prima di tutto un grande patrimonio mondiale che abbiamo il dovere di preservare, e anche una grande macchina economica: questo è il momento in cui è necessario programmare. Servono regole e tutele. E anche controlli per assicurare la legalità. Un’occasione che non può essere perduta.

Il Gazzettino, 22 maggio 2020 [per gentile concessione del direttore Roberto Papetti, che ringraziamo]

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Non ho ancora capito cosa sia Venezia ultima modifica: 2020-06-04T19:05:40+02:00 da FRANCO MIRACCO
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1 commento

Non ho ancora capito cosa sia Venezia | Cardin no grazie! 5 Giugno 2020 a 14:29

[…] Non ho ancora capito cosa sia Venezia […]

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