La vita senza maschere. La lezione de “Il posto delle fragole”

La perfezione in un film di Ingmar Bergman del 1957 girato appena in due mesi. Il professore Isak Borg si racconta facendo il bilancio della sua esistenza. 
ALDO GARZIA
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Ogni volta che mi capita di citare questo film ricevo molte reazioni positive. Giovanissimi, giovani e meno giovani, anziani lo hanno quasi tutti visto e ne sono rimasti colpiti: o per la sceneggiatura o per gli attori o per la fotografia in bianco e nero. Molti lo studiano all’università. La critica internazionale lo considera inoltre uno dei capolavori della storia del cinema.

Quando nel 1958 arrivano nei cinema di mezzo mondo le prime copie di Il posto delle fragole, Ingmar Bergman sta per compiere quarant’anni. Ha già al suo attivo alcuni film che hanno destato l’attenzione dei critici e del pubblico ma è con Il settimo sigillo (1957) e Il posto delle fragole che va a occupare il piedistallo tra i registi più affermati dell’arte cinematografica. Come capita a uno scrittore che al primo romanzo scrive l’opera destinata a dargli gloria vita natural durante, con questi due film il regista svedese conquista fama, popolarità, prestigio che valgono una carriera. Se la sua produzione si fosse conclusa a quel punto, le enciclopedie del cinema avrebbero continuato ugualmente a celebrare all’infinito il genio del regista nato a Uppsala, Svezia, città della Regina Cristina. 

Le notizie sulla genesi di Il posto delle fragole sono fornite come di consueto dallo stesso Bergman:

Ricordavo solo confusamente di aver scritto la sceneggiatura al Karolinska Sjiukhuset, dove ero stato ricoverato per un controllo generale e per rimettermi in forze [dall’autobiografia Lanterna magica].

Al Karolinska, efficiente ospedale alle porte di Stoccolma, il regista ha la possibilità di frequentare le lezioni sui disturbi psicosomatici del primario Sture Helander (gli forniranno altri strumenti analitici per proseguire la ricerca sulle turbe della psiche umana). Bergman trascorre due mesi in quell’ospedale per curarsi soprattutto la cronica colite ulcerosa di cui soffre, poi gira Il posto delle fragole a tempo di record: dai primi di luglio al 27 agosto 1957. Nelle sue note biografiche, volendo chiarire il contorno che fa da sfondo alla genesi del film, il regista fa riferimento a “un caos negativo di relazioni umane”: la separazione dalla terza moglie, le avvisaglie della crisi della “bella e creativa” relazione amorosa con Bibi Andersson (interprete di Il settimo sigillo e Il posto delle fragole), l’assoluta incomunicabilità con il padre e la madre. Da qui – spiega ancora Bergman – perfino la scelta del nome del protagonista, il professore egoista e misantropo Isak Borg (Isak vuol dire “ghiaccio” in svedese e Borg si traduce con “fortezza”). 

Ingmar Bergman con Victor Sjöström e Bibi Andersson sul set de “Il posto delle fragole”

Victor Sjöström alias Isak Borg

Nel personaggio del professore Isak Borg c’è la trasposizione sia del padre di Bergman sia dello stesso regista, che in quel periodo pensa a sé stesso come a un figlio indesiderato, poco amato, e al tempo stesso come a chi sta raggiungendo successo e popolarità al prezzo della perdita delle relazioni più intime. L’invocazione alla riconciliazione famigliare percorre l’intero film. Soprattutto nella scena in cui Sara (Bibi Andersson) prende per mano Isak (Victor Sjöström) e gli permette di rivedere con serenità i propri genitori.

Non so ora, né sapevo allora, quanto io, attraverso Il posto delle fragole, facessi un appello ai miei genitori: guardatemi, capitemi e, se possibile, perdonatemi,

scrive Bergman annotando la sua gratitudine a Sjöström, regista anche lui ma della generazione precedente, con il quale aveva un rapporto reverenziale che quest’ultimo aveva contraccambiato, sostenendolo nei primi passi nel mondo dell’industria cinematografica svedese.

È lo stesso regista a svelare l’arcano del film. Molti critici, fino alla rivelazione di Bergman, erano rimasti impressionati dalla capacità narrativa di un quarantenne che sapeva meditare su vita e morte con crudele profondità. Una storia che si svolge nell’arco di una giornata, che riesce a ripercorrere un’intera esistenza individuale e a trarne insegnamento per ciò che resta da vivere, era troppo anche per Bergman se non fosse stata segnata da un’esigenza più intima. E a stupire critici e spettatori c’era pure l’uso perfetto di tempo, spazio, sogno e realtà con dosaggi narrativi propri della rappresentazione cinematografica che facevano pensare a una trasposizione della tecnica di scrittura di Marcel Proust sul grande schermo. 

Tutto il film è un modo originale di riattraversare l’infanzia (il posto delle fragole), gli incubi (il carro funebre che si rovescia in una città deserta, con uomini senza volto e con orologi senza lancette), il presente (lo sguardo critico e quasi distaccato su giovani e casuali compagni di viaggio del professore; quei giovani che litigano sul senso della vita e sull’esistenza di Dio a cospetto dell’innocente Bibi Andersson che interpreta passato e presente in due personaggi distinti dallo stesso nome Sara, oltre a rappresentare un ideale giovanile di purezza incontaminata che per Bergman si identifica nella verità), il futuro (la riconciliazione nel finale del professore con il figlio, a lui troppo uguale nei difetti, e con la nuora Marianne, la bellissima e misteriosa Ingrid Thulin che Bergman identifica nella sapienza e nel dolore della vita). Molte scene del film sono girate negli studi cinematografici di Råsunda, la Città del cinema di Stoccolma dove avevano lavorato tutti i padri nobili del cinema di Svezia.

L’alchimia del film ha in Sjöström l’attore-principe. Regista di fama, passato dalle temperie del cinema muto a quelle del cinema sonoro fino ad alcuni anni trascorsi a Hollywood, autore di un magistrale Il carretto fantasma che è rimasto riferimento per intere generazioni di cineasti svedesi, tra i primi a credere nel talento di Bergman e a volergli dimostrare amicizia e affetto accettando di interpretare la parte del protagonista di Il posto delle fragole (come attore aveva già lavorato con Bergman in Verso la felicità, 1949). 

Nel momento delle riprese del film, Sjöström ha settantotto anni, due in meno del personaggio che deve interpretare sullo schermo. Scrive Bergman:

Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre… Fece tutto questo con la sovranità e l’ossessione delle grandi personalità. Non avevo nulla da aggiungere, neppure un commento ragionevole o irrazionale. Il posto delle fragole non era più il mio film, era il film di Victor Sjöström. 

A riprova dell’alchemica relazione tra Sjöström e il film, bisogna ricordare la notizia del suo ricovero in ospedale il giorno dopo della prima a Stoccolma (26 dicembre 1957), mentre morirà il 3 gennaio 1960, quando il trionfo internazionale de Il posto delle fragole è ormai un dato acquisito (in Il posto delle fragole c’è anche un giovane Max von Sydow nell’anonima parte di un benzinaio, proprio lui che l’anno prima era stato il protagonista di Il settimo sigillo).

Ingrid Thulin, in primo piano, e Victor Sjöström girano una scena de “Il posto delle fragole”. Tra i due Bibi Andersson.

Nostalgia e conversione

Il posto delle fragole è film immortale, che guadagna nel 1958 – al momento della sua uscita nelle sale – l’Orso d’oro al Festival di Berlino e il premio della critica al Festival di Venezia, ricevendo in seguito altri innumerevoli premi. Il suo segreto sta nel raccontare una storia di “conversione”. Quella del professore Isak Borg che nell’arco di una sola giornata, mentre viaggia verso l’Università di Lund per ricevere l’onorificenza più ambita della sua carriera accademica, si rende conto che ciò cui ha dedicato l’intera esistenza non ha valore di fronte agli affetti. La nostalgia verso la giovinezza e verso l’estate della vita che non ritorna è più forte dei successi del presente (la simbologia dell’estate come stagione ideale è ricorrente nel cinema del profondo nord Europa). 

Tutto appare racchiuso in due frasi agghiaccianti, terribili, che nessuno di noi vorrebbe mai pronunciare e che invece pronunciano Isak Borg e suo figlio Evald (Gunnar Björnstrand): “Sono morto, pur essendo vivo”, “Vorrei essere morto”. Quella dichiarazione di morte in vita cela la paura verso i sentimenti e, nel caso di Isak e di Evald, verso la paternità che dovrebbe essere il sentimento più naturale e istintivo dell’uomo. 

Compare nello scorrere della storia e nei dialoghi del film un altro tema che attraversa tutta l’opera bergmaniana: la “maschera”. L’essere umano, ripeterà con ossessione Bergman a cinema e a teatro, per sopravvivere indossa una maschera che rende scissa la relazione tra l’essere e l’apparire. L’esistenza di ognuno non è altro che una perenne lotta per liberarsi della maschera che paure, fragilità e convenzioni sociali ci fanno indossare come protezione dalla realtà circostante. 

L’intera produzione artistica di Bergman è uno scavare nelle relazioni umane e nell’individualità più recondita alla ricerca dell’essenza umana priva di maschere. Quanto questa ricerca sia aspra, contraddittoria e difficile, lo dimostra la stessa biografia bergmaniana. Lui, che ha una capacità introspettiva di tipo chirurgico quando traspone la realtà nella rappresentazione artistica (i dialoghi tra i suoi personaggi hanno fatto scuola, come la capacità di indagare con la macchina da presa i volti degli attori), si descrive invece come un piccolo mostro nella vita privata (i molteplici divorzi, i cattivi rapporti con i figli, la perenne insoddisfazione). Così, almeno, si è raccontato in Lanterna magica, dove traccia un ripugnante ritratto di sé.

Non manca anche in questa occasione il radicale interrogarsi su Dio. Nel corso del loro itinerario di viaggio, Isak e Marianne raccolgono a bordo della loro auto Sara e altri due giovani che l’accompagnano e che se ne contendono l’amore mentre lei ha come meta del suo viaggio l’Italia. In una curva, un’auto proveniente in senso contrario si ribalta. Ne esce una coppia gonfia di rancore reciproco e di infelicità (è il destino che attende inevitabile Sara e i suoi accompagnatori in futuri matrimoni?). 

Dopo aver fatto visita all’anziana madre di Isak, il professore, Sara, Marianne e i due giovani si fermano a pranzare in una trattoria. È lì che i due ragazzi iniziano la discussione su Dio: uno si proclama ateo, l’altro credente; uno usa gli argomenti della scienza, l’altro quelli della fede. Isak e Marianne interrompono il duello dialettico recitando alcuni versi:

La sua presenza è indubbia e io la sento in ogni fiore e in ogni spiga al vento… L’aria che io respiro e che dà vigore del suo amore è piena. 

Dopo quella discussione, Isak ripiomba in un ennesimo incubo mentre si appisola in macchina. Sara che aveva amato in gioventù e che gli era riapparsa sul posto delle fragole ha sposato nel frattempo un altro uomo. Il vecchio professore è sottoposto a un nuovo esame di idoneità da un ruvido docente che gli contesta ogni risposta. Questo stesso docente, rinfacciandogli indifferenza ed egoismo, lo condanna a una pena perpetua: la solitudine. Ecco, al risveglio, che Isak fa la sua amara confessione: “Sono morto, pur essendo vivo”.

È quell’acquisita consapevolezza del pericolo di essere morto, seppure ancora in vita, che porta il vecchio professore a riconciliarsi con la sua infanzia, con il figlio Evald e la nuora Marianne e finanche con la burbera governante dopo tanti anni di fedele servizio. Quando Isak si addormenta per un nuovo sonno, questa volta – anche se forse non gli resterà molto tempo da vivere – è sereno: gli ritornano in sogno i luoghi dell’infanzia e le immagini dei genitori con i quali si è riconciliato nel corso del viaggio. È un po’ quello che accadrà a Bergman in persona, con la differenza che a lui – per riconciliarsi con i genitori e le sue radici – non sarà sufficiente un giorno di viaggio per ritirare una onorificenza ma avrà bisogno di una vita intera.

Il manifesto de “Il posto delle fragole” nella versione originale


La vita senza maschere. La lezione de “Il posto delle fragole” ultima modifica: 2020-06-05T13:07:09+02:00 da ALDO GARZIA
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