Avevamo iniziato l’anno respirando a fatica.
Mentre un inferno di fiamme imperversava da 240 giorni in cinque stati, le tempeste di polvere e una pesante coltre di fumo accecavano le città, una situazione invivibile per l’ottanta per cento dei 25 milioni di abitanti del paese. Le scorte di mascherine erano finite in tutti i negozi. L’Australia è famosa per l’aria pulita, ma il fumo degli incendi ha causato ovunque una grave emergenza sanitaria. Ci era stato chiesto di tenere porte e finestre chiuse, ma il fumo riusciva a penetrare negli edifici. Per mesi, la popolazione ha respirato aria inquinata a livelli ventisei volte più alti di quelli già considerati pericolosi per la salute. Molti non riuscivano a respirare. Il 2020 era iniziato in sordina, quasi in silenzio. Era tempo di sopravvivere e piangere quello che avevamo perduto. Più di diciotto milioni di ettari bruciati, una quantità di CO2 pari a due anni di emissioni liberata nell’atmosfera, trentatré vittime, un miliardo di piante e animali morti e 5900 edifici, di cui 2800 case, distrutti.
In Australia ci sono più di cinquecento nazioni indigene. Le varie comunità delle Prime Nazioni hanno lottato con le fiamme sulle terre sacre, mentre le ceneri inquinavano i fiumi, i koala urlavano per le ustioni, e alcune specie già vulnerabili erano sull’orlo dell’estinzione. Per i popoli delle Prime Nazioni, come la Yuin per esempio, la distruzione del paese ha rappresentato un lutto personale. Warren Foster, uno Yuin di Wallaga Lake ha dichiarato:
Abbiamo bisogno che il nostro paese sia in salute per essere in salute. Abbiamo bisogno degli animali. I nostri spiriti muoiono quando loro muoiono. Questo potrebbe essere un campanello d’allarme, è ora che la gente ascolti i popoli indigeni e impari dalla nostra tradizione di “cultural burning”.
Il governo non aveva prestato attenzione ai segnali d’allarme. Si è scoperto poi che temendo di perdere il lavoro, i dirigenti della protezione civile erano stati obbligati a tacere gli effetti del cambiamento climatico sui rischi degli incendi nel bush.
La combinazione di siccità, elementi naturali ad alta combustione e vegetazione sbagliata aveva creato una bomba pronta ad esplodere. La cultura indigena del cultural burning, la gestione del fuoco basata su una profonda conoscenza della terra, delle piante, degli animali e del clima, è un’antica sapienza a cui si sarebbe potuto attingere per prevenire gli incendi. Interpretando diversi segnali nel paesaggio e parlando con gli spiriti, gli esperti delle Prime Nazioni sanno come bruciare lentamente alcune aree del territorio in modo che gli animali abbiano il tempo di scappare. Gli incendi preventivi raggiungono solo la vegetazione che va bruciata, e sono utili a ripulire i terreni, proteggere i raccolti, mantenere i corsi d’acqua. È una tradizione che rispetta le stagioni e i periodi riproduttivi degli animali. Le popolazioni indigene chiedono da anni più autonomia per salvaguardare una terra che conoscono bene.
Quando la nuova minaccia del coronavirus era arrivata in Australia all’inizio del 2020 molti popoli delle Prime Nazioni l’avevano letta come un segnale dagli antenati. Il meme “mi pare che la terra ci abbia spediti nelle nostre stanzette a pensare a quello che abbiamo fatto” era subito diventato virale sui social media ‘blak’, un termine coniato dall’artista Destiny Deacon all’inizio degli anni Novanta per definire i popoli delle Prime Nazioni, soprattutto urbani.
Questo meme rimane particolarmente importante per noi perché non dobbiamo dimenticare la tragedia del cambiamento climatico durante la pandemia. Un miliardo di animali non possono morire così: il benessere dell’uomo e della terra sono collegati e un pianeta sano significa meno malattie. Il messaggio degli antenati è che stiamo facendo troppi errori e il lockdown ci costringe a riflettere su come migliorare in futuro. Forse potremmo creare un nuovo ordine mondiale che tiene conto di tutti i popoli in modo democratico e che mette l’ambiente al primo posto.
Il 25 di gennaio è stato registrato in Australia il primo caso di Sars-CoV-2, un cittadino cinese arrivato da Guangzhou il 19 di gennaio e ricoverato a Melbourne. Lo stesso giorno, altri tre pazienti erano risultati positivi a Sydney dopo essere rientrati da Wuhan. In tutto, a gennaio c’erano stati nove casi.
Il 30 gennaio l’Oms ha dichiarato il Covid-19 emergenza sanitaria internazionale. Il giorno dopo, agli stranieri arrivati dalla Cina è stato richiesto di passare due settimane in un terzo paese prima di poter entrare in Australia.
Fin dall’inizio della pandemia, in tutto il mondo sono aumentati gli episodi di xenofobia e razzismo nei confronti di persone di origine cinese o asiatica. Gli incidenti aumentavano anche in Australia e questo fenomeno mi era stato confermato da vari amici asiatici-australiani, che si ritrovavano sempre più spesso bersaglio di abusi razziali in strada, nei supermercati, nei centri commerciali, sui mezzi pubblici, e anche nelle scuole, nelle università, sul posto di lavoro. Un’amica dottoressa mi ha raccontato che un paziente si era rifiutato di farsi visitare da lei e dal personale medico di origine asiatica. Ero sconvolta. Agli australiani bianchi faceva comodo sospettare dei cinesi quando di fatto molti più casi arrivavano da Spagna, Italia, Iran, Stati Uniti e Regno Unito. A oggi, la maggior parte dei casi di Covid-19 in Australia sono arrivati dall’estero.
Le linee guida per difendersi dal Covid-19 sono state tradotte in varie lingue, dall’arabo al mandarino, e anche in varie lingue indigene per assicurarsi che il messaggio venga recepito in tutto il paese. Molte Prime Nazioni hanno creato delle risorse per le proprie comunità, nel tentativo di aiutarle a superare la crisi. Nel 1918-1919, la Spagnola era stata devastante per alcuni popoli delle Prime Nazioni, in particolare per la comunità Cherbourg, dove solo di recente sono state scoperte delle fosse comuni. Un secolo fa il governo aveva il controllo totale su ogni aspetto della vita indigena. Nella crisi attuale, l’autonomia rimarrà l’elemento chiave per la nostra sopravvivenza. Non possiamo dimenticare il passato perché influenza il nostro futuro, e abbiamo fame di speranza.
Il primo di marzo, l’Australia ha riportato la prima vittima di Covid-19: era uno dei passeggeri della Diamond Princess, una nave da crociera arrivata a Darwin con 24 persone contagiate a bordo. Il 2 di marzo è stato registrato il primo contagio in una comunità australiana. L’Oms ha dichiarato lo stato di pandemia l’11 marzo.
Il 13 di marzo, il ministro degli interni Peter Dutton è stato il primo politico australiano a risultare positivo al coronavirus appena rientrato a Brisbane dagli Stati Uniti. Anche gli attivisti per i diritti delle Prime Nazioni e per l’abolizione del carcere Deb Kilroy e Boneta-Marie Mabo, che erano sullo stesso volo, sono risultati positivi. Boneta-Marie Mabo è la nipote del leggendario attivista per i diritti delle terre indigene, Eddie Mabo, la cui comunità viene dalle isole dello Stretto di Torres a nord dell’Australia. Il 3 di giugno l’Australia celebra il Mabo Day, l’anniversario di un verdetto del 1992 a cui si era arrivati grazie agli sforzi di Mabo. Per la prima volta il tribunale riconosceva che gli aborigeni e gli abitanti delle isole dello Stretto di Torres hanno un legame speciale con la terra dei loro antenati.
Quella settimana avevo deciso di andare con alcuni amici a una raccolta fondi organizzata da Deb e Boneta-Marie per aiutare le donne delle Prime Nazioni in carcere. Le detenute delle Prime Nazioni sono quasi un terzo della popolazione nelle carceri australiane, pur essendo solo il tre per cento della popolazione totale.

Avevo incontrato i miei amici nella West End, un sobborgo interno nella zona occidentale di Meanjin/Brisbane che ha un forte significato storico e contemporaneo per i popoli delle Prime Nazioni. L’appuntamento era in un bar all’angolo di Boundary Road e Vulture Street dove la bandiera aborigena è perennemente dipinta sulla strada. Poco dopo avevamo scoperto che la raccolta fondi era stata cancellata perché Deb e Boneta-Marie erano in quarantena. Per molti di noi erano le prime persone che conoscevamo ad avere contratto il virus, perché i casi di contagio erano ancora relativamente bassi. Chiacchierando al bancone del bar era saltato fuori che quella mattina un’amica aveva interagito con un uomo che era entrato nel suo negozio dicendo di avere il virus. Aveva chiuso il negozio presto, e non era entrato nessun altro cliente. Mentre ci aggiornavamo sugli ultimi eventi, ci era venuto per la prima volta il sospetto che quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro comunitario per parecchio tempo.
A un certo punto era arrivata un’altra amica. Era sotto choc, si stringeva il collo e ci aveva raccontato di aver avuto un incidente d’auto. Sia lei che l’altro guidatore stavano correndo come dei pazzi per raggiungere un supermercato. I giornali riportavano storie di scaffali vuoti, soprattutto quelli dei prodotti a lunga scadenza: riso, pasta e cibo in scatola erano scomparsi. Il nostro paese era finito anche sulla stampa internazionale con vari episodi di risse per la carta igienica. Eravamo imbarazzati, e sapevamo bene che la posta in gioco era molto più alta, il problema non era certo quello. Molti di noi avevano sperimentato una povertà generazionale, e in certi periodi erano sopravvissuti con poco più di una lattina di tonno per tutta la settimana. Alcuni di noi seguivano una dieta tradizionale, vivendo di quello che offriva la terra. I problemi degli australiani bianchi nella pandemia non erano certo i nostri.
I supermercati avevano incominciato a introdurre orari speciali per clienti sopra i sessant’anni e per i disabili, in modo che non dovessero competere con chi sgomitava per fare scorte. Lo stato e i governi federali cominciavano a imporre restrizioni e a chiedere agli australiani di stare a casa. La federazione nazionale degli agricoltori aveva cercato di placare i consumatori dicendo di non farsi prendere dal panico, visto che c’era “cibo in abbondanza”. Il ministero dell’Agricoltura, che s’occupa anche di siccità ed emergenze, aveva dichiarato tramite il suo ministro, David Littleproud, che l’Australia ha “la fornitura di alimentari più sicura al mondo.”
Ma non per tutti. Quella dichiarazione ometteva i prezzi gonfiati nelle remote comunità indigene, la mancanza di indipendenza alimentare e di acqua potabile. Gli australiani aborigeni delle zone più remote e gli abitanti delle isole nello Stretto di Torres hanno in generale una salute più precaria e un’aspettativa di vita inferiore rispetto ai non indigeni. Questi fattori, oltre alle abitazioni troppo affollate, li rendono una delle comunità più vulnerabili al virus. I nostri anziani sono vere e proprie biblioteche viventi, e il loro sapere è vitale per le generazioni successive. Appena le comunità erano state chiuse ai visitatori, due mie amiche, sorelle che appartengono alla comunità Minjerribah, avevano preso un traghetto per poter stare con i loro genitori.
Era stato fatto un appello per evacuare gli anziani dalle remote comunità Anangu Pitjantjatjara Yankunytjatjara nell’Australia del Nord e portarli ad Adelaide, ma non era diventato operativo. Il Northern Territory aveva sviluppato un piano per affrontare la pandemia creando un certo numero di cliniche nelle zone più remote. Tutti gli spostamenti non essenziali tra le 76 comunità erano stati vietati, e in maggio le autorità avevano consigliato di mantenere il divieto fino a nuove direttive.
Sulle sponde del Darling River in New South Wales, un gruppo di famiglie Barkindji aveva creato una tendopoli per sfuggire alle abitazioni affollate. Si sentivano più al sicuro dal virus nelle tende sul fiume che negli appartamenti in città.

Il 19 di marzo, nonostante la richiesta di prendere precauzioni adeguate, la nave da crociera Ruby Princess aveva fatto scendere 2700 passeggeri nel porto di Sydney senza obbligarli alla quarantena. I passeggeri avevano diffuso il virus in tutta l’Australia. La Ruby Princess è associata a più del dieci per cento dei casi e a quasi un quarto dei decessi per coronavirus.
Alcuni dei miei colleghi delle Prime Nazioni avevano subito sottolineato l’ironia di permettere l’attracco a navi da crociera “infette” proprio quando il governo, anche con i soldi dei contribuenti, stava pensando di mettere in scena una rievocazione del 250esimo anniversario dello sbarco dell’Endeavour di Cook, in una serie di celebrazioni che includevano un festival a Cooktown. Per i popoli delle Prime Nazioni, l’anniversario è sinonimo di furti e omicidi, e in più la ricorrenza era pesantemente sbilanciata verso la prospettiva dei conquistatori più che dei popoli che avevano trovato sulla costa e dei loro discendenti.
Il divario nella sanità australiana era diventato evidente il 29 marzo, quando il primo ministro aveva chiesto agli australiani sopra i settant’anni e agli australiani indigeni sopra i cinquanta di rimanere a casa. Mia madre, che ha 67 anni, oscillava tra ribellione ed estrema cautela. Perché doveva sentirsi imporre maggiori restrizioni per la sua origine?
Ormai eravamo tutti a casa, tranne i lavoratori considerati essenziali. Mia madre e io non ci eravamo mai sentite più fortunate di abitare vicino al bush. Ogni tanto facevamo delle passeggiate, ma avevamo anche un giardino sul retro pieno di volatili. Cacatua ciuffogiallo, kookaburra, corvi. Quando vedo gli stormi di uccelli penso alle formazioni, gruppi che si spostano nella stessa direzione ma mantengono la distanza. Rimangono uniti ma fisicamente separati. Il cielo era più limpido perché l’inquinamento era diminuito. Di notte, vedevamo molte più stelle. Visto che le palestre e i parchi gioco erano chiusi, c’era più gente nel parco nazionale, e molti entusiasti che ceravano di fotografare le timide civette ululanti. Intere bande di canguri uscivano al mattino e nel tardo pomeriggio, e si avventuravano nelle aree urbane. Nelle aree più colpite dagli incendi estivi si erano viste spuntare le prime gemme verdi.
Le costose mascherine con filtro che avevo comprato per la mia famiglia per proteggersi dal fumo degli incendi sono utilizzabili anche per difendersi dal coronavirus e le mettiamo per andare al supermercato o in posta. Mia madre ha cucito a macchina delle maschere di cotone per parenti e amici.
Mi tengo in contatto con amici e colleghi con un incontro online settimanale organizzato dal Comitato Australiano delle Arti per le Prime Nazioni. Ridiamo e piangiamo insieme – per molti di noi è il momento più bello della settimana – ci scambiamo storie incoraggianti della nostra gente che va a caccia, pesca, coltiva e tesse, e parliamo di come possiamo uscire da questo tunnel più forti, con un controllo maggiore sui nostri dati e sulla proprietà del nostro lavoro. Condividiamo la triste realtà dei suicidi tra i giovani – il virus ha generato una pandemia di problemi mentali che colpisce i più vulnerabili – ci scambiamo idee per cercare un modo di aiutare le generazioni precedenti a dare un senso a questa crisi e ci ricordiamo di diffidare del capitalismo che approfitta di questa situazione disastrosa, di governi conservativi che usano la distrazione fisica ed emotiva della crisi per aprire di nascosto controverse miniere di carbone o far passare provvedimenti che presentano una minaccia per il paese.


Il 24 maggio, una domenica, uno dei siti più sacri al mondo è stato distrutto dalle detonazioni nelle miniere. La multinazionale Rio Tinto, una delle più potenti società minerarie del mondo, ha avuto il permesso legale di far saltare in aria un luogo che da 46mila anni apparteneva ai proprietari tradizionali, Puutu Kunti Kurrama e Pinikura. Oltre alla tristezza e alla rabbia per la perdita di quel rifugio di roccia, i proprietari tradizionali hanno dovuto subire la frustrazione dell’inflessibilità della legge. Considerato ormai inefficiente, inefficace e superato, il Western Australia’s Aboriginal Heritage Act è attualmente allo studio, ma il processo di revisione, come anche le riforme relative al cambiamento climatico, è stato bloccato dalla pandemia.
Il picco del contagi in Australia è arrivato alla fine di marzo. Agli inizi di maggio le restrizioni hanno cominciato a essere eliminate, ma i confini tra gli stati e le comunità remote sono ancora chiusi. Alcuni stati ora registrano zero casi, e stiamo entrando con cautela in una nuova fase di questa situazione in rapido sviluppo. Continuiamo a indossare le mascherine.
L’Australia sta valutando, grazie a una commissione reale, gli effetti a lungo termine degli incendi sia sulla terra che sulla salute della popolazione. Mi vengono in mente molte cose quando penso agli incendi recenti: le inondazioni, il riscaldamento globale, la distruzione di intere specie e il continuo allontanare le comunità dalle loro terre tradizionali. Penso con dolore ai rari alberi di macadamia distrutti dalle fiamme nel Queensland. Il mio popolo, gli Yugambeh, viene dal Queensland, dove gli alberi di macadamia sono uno dei totem della comunità e i loro frutti un’importante fonte di sostentamento. Secondo gli esperti, il fumo che molti australiani hanno inalato conteneva particelle che possono entrare nel flusso sanguigno e danneggiare ogni organo del corpo, provocando ulteriori danni. Purtroppo non ne sappiamo ancora abbastanza, come non sappiamo abbastanza della Covid-19. È ormai provato che lo stress psicologico avrà conseguenze a lungo termine, e i bambini in particolar modo soffriranno di stress post traumatico per decenni.
Il cambiamento climatico è la più grande sfida sanitaria che dobbiamo affrontare, e in genere mi sveglio in preda all’ansia. Però cerco di rimanere fiduciosa, di attingere alla forza della mia famiglia e dei miei amici, di pensare che abbiamo superato tanti ostacoli in passato e ce la faremo anche questa volta. Siamo noi che apparteniamo alla terra, non la terra che appartiene a noi. Quando parlo con gli avi, una delle mie antenate mi compare sotto le spoglie del cacatua ciuffogiallo, e mi dice di continuare a lottare e tenere la testa alta. E io lo farò, in suo onore.
Le comunità indigene australiane sono state lodate per essere riuscite a prevenire il contagio da coronavirus e molti gruppi non-indigeni ora vogliono “imparare” i metodi di resilienza delle comunità indigene e migranti. Sono molto scettica nei confronti di questa retorica. Mia madre e io spesso ci diciamo che il termine “resilience”, resilienza, è molto simile a “re-silence”, un nuovo silenzio, la ripetizione di una storia dannosa. Prima di tutto, le comunità indigene rimangono molto vulnerabili alle nuove ondate potenziali del virus. In secondo luogo, molte delle nostre comunità hanno condizioni di vita così al di sotto degli standard che ogni australiano dovrebbe vergognarsene. Infine, non dovremmo continuare a essere ‘resilienti’. Non dovremmo continuare a lottare per il benessere delle terra, delle acque, per la sopravvivenza della nostra cultura e della nostra famiglia. È il sistema stesso che deve cambiare.
Traduzione di Gioia Guerzoni
Copertina: Melbourne nei giorni di Covid-19

Questo è il quarto di cinque reportage (simbolicamente uno per continente) sui tempi del coronavirus commissionati dal Center for the Humanities and Social Change di Ca’ Foscari a importanti scrittori internazionali. Il primo della serie è Il mondo alla rovescia. Reportage dal Kenya di Stanley Gazemba. Il secondo è Il lockdown nella libera Repubblica del Pigneto di Igiaba Scego. Il terzo è La vita in uno schermo di Eli Gottlieb.

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