Giulio Giorello è morto a Milano a 75 anni. Allievo di Ludovico Geymonat, è stato a lungo professore di filosofia della scienza all’Università Statale milanese. Era stato ricoverato per il coronavirus circa un mese fa ma negli ultimi giorni la sua situazione era peggiorata. Ripubblichiamo una conversazione con ytali, del 2018, e successivamente pubblicata nel volume collettaneo “Il pensiero che muove la politica”, a cura di Matteo Angeli.
A cinquant’anni dal Sessantotto, cosa resta della lotta per i diritti e le libertà che infiammò quel periodo? Secondo Giulio Giorello, filosofo della scienza, ex allievo di Ludovico Geymonat, una laurea in filosofia e una in matematica, oggi come allora, la libertà politica ha nella libertà di ricerca una componente essenziale. Questo significa che, come sosteneva Paul Feyerabend,
una società è libera solo quando ciascun individuo, teoria o punto di vista, per quanto ci possa sembrare aberrante, ha il diritto a una difesa pubblica.

Giulio Giorello
Professor Giorello, quali sono i pensatori del Sessantotto che oggi hanno ancora qualcosa da dire?
Si sarebbe tentati di rispondere Herbert Marcuse, autore che nel Sessantotto ebbe una certa risonanza, ma il Marcuse de “L’uomo a una dimensione” non ha nessuna utilità per comprendere la politica attuale. Il Marcuse del “Soviet Marxism”, invece, avrebbe avuto molto da dire agli intellettuali italiani di allora, fornendo loro spunti interessanti per comprendere la caducità dell’esperimento marxista in Russia e negli altri paesi del blocco comunista.
Quindi?
Credo che un pensatore di allora che ha ancora molto da dire oggi per quanto riguarda il rapporto tra politica e filosofia sia Paul Feyerabend, filosofo della scienza e provocatore per eccellenza, che amava appunto dire di sé e del suo amico Imre Lakatos: “Noi siamo quelli che stanno rileggendo a sinistra l’insegnamento libertario di Karl Popper”.
In che modo?
Feyerabend e Lakatos rilessero Popper in modo originale, anche rispetto a come era stato letto in Italia.
Quello che interessava ai due pensatori era la connessione molto significativa che Popper aveva identificato tra la libertà di ricerca dentro una scienza e le strutture di una società aperta. Infatti, se si fosse letto Popper senza i paraocchi dell’ideologia, si sarebbe capito che, quando Popper in “La società aperta e i suoi nemici” se la prende con Platone – che viene considerato un totalitario – questo non va intenso come un attacco a Platone, ma piuttosto come il desiderio di Popper di mostrare il nesso tra libertà di ricerca e forme di libertà politica, che esisteva già nella società greca.
Ci spieghi meglio…
Per Popper questo nesso era bidirezionale e lui lo vedeva già nel “miracolo greco”, ovvero quella miracolosa fioritura di congetture audaci intorno alla struttura dell’universo che ci è stata regalata dai pensatori abitualmente definiti come presocratici, nonostante questa non sia una definizione precisissima. In ogni caso, secondo Popper, l’esempio greco mostrava bene che non si dà libertà di ricerca se non c’è libertà politica e, viceversa, che la libertà politica ha nella libertà di ricerca una componente essenziale.
Tenere insieme le due cose non è sempre stato così facile…
Questo tema è, infatti, riemerso potentemente con la modernità. Popper aveva in mente un esempio come Galileo Galilei, uomo che ha così profondamente cambiato la fisica.
E che fu processato e condannato per le sue convinzioni…
La lotta di Galileo per il rafforzare e confermare la concezione copernicana fu piena di luci e ombre. Quando fu chiesto a Galileo di dare prova fisica del copernicanesimo, lui la trovò nelle maree. Ma noi oggi sappiamo che questo argomento non tiene, come, del resto anche dei suoi contemporanei gli fecero notare.
Qual che conta è che questa non era una ragione per portare Galileo davanti all’Inquisizione, che non era solo un tribunale religioso ma anche un potente e spietato tribunale politico.
Quale lezione possiamo trarne?
Popper ci ha fatto capire, nella sua rilettura di Galileo, che c’è anche un diritto all’errore. A questo hanno lavorato, anche andando oltre l’“ortodossia” popperiana, Paul Feyerabend e Imre Lakatos.

Paul Feyerabend
Ci parli di loro…
Lakatos veniva dall’Ungheria, si era formato in quel paese. Fu un pensatore di corrente marxista leninista, considerato poi con molto sospetto e accusato di deviazionismo. Lasciò l’Ungheria per condurre una vita da esule nel Regno Unito.
Feyerabend era, invece, di Vienna. Fu un personaggio estremamente vivace e polemico. Riteneva essenziale una certa forma di “relativismo”, non intenso però come la solita banalità secondo cui tutte le cose valgono le altre.
E in che senso allora?
Feyerabend credeva che in una società libera, che è un po’ una forzatura – in senso positivo – della società aperta di Popper, ciascun individuo, teoria o punto di vista, per quanto ci possa sembrare aberrante, ha il diritto a una difesa pubblica. Questo non significa ovviamente che tutto deve essere messo sullo stesso piano.
Feyerabend diceva scherzando che, riletto in questo modo, Popper era stato un po’ il pensatore del materialismo dialettico di nuovo tipo. Un’affermazione, questa, che va intesa con una certa capacità di ironia. Era, infatti, un atto piuttosto coraggioso interpretare la libertà intellettuale, l’autonomia della ricerca e il gusto stesso dell’eccentricità come elementi di una società libera e di “sinistra”.
Feyerabend seppe anche rileggere e affiancare in modo intelligente alcuni classici del pensiero…
Feyerabend apprezzava in modo particolare due filosofi a prima vista difficili da accostare: Mill e Hegel. Di John Stuart Mill lo avevano colpito alcune osservazioni sulla natura della società libera. In tal senso, l’elogio dell’anticonformista nel “Saggio sulla libertà” di Mill ha più importanza oggi di quando venne pubblicato, nel 1859, anche perché, oggi, la piattezza burocratica, che vorrebbe pianificare addirittura i nostri gusti, è un pericolo estremamente forte e proprio su questo pericolo Mill aveva terminato il suo breve saggio.
E di Hegel, invece, cosa aveva colpito Feyerabend?
Hegel secondo Feyerabend andava letto non come un pensatore sistematico che costruisce un’enorme cattedra intellettuale, ma come un provocatore che voleva mostrare come ci fosse vitalità anche in concezioni che sembravano morte. Per Feyerabend, Hegel andava utilizzato quando si riteneva necessario rompere un sistema concettuale divenuto semplicemente un sistema di pregiudizi sociali, al fine di ottenere qualcosa di nuovo.
E quindi?
Se c’è un elemento comune in questo discorso, questo è il bisogno di cambiare, di non rimanere legati a un sistema di concetti, di regole, di modi di interpretare la vita politica, che si pensano fissati una volta per tutte. Ritenerli immutabili è un modo per uccidere questi concetti, regole e modi di interpretare la vita.
In Italia, c’è stato un pensatore estremamente aperto alla tematica della libertà di cambiamento: si tratta del filosofo Ludovico Geymonat, che è stato molto vicino all’esperienza politica della sinistra, talvolta con forti contrasti con il Partito comunista italiano, quando questo era guidato da Togliatti. Geymonat insisteva soprattutto sulla libertà di cambiare modo di pensare, regole di vita e strumenti con cui ci orientiamo nella vita associata.

Giulio Giorello, a destra, e Massimo Donà, al centro. Festival della politica di Mestre, 2016
A volte siamo obbligati a cambiare…
La libertà di cambiare non è solo un desiderio, ma una condizione che ci è imposta dal potente rinnovamento che è stato promosso dalla scienza negli ultimi secoli. Si pensi, ad esempio, allo sviluppo della biologia di carattere evolutivo, con la tradizione aperta dal saggio di Charles Robert Darwin, o a quello che è stato prodotto oggi nel settore delle scienze dalla vita. Oggi è molto difficile affrontare alcuni temi filosofici, come a esempio, quelli circa la natura della coscienza, senza tenere conto delle acquisizioni che sono state fatte dalle scienze neurofisiologiche.
In Italia siamo liberi di cambiare?
Siamo liberi di cambiare nella misura in cui abbiamo la voglia, il coraggio e l’impegno di cambiare. La mia sensazione è che il nostro paese sia fortemente indietro in certi settori. Se guardo alla situazione della ricerca scientifica in Italia, riconosco che ci sono eccellenze in diversi settori, dalla matematica alla medicina, ma se guardo alle strutture pubbliche e all’amministrazione che i politici ci hanno regalato, divento fortemente pessimista.
Ma questa non è una ragione per gettare la spugna. Si ricordi cosa Antonio Gramsci diceva su pessimismo e ottimismo (Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà, ndr). Secondo me questa indicazione gramsciana deve essere sprone per coloro che si sentono in qualche modo parte di questo complicato contesto che è la sinistra.
Serve un’altra ribellione di fronte a questa politica che non sa stare al passo con il cambiamento?
Le ribellioni non sono una panacea, nascono in un certo modo, evolvono secondo delle forme fortemente imprevedibili e producono cose che nessuno si aspettava.
Lo abbiamo visto nella rivoluzione francese, o nelle due rivoluzioni del 1917 in Russia. Le ribellioni non sono medicine che si acquisiscono a buon prezzo. Però le ribellioni avvengono quando la classe politica è tanto inadeguata da diventare soffocante, non solo per la libertà di ricerca ma anche per le altre libertà essenziali.
La burocratizzazione della nostra vita quotidiana sta diventando pesante. Non dico che bisognerà ribellarsi, ma che potrà succedere che qualcuno si ribelli.

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