Con una sentenza storica per il movimento per i diritti Lgbtq la Corte suprema degli Stati Uniti ha deciso che le attuali norme federali in tema di divieto di discriminazione sul posto del lavoro si applicano anche ai lavoratori gay, lesbiche e transgender. L’amministrazione Trump si era opposta alle richieste dei ricorrenti, capovolgendo la posizione presa dal dipartimento di giustizia durante la presidenza Obama. Attualmente ventotto dei cinquanta stati non prevedono protezioni legislative anti-discriminatorie per i lavoratori Lgbtq.
La sentenza è particolarmente importante anche per le modalità con cui è passata. Si è formata infatti una maggioranza di sei giudici contro tre. Due giudici conservatori, inaspettatamente, hanno votato a favore. Il presidente della Corte suprema John Roberts, nominato da G. W. Bush, e Neil Gorsuch, nominato da Donald Trump, hanno votato assieme ai giudici liberal.

Gorsuch ha scritto anche il dispositivo della sentenza che afferma
Un datore di lavoro che licenzia un individuo perché omosessuale o transgender licenzia quella persona per tratti o azioni che non avrebbe messo in discussione con lavoratori di sesso diverso. […] Il Congresso ha adottato un linguaggio ampio che rende illegale per un datore di lavoro licenziare un dipendente per motivazioni di sesso. Non esitiamo a riconoscere oggi una conseguenza necessaria di quella scelta legislativa: un datore di lavoro che licenzia un individuo solo perché gay o transgender sfida quella legge.
In sostanza, l’orientamento sessuale o l’identità di genere non possono definirsi senza riferimento al sesso. E in quanto tratti in funzione del sesso sono perciò protette dal titolo VII del Civil Rights Act del 1964. Pertanto, se un datore di lavoro licenzia una donna perché ha relazioni con altre donne ma non un uomo che ha relazioni con delle donne, la diversità di trattamento dipende dal sesso. Ed è quindi discriminatorio.
I casi erano arrivati alla Corte suprema nell’ottobre dello scorso anno. I tre querelanti erano Gerald Bostock, ex coordinatore dei servizi di assistenza all’infanzia della Georgia; Donald Zarda, un ex istruttore di paracadutismo di New York, morto nel 2014; e Aimee Stephens, transgender morto il 12 marzo scorso, che lavorava per un’azienda di pompe funebri nel Michigan. Le corti d’appello s’erano espresse a favore di due dei ricorrenti e contro invece Bostock.
La battaglia legale si è focalizzata sulla definizione di “sesso” nel Titolo VII del Civl Rights Act del 1964. La legge federale impedisce ai datori di lavoro di discriminare i dipendenti sulla base del sesso, razza, colore, origine nazionale e religione. Secondo gli oppositori dell’estensione della protezione, quel riferimento al “sesso” non doveva essere interpretato per includervi l’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Si tratta d’un problema che si trascina sin dall’origine della legge federale. Il disegno di legge originale non includeva neppure la protezione contro le discriminazioni sessuali. Fu un deputato della Virginia, Howard W. Smith, ha chiedere l’introduzione del termine “sex” durante il dibattito alla Camera dei rappresentanti. E problemi di interpretazione insorsero nei decenni successivi. Il Congresso, ad esempio, dovette emendare nel 1978 la legislazione federale. La Corte suprema infatti non riteneva “dovuta al sesso” la discriminazione verso le donne in gravidanza. E quindi non proibita dalle norme del Titolo VII. Nel tempo il Congresso ha poi evitato di approvare leggi che aggiungessero l’orientamento sessuale all’elenco dei tratti e delle azioni protette dalla legge.

I tre giudici conservatori che si sono opposti alla sentenza – Samuel Alito (nominato da G.W .Bush), Thomas Clarence (nominato da Bush padre) e Brett Kavanaugh (nominato da Trump) – hanno criticato duramente la sentenza. Secondo i tre giudici, in questo caso l’attività della Corte suprema non si differenzierebbe da quella legislativa. E quindi non sarebbe conforme al ruolo dell’istituzione.
Non è, tuttavia, ancora chiaro se la sentenza vieterà completamente la discriminazione sul posto di lavoro sulla base dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere. La Corte suprema infatti il prossimo autunno dovrà decidere se i datori di lavoro con obiezioni religiose rispetto alle persone Lgbtq possano godere di un’esenzione alle leggi antidiscriminazione. Una posizione che Gorsuch nel passato aveva già sostenuto.

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