[PARIGI]
La morte di George Floyd a Minneapolis per mano di alcuni poliziotti ha avuto conseguenze anche al di là dei confini degli Stati Uniti. In Francia vi sono state numerose forme di protesta per denunciare la brutalità della polizia, nonostante il divieto imposto alle manifestazioni a causa del Covid-19. In particolare è un caso tutto francese a mobilitare movimenti di vario genere che qualche giorno fa si sono radunati davanti al tribunale di Parigi. Si tratta della morte di Adama Traoré, deceduto nel 2016 a soli ventiquattro anni in circostanze non ancora chiarite in una stazione di polizia della Val-d’Oise.
Non è la prima volta che si svolgono manifestazioni contro l’uso sproporzionato della forza da parte della polizia francese. Tuttavia i fatti di Minneapolis e le marce di protesta hanno avuto un effetto moltiplicatore della partecipazione. Per lo più giovani, muniti di magliette e cartelli che ricalcavano gli slogan americani – “Justice pour Adama” e “Sans justice vous n’aurez jamais la paix” – i manifestanti hanno fatto sentire la loro voce in tutto il paese. Da Lione a Bordeaux, da Marsiglia a Nantes.
Nemmeno il comitato Adama Traoré, che da quattro anni chiede che venga fatta luce sul caso, si aspettava un così grande successo. E gli eventi statunitensi stanno trasformando il comitato guidato da Assa Traoré, sorella di Adama, in un vero catalizzatore dei movimenti di protesta contro il razzismo. E contro le disuguaglianze sociali che il Covid-19 ha messo in luce, come la stampa francese ha sottolineato.

È anche la prima volta che dei movimenti anti-razzisti sono totalmente slegati dai partiti. In Francia il principale movimento che ha lottato e lotta contro il razzismo è SOS Racisme, vicino ai socialisti. Oggi invece c’è un vero cambio di paradigma e di convergenze tra movimenti con origini anche politiche differenti. Una convergenza, per esempio, che ha portato il comitato Traoré a sostenere il movimento dei gilet gialli, soprattutto nella critica all’utilizzo di alcune “tecniche” di mantenimento dell’ordine pubblico. Tecniche che, secondo la famiglia, avrebbero causato la morte di Adama Traoré.
Quella del giovane ventiquattrenne è una storia di battaglie legali che continua dal 2016. Secondo l’inchiesta, Traoré si trovava in compagnia del fratello presso la sede del comune di Beaumont-sur-Oise. Le forze dell’ordine intervennero per interrogare il fratello per un’inchiesta su delle estorsioni. Alla vista della polizia, Adama impaurito decise di scappare ma fu poi fermato da un’altra pattuglia che lo trasse in caserma. Da dove Adama non uscì vivo.
Qui però ci sono solo le testimonianze dei poliziotti e un primo esame medico che li assolve. Una nuova perizia medica richiesta dalla famiglia contraddice in realtà il primo esame medico e suggerisce che la morte del giovane sia avvenuta per placcaggio a terra, una tecnica d’arresto che i gendarmi avrebbero utilizzato come tecnica interrogatoria. Si tratta di una tecnica proibita in molti paesi e già denunciata in Francia per la sua pericolosità. Il giudice francese respinge la perizia della famiglia e ne ordina un’altra che riconferma la perizia assolutoria dei poliziotti. La famiglia però ordina un’altra perizia indipendente che riconferma l’ipotesi del placcaggio a terra.
Nel 2019 i ricorsi all’Inspection générale de la police nationale (IGPN), la “polizia” dei poliziotti che vigila sul rispetto delle regole deontologiche, sono aumentati del 23,7 per cento, per un totale di 1.460 inchieste giudiziarie. Di questi più della metà (868) riguardano la violenza delle forze dell’ordine, con un aumento del 41 per cento in un solo anno. Quest’uso della forza si è verificato per il 38,8 per cento durante delle manifestazioni, il 12,8 per cento durante dei controlli e il 14,1 per cento nei confronti di persone che erano state fermate e detenute per un certo periodo.
Secondo però il Difensore dei diritti, l’autorità amministrativa indipendente nominata dal presidente della repubblica per tutelare i cittadini di fronte alle autorità, la richiesta di procedere con misure disciplinari nei confronti dei poliziotti accusati non trova seguito nelle istituzioni che dovrebbero occuparsene. Una mancanza che mette in rilievo la forma di protezione di cui godono le forze dell’ordine anche di fronte a un’autorità amministrativa che dovrebbe tutelare i cittadini.
E che ha un impatto negativo sull’immagine della polizia. Le immagini dell’azione di mantenimento dell’ordine pubblico durante le manifestazioni di gilet gialli e dei sindacati hanno lasciato infatti tracce nell’opinione pubblica.
Ma qui non si tratta soltanto di un uso smodato della forza. Sempre secondo un’inchiesta del Difensore dei diritti, realizzata nel 2016 su cinquemila persone, l’ottanta per cento delle persone che corrispondevano al profilo “giovane uomo nero o d’origine araba” ha dichiarato di essere stato oggetto di controlli della polizia nei cinque anni precedenti. Una cifra molto lontana dal sedici per cento degli altri intervistati. Un risultato che chiama in causa anche l’aspetto razziale. Come ha ricordato l’appello dell’attore Omar Sy dalle pagine de L’Obs e sottoscritto da personalità del mondo dello spettacolo e della cultura:
Svegliamoci. Dobbiamo avere il coraggio di denunciare le violenze della polizia in Francia. Impegniamoci a porvi rimedio. Tutti dobbiamo aspirare a una polizia degna della nostra democrazia, una polizia che protegga la popolazione, senza distinzione nel colore della pelle o della provenienza sociale. La stessa per tutti, che si abiti in centro città o nei quartieri popolari. Una polizia in grado, come abbiamo visto negli ultimi giorni negli Stati Uniti, di unirsi ai manifestanti, di inginocchiarsi per denunciare la violenza che ne ha infangato l’uniforme. Anche in Francia, ci sembra ovvio che la maggior parte degli agenti di polizia non perdoni questi atti violenti. Li invitiamo a rompere il silenzio. Chiediamo il cambiamento, per rimettere in discussione un sistema che non può rivendicare la giustizia se non mette fine all’impunità organizzata che imperversa da decenni. Questo stato delle cose non è più sostenibile.

Ma non è soltanto l’azione violenta della polizia che viene messa in causa. È anche la mancanza di diversità all’interno delle stesse forze di polizia. L’Obs riporta lo studio realizzato dallo scienziato politico Sebastian Roché per la Fondazione Open Society di George Soros:
Non vi è alcun incentivo per ridurre la sottorappresentanza delle minoranze nella polizia. In termini di assunzioni, il ministero degli Interni ha lavorato soltanto indirettamente per migliorare la rappresentanza delle minoranze prendendo di mira i giovani che vivono in quartieri svantaggiati. Sembra esserci una diversità etnica nella polizia in fondo alla scala professionale, ma non sono disponibili stime statistiche […] Non c’è alcun meccanismo di monitoraggio e di controllo su questo problema. La discriminazione etnica durante i controlli o l’uso della forza non sembra essere oggetto di riflessione operativa nonostante la presenza del tema nel dibattito pubblico. Non vi è alcuna trasparenza generalmente garantita dalla pubblicazione di indicatori o persino dalla semplice messa in servizio e pubblicazione di rapporti di ricerca sulla composizione etnica della polizia.
E varie forme di razzismo le devono affrontare anche gli stessi poliziotti. Come a Rouen dove lo scorso dicembre un poliziotto nero ha scoperto di essere l’obiettivo di un gruppo WhatsApp creato dai colleghi. Il poliziotto ha denunciato sei dei suoi colleghi, che hanno rivendicato il loro diritto a essere “nazionalisti razzisti”. Sottoposti a processo disciplinare, sono ancora impiegati dalle forze di polizia, in attesa del giudizio.
Il ministro degli interni Christophe Castaner – ex socialista – ha chiesto tolleranza zero contro il razzismo nelle forze dell’ordine. Ma per ora le misure sembrano limitarsi alla messa al bando temporanea – in attesa dei risultati di un gruppo di studio – della “clé d’étranglement”, una tecnica di intervento della polizia che consiste nel bloccare il collo della persona fermata. Ma su politiche mirate a eliminare il “razzismo sistemico” la politica non ne vuole sentir parlare. E per una ragione precisa.
In nome dell’uguaglianza universale, la Francia ha una difficile relazione con il concetto di razza. Lo stato non riconosce alcuna differenza etnica o razziale tra i suoi cittadini. Ed è per questo motivo che la legge francese impedisce di raccogliere le statistiche su base razziale, religiosa o etnica e la parola “race“ (razza) è stata eliminata dalla costituzione. Però qualcosa sta cambiando.
Le mobilitazioni di questi giorni, le difficoltà nel definire l’ampiezza del problema e la necessità di trovare soluzioni mirate hanno spinto la portavoce del governo Sibeth Ndiaye (ex socialista e molto vicina a Macron) a suggerire la riapertura del dibattito sulle “statistiques ethniques” (statistiche etniche). “Un mezzo di lotta alla discriminazione razziale”, l’ha definito su Le Monde:
[…] Abbiamo fatto dell’universalismo il fondamento delle nostre leggi, ma, non potendo misurare e guardare la realtà così com’è, lasciamo fiorire le fantasie […] C’è qualcosa che dobbiamo urgentemente prendere in mano, perché non dobbiamo rinunciare al nostro progetto universalista e repubblicano, col rischio di dare ragione a coloro che deviano il suo significato e sfruttano spudoratamente le sue debolezze.

Per la portavoce del governo, la soluzione già adottata nei paesi anglosassoni permetterebbe, se non di risolvere il problema, almeno di avere un’idea più chiara della “rappresentanza delle persone di colore nella vita pubblica, politica, economica e culturale del paese”.
Un’opinione condivisa anche da Jacques Toubon, il Difensore dei diritti, che al Washington Post ha dichiarato:
La nostra tesi, i nostri valori, le nostre regole – costituzionali, eccetera – sono universalisti. Non riconoscono la differenza. Ma c’è una tensione tra questo e la realtà […] Riconoscere le disparità di base non minaccia il principio di uguaglianza universale sancendo in qualche modo la differenza […] Il trattamento della discriminazione in base all’origine è completamente in linea con l’uguaglianza. Se vuoi trattarlo, devi affrontare queste differenze.
I ministri Bruno Le Maire (Economia) e Gérald Darmanin (Bilancio), esponenti dell’ala desta del movimento di Macron, hanno fatto sapere di essere contrari a questo strumento per la minaccia all’approccio universalista del paese. Un’idea che Marine Le Pen condivide.
E per ora non sembra la strada scelta dal presidente della repubblica, favorevole alle azioni concrete nella lotta contro la discriminazione, più che a un nuovo dibattito. Tanto che la sera del suo discorso sul deconfinamento, lo scorso 14 giugno, non ha neppure menzionato le statistiche etniche.
Ma è un dibattito che risorge spesso nel dibattito pubblico francese. E questa non sarà l’ultima volta.

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