Il 22 agosto del 1978 il mondo intero venne a conoscenza di un colpo brillante portato a termine da una delle innumerevoli guerriglie dell’America Latina. A essere colpita duramente, con un’azione militare che ebbe dell’incredibile, era la dinastia sanguinaria dei Somoza in Nicaragua, il cui capostipite Anastasio Somoza García, capo della Guardia Nacional, s’era macchiato dell’assassinio di Augusto César Sandino.
A capo del commando di venticinque uomini che prese militarmente il Palacio Nacional di Managua, tenendo in ostaggio più di mille persone, tra cui tutti i deputati presenti, compresi Luis Pallais Debayle, cugino di Anastasio Somoza nonché presidente della Cámara de Diputados, e il nipote José Somoza Abrego, c’era un uomo di quarantun anni che di professione faceva il pescatore di squali, e che si fece conoscere come Comandante Zero.
Solo dopo che l’operazione militare fu felicemente conclusa, già sulla strada verso l’aeroporto, si venne a sapere che il suo nome era Edén Pastora e che aveva avuto come luogotenenti Hugo Torres e Dora María Téllez, rispettivamente comandanti “Uno” e “Due”.
Questa vicenda, che passò alla storia con il nome di “Operación Chanchera”, fu un grande successo politico, e costrinse una dittatura agonizzante, che sarebbe stata rovesciata nel luglio del ’79, a liberare cinquanta detenuti sandinisti, pagare un riscatto di mezzo milione di dollari ai guerriglieri, e a far pubblicare sui giornali del paese e dalle emittenti radiotelevisive un loro lungo manifesto.
L’anno dopo Pastora avrebbe assunto il comando del Frente Sur “Benjamín Zeledón” del Frente Sandinista de Liberación Nacional, e al trionfo della rivoluzione gli fu riconosciuto il titolo di “comandante guerrigliero” e la poltrona di vice ministro della difesa e capo delle milizie popolari sandiniste.
Ma a quelle cariche Pastora, esponente dell’ala insurrezionalista delle tre che andarono a costituire il FSLN, rinunciò poco dopo rompendo con i sandinisti che l’accusarono di tradimento. E dopo aver espresso le sue critiche allo sviluppo della rivoluzione in una lettera indirizzata alla direzione nazionale del FSLN e al popolo, decise di lasciare il Nicaragua il 7 luglio del 1981.

Da quel momento, la vicenda di Edén Atanacio Pastora Gómez, morto ieri a 83 anni all’ospedale militare di Managua in seguito a complicazioni respiratorie dovute alla sua cardiopatia, si svolge per un lungo periodo in campo avverso agli ex compagni sandinisti con cui aveva combattuto.
Se la famiglia ieri ha negato che la causa della morte possa essere stata l’epidemia di coronavirus, qualche sospetto è lecito in un paese in cui nelle ultime settimane, secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano Confidencial, ben sessanta sono state le vittime tra le alte cariche del governo di Daniel Ortega e del FSLN.
Tra esse ministri, ambasciatori, deputati e sindaci, che il regime fa di tutto per nascondere nonostante, secondo stime di organismi indipendenti, i contagi abbiano superato il numero di cinquemila, e i morti quello di mille.
Fuoriuscito nella confinante Costa Rica, Pastora aveva fondato poco dopo la Alianza Revolucionaria Democrática (ARDE), una formazione controrivoluzionaria con cui lanciava attacchi militari contro le forze sandiniste. Fu anche ferito nel 1984 durante una conferenza stampa in un attentato organizzato dai servizi di Managua, nel quale morirono undici persone.

Abbandonato dagli Stati Uniti che gli rifiutarono gli aiuti che aveva richiesto, decise alla fine di deporre le armi che aveva impugnato contro il regime sandinista per tornare alla vita civile. Poco dopo il ritorno in patria dove nel 1990 aveva appoggiato la campagna di Violeta Barrios de Chamorro, candidata dell’Unión Nacional Opositora (UNO), prima donna a essere eletta presidente del Nicaragua.
Nel 2006 aveva anche partecipato alle elezioni presidenziali con “Alternativa por el Cambio” (AC), che aveva ottenuto una percentuale da prefisso telefonico e nessun deputato. Le stesse elezioni che avevano segnato il ritorno al potere di Daniel Ortega l’anno successivo, al quale, dopo l’insuccesso della sua lista, Pastora si è riavvicinato diventando suo sostenitore, uno dei pochi vecchi comandanti della rivoluzione su cui Daniel poteva ancora contare.
Grazie al suo rientro nei ranghi, Ortega nel 2010 gli aveva affidato l’incarico di dragare il Río San Juan. Una vicenda che ha provocato una controversia internazionale con il governo della Costa Rica finita davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, che s’è conclusa con la richiesta del governo costaricense di un indennizzo di sei milioni di dollari per i danni ambientali causati dalle iniziative di Pastora. In quell’occasione l’ex guerrigliero si è difeso dichiarando “sono un soldato, ubbidisco agli ordini”, con ciò tracciando probabilmente di sé il ritratto più fedele di quella che è stata la sua vicenda rivoluzionaria e umana.

Ritornato nelle grazie del suo vecchio compagno d’arme, Pastora l’ha difeso anche dopo lo scoppio della rivolta sociale dell’aprile 2018, che ha provocato più di trecento morti, proprio nel momento in cui buona parte della vecchia dirigenza sandinista se ne allontanava. E si è particolarmente distinto nell’attaccare i vescovi cattolici che hanno sostenuto i ribelli dando loro ospitalità nelle chiese, a cominciare dalla cattedrale di Managua.
“Ipocriti, satanici, diabolici… non s’immagina il Papa il danno che hanno arrecato alla Chiesa cattolica e al popolo del Nicaragua”, ha confidato all’intervistatore di Canal 4, una delle emittenti controllate dalla famiglia Ortega. E a Camilo Egaña, di CNN, ha assicurato di aver udito con le sue orecchie “i vescovi dal pulpito invocare la guerra”, e definito Monsignor Silvio Báez “un vescovo satanico”.
Strenuo difensore della reazione repressiva di Ortega, ha negato fino all’ultimo che in Nicaragua esistano prigionieri politici o vittime provocate dalle forze di sicurezza durante le manifestazioni, contraddicendo ogni accusa mossa al regime orteguista da parte di organismi internazionali che tutelano i diritti umani.
È apparso l’ultima volta in televisione lo scorso novembre, in occasione del compleanno di Daniel, quando ha chiesto al partito al governo di convocare il Congresso sandinista, un organismo di fatto svuotato da ogni autonomia, come già il Frente Sandinista, che risponde solo agli ordini di Ortega, con lo scopo di scegliere il successore dell’attuale presidente.
In quell’occasione Pastora non ha citato Rosario Murillo, dando prova di rifiutare l’idea di una successione dinastica quando la lunga parabola politica di Ortega, ormai settantaquattrenne, si dovrà per ragioni naturali interrompere. A meno che, ovviamente, non l’interrompano prima le prossime elezioni presidenziali del 2021.

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