Sergio Endrigo. Cantautore raffinato, uomo elegante

Gli incontri con uno dei maggiori esponenti della canzone d’autore. Fu dimenticato dai discografici ma è rimasto nella storia della musica italiana.
ALDO GARZIA
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La prima volta che ho incontrato Sergio Endrigo (Pola 1933-Roma 2005) nel 1986 ci siamo dati appuntamento in piazza dei Giuochi Delfici, Roma. “C’è un’edicola, vediamoci lì”, mi disse al telefono gentilmente. Arrivai puntuale e un po’ emozionato. Seguivo Endrigo da ragazzino, da quando vinse il Festival di Sanremo nel 1968 con Canzone per te. Ricordavo nell’ordine i primi long playing che ho comprato: Fabrizio De André, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Adamo, Françoise Hardy. Gli avevo chiesto un’intervista e lui accettò subito invitandomi a casa sua, dove entrammo poco dopo esserci presentati. Era alto, elegante, con la faccia da intellettuale a metà tra l’attore e lo scrittore impegnato. Indossava un giubbotto di pelle sdrucito, una sciarpa bianca, un pantalone di velluto a coste larghe. Il portamento, come avevo immaginato, era quello di un distinto signore che faceva della cortesia l’arma per mettere a suo agio l’interlocutore. Non aveva la faccia del cantante piacione.

Quel giorno era solo, sua moglie Lula non c’era (morirà nel 1994). Nella sala dove ci sedemmo troneggiava un pappagallo di nome Pago.

È un ricordo del Brasile dove ho amici, a iniziare da Vinícius de Moraes, e mi apprezzano. Al pappagallo ho anche dedicato una canzone tempo fa. Nella registrazione del disco c’è la voce da bambina di Claudia, mia figlia,

disse sedendosi in poltrona.

Vorrei farle un’intervista ampia. Ascolto le sue canzoni vecchie e nuove con piacere,

dissi.

Per la verità, di canzoni nuove ne incido raramente. Non mi fanno fare dischi e quando li faccio non hanno un lancio adeguato. Sono stato messo in disparte dalle case discografiche,

rispose.

Finimmo per discutere di politica e per parlare di Enrico Berlinguer, morto nel 1984.

Come la penso non l’ho mai nascosto. Ho sempre votato comunista. Ho scritto canzoni d’amore e altre che ricordavano Che Guevara, il ’68, Cuba, la Resistenza…

“Guardi, ho i suoi dischi. Conosco quasi tutto di lei e le collaborazioni con Pasolini e Ungaretti…”. 

Ci demmo del “lei” tutto il tempo. La conversazione continuò spedita e piacevole fino a quando Endrigo fece una proposta:

Sto preparando un concerto che terrò al Teatro dei Satiri, in una stradina di Campo dei fiori. Perché non viene a trovarmi lì e ne parliamo?

Naturalmente, accettai. Sorseggiammo un succo di frutta e ci salutammo con l’impegno a rivedersi presto.

Aldo Garzia e Sergio Endrigo

Dopo una settimana, ero al Teatro dei Satiri, a un passo da Campo dei fiori. S’entrava in un vecchio palazzo abitato da antiche famiglie romane e poi si proseguiva verso una porta a vetri. C’era una piccola cassa per i biglietti, di fianco una sala di attesa che faceva da foyer. I posti a sedere erano pochi: cento in platea e cinquanta in galleria. Il palcoscenico mi sembrò minuscolo. La regia dello spettacolo stava intanto mettendo a punto un video dove comparivano le immagini di James Dean, Marilyn Monroe, Brigitte Bardot, Cassius Clay, Che Guevara, Beatles, i giovani del ’68. Le foto s’alternavano con quelle in bianco e nero di vecchie balere.

Non è nostalgia, bensì voglio ricordare le speranze di un periodo della nostra storia. Lo spettacolo s’intitola come una delle mie ultime canzoni “E allora balliamo”. Presento pezzi vecchi e nuovi,

mi chiarì Endrigo. 

Io ne spiai i movimenti seduto in platea mentre sul palco Endrigo accordava la chitarra e faceva la prova microfono. Lo vidi teso, insicuro: avevo l’impressione di scrutare un principiante, un artista agli inizi. L’industria del disco lo aveva abbandonato.

Confessò:

Ho paura di non tenere a mente i testi parlati che devono alternarsi con le canzoni. Mi sembra di ricominciare. Ho tutti i sintomi dell’esordio: mani sudate, piedi freddi, colletto della camicia troppo inamidato, la voce che viene e va. Ho pura del pubblico e del suo giudizio. Questa sala scarna mi inquieta. Ho il terrore che l’amplificazione non funzioni, che le luci vadano in tilt d’improvviso. Solo i giovani collaboratori del teatro mi danno sicurezza, potrei essere loro padre.

In quell’occasione, registrammo una lunga e bella intervista.

Dal 1986, ho rivisto altre volte Endrigo. Conservo il suo libro con dedica Quanto mi dai se mi sparo? che mi spedì gentilmente a casa, in cui narrava sotto forma di racconto la crudeltà del mondo artistico e dell’industria del disco. M’inviò poi una copia dell’introvabile 45 giri Tango rosso, canzone scritta in collaborazione con la moglie Maria Giulia Bartolocci (Lula), che incise in pochissime copie in coppia con Max Manfredi nel 1990 mentre era in corso lo scioglimento del Partito comunista italiano. Custodisco quel 45 giri gelosamente, come una sorta di reliquia. Ormai, consideravo Endrigo un amico illustre.

Ci siamo rivisti ancora nel 2000. L’Arci, l’associazione culturale, aveva organizzato alcuni suoi concerti a Cuba. Si organizzò per l’occasione una cena ben augurante in un ristorante a Corso Francia, Roma. Endrigo soffriva di labirintite, era dolorante. Ma non ci fu verso di convincerlo a non partire. Voleva tornare all’Avana, dov’era amato per aver inciso versi di José Martí sotto forma di canzone (La rosa bianca), aver dedicato un pezzo all’isola (Lettera da Cuba) e tenuto in passato dei concerti. Eravamo preoccupati per la sua salute. Fu una cena festosa. Lui ci ringraziò di averla voluta. Ci considerava suoi amici. E noi cercammo di trasmettergli affetto. Durante la tournée cubana, i suoi malanni presero però il sopravvento.

L’ultima occasione d’incontro, dove potemmo discutere con agio, ci fu nel 2003 al Festival dell’Unità di Genova, dove Eugenio Marino mi convinse a partecipare a un dibattito musicale con Endrigo. Sergio aveva avuto un’ischemia che gli aveva lasciato qualche difficoltà nel camminare. Ricordo che lo vedemmo arrivare al nostro appuntamento sottobraccio a un suo amico, elegante, signorile e cortese come quando lo avevo incontrato la prima volta. Il confronto fu interessante e lui fece un intervento efficace, parlando con sicurezza e scioltezza. I segni della malattia erano impercettibili. Fu un bel pomeriggio. Il pubblico l’applaudì con affetto e noi lo riverimmo con garbo e ammirazione.

Il 7 settembre 2005 arrivò la notizia della sua morte a settantadue anni. Il Comune di Roma – sindaco Walter Veltroni, assessore alla cultura Gianni Borgna – ebbe la buona idea di ospitare i suoi funerali in Campidoglio, rendendo così giusto omaggio a uno dei maggiori cantautori italiani. Un recente libro di Claudia Endrigo lo ricorda come musicista e come personaggio con tutte le curiosità biografiche del caso (Sergio Endrigo, Mio padre artista per caso, Feltrinelli 2017).

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Sergio Endrigo. Cantautore raffinato, uomo elegante ultima modifica: 2020-06-18T15:58:58+02:00 da ALDO GARZIA
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