Questo maledetto coronavirus ci ha rubato non solo un pezzo di vita privata, ma anche un pezzo importantissimo di vita collettiva, di memoria condivisa. Il 2020 sarebbe dovuto essere l’anno di un giubileo importante, i settantacinque anni della Liberazione, cosa che avrebbe potuto dare l’occasione per qualche riflessione che andasse oltre le pur apprezzabili e necessarie cerimonie pubbliche.
È infatti evidente che le società europee stanno attraversando una fase storica di cosiddetta “crisi della democrazia”, in cui valori che si davano per definitivamente acquisiti, vengono messi in dubbio. La libertà, probabilmente, è come l’acqua corrente o come quei beni ordinari, di cui scopri l’indispensabilità solo quando viene a mancare. I settantacinque anni della Liberazione, vale a dire i settantacinque anni in cui noi tutti stiamo vivendo per la prima volta nella storia europea in pace e nella libertà, potevano essere una occasione per riflettere su come declinare questi valori, libertà e pace, appunto, nel nuovo contesto.
Nei giorni precedenti il 25 aprile, in pieno lockdown, l’Associazione interparlamentare per i luoghi della memoria della Resistenza e dell’antifascismo, presieduta dal deputato bolognese del Pd Andrea De Maria, ha organizzato alla Camera dei deputati, grazie anche al sostegno del presidente Roberto Fico, un convegno che personalmente ha aperto in me una riflessione su due punti.
Innanzi tutto i testimoni di quegli eventi, sia quelli tragici sia quelli eroici e gloriosi, stanno scomparendo per motivi anagrafici. In secondo luogo quegli eventi per le attuali generazioni sono temporalmente lontanissimi, lo sono come per noi nati negli anni Cinquanta o Sessanta, lo era l’assalto delle truppe di Bava Beccaris ai manifestanti di Milano nel 1898. I due aspetti si intrecciano, perché la graduale scomparsa dalle nostre famiglie dei testimoni diretti che raccontavano le loro paure e i loro slanci in quegli anni 1943-1945, ricaccia nel cassetto dell’oblio non solo quegli eventi, ma anche i valori che li ispirarono.
Proprio per questo, disse De Maria in quell’intelligente convegno,
[…] serve dare più valore ai luoghi dove quella guerra si è combattuta; serve farli vivere e conoscere alle nuove generazioni: da Marzabotto a Fossoli, da Sant’Anna di Stazzema alla Risiera di San Sabba, a molti altri. Lì ci sono le basi della nostra democrazia e della nostra costituzione.
La permanenza fisica di questi luoghi può sopperire la graduale scomparsa dei testimoni e dei protagonisti; la memoria può essere tramandata non solo dalle persone ma anche dai luoghi dove esse vissero. Quelli citati da De Maria sono solo i luoghi più noti, ma in tutte le regioni d’Italia ci sono luoghi della memoria: la mia città, Roma, ne è ricca ed anzi in diversi quartieri stanno nascendo progetti per il recupero e la memoria degli episodi della Resistenza durante l’occupazione nazista. Ad esempio nel quartiere del Quadraro, che il 17 aprile 1944 subì un terribile rastrellamento da parte dei nazi-fascisti, c’è un progetto per rianimare l’identità del quartiere e dei suoi luoghi, attraverso la memoria di quei tragici avvenimenti.
Solo una decina di anni fa, andando a trovare la mia maestra delle elementari, ho scoperto che le suore francescane della Misericordia di via Poggio Moiano a Roma, dove ho studiato, nel 1944 ospitavano al terzo piano del loro monastero alcune famiglie ebree mentre il piano terra era stato requisito dai tedeschi che vi avevano allestito un ospedale militare. L’episodio è raccontato con dovizia di documenti nel libro di recente uscita Storia e memoria del quartiere Trieste di Aldo Stevanin e Luigi Zantedeschi, Palombi Editori. Le suore, per modestia, hanno sempre celato ai loro alunni il diploma di “Giusti delle Nazioni”, e tutt’ora probabilmente la maggior parte degli abitanti del quartiere ignora l’eroicità che quell’edificio rappresenta.
A queste riflessioni mi ha condotto la lettura di un romanzo assolutamente “sui generis” dedicato alla Resistenza, La Banda Gordon, di Marco Dell’Omo, edito da Nutrimenti, pubblicato a fine maggio. L’ormai anziano generale Pietro Vinci racconta all’ex attendente, con cui condivide la passione per il running, un episodio della propria adolescenza all’Aquila, tra il 1942 e il 1943. La passione per l’arrampicata e per i fumetti pubblicati dal settimanale L’Avventuroso, condussero lui e il suo amico Nico, assieme ad altri giovanissimi a formare un gruppo clandestino pronto ad unirsi alla Resistenza.
La banda di giovani aspiranti partigiani è spinta all’anelito per la libertà in maniera istintiva dalla passione per l’arrampicata, e dall’insofferenza per la censura che il regime impose sul fumetto americano Flash Gordon, che dall’oggi al domani scomparve dalle pagine dell’Avventuroso nel 1942, poiché quelle storie alludevano sempre più marcatamente al contrasto dei regimi totalitari diffusi in Europa. È molto più gratificante andare a fare arrampicata in una delle pareti del Gran Sasso vicino L’Aquila che partecipare alle inutili marce degli avanguardisti durante il sabato fascista.
Non c’è in Pietro e nei suoi amici una riflessione politica, come invece c’è nel Capitano, l’unico adulto che li guida, un uomo che ha conosciuto l’elaborazione del marxismo da un commilitone durante la Prima guerra mondiale. Forse Pietro non rispecchia l’immagine che noi abbiamo dei partigiani, sia per la sua giovanissima età che per le sue motivazioni, ma probabilmente la maggior parte dei combattenti della libertà – magari inquadrati da esponenti con una maggiore strutturazione politica e teorica – erano giovanissimi se non come Pietro, almeno ventenni, spinti da un istinto immediato per la libertà.

Nel romanzo di Dell’Omo i giovani protagonisti scoprono, assieme al gusto della libertà, anche la propria sessualità e poi, con improvvise sterzate della narrazione, gli aspetti drammatici della vita, come il pericolo e la morte. In tal senso è anche un romanzo di formazione, un Bildungsroman, come d’altra parte lo furono altri classici della letteratura della Resistenza, come “Il partigiano Johnny” di Beppe Fenoglio. Ma nella “Banda Gordon” il tono volutamente anti-eroico, toglie qualsiasi appiglio alla retorica. In questo senso è forse assai realistico, pur giocando sul contrasto tra realtà e apparenza. Il fantasma di Trockij, che appare lungo l’intero racconto al solo Capitano, interviene concretamente a risolvere alcune situazioni di imminente pericolo per la Banda Gordon. E Pietro per compiere l’operazione più pericolosa, lievita davvero, come faceva l’eremita il cui manoscritto è stato scoperto dal giovane protagonista, o si tratta di un sogno?
Ma veniamo ai luoghi del romanzo, che mi hanno spinto a questa divagazione. Anche da questo punto di vista la realtà si mescola all’immaginazione e alla magia.
Alcuni luoghi della città dell’Aquila protagonisti del racconto sono realmente esistenti, compreso il bordello di via Sallustio, come lo sono alcune pareti del Corno Piccolo, la direttissima del Corno Grande e altri luoghi del circondario che gli amanti dell’arrampicata riconosceranno. I lettori, anche se non conoscono l’Albergo di Campo Imperatore dove fu tenuto prigioniero Mussolini, lo vedranno spiccare nella descrizione fotografica che ne fa Dell’Omo.
Accanto a questi, vi sono luoghi immaginari, in particolare la parete di Castellaccio, dove i protagonisti si esercitano clandestinamente per perfezionare quelle tecniche di arrampicata utili in caso di azioni contro il regime. In quella parete si apre una grotta dove fino a pochi anni prima viveva un eremita poi entrato in un vicino convento, prima di lui vi avevano vissuto nel passato altri eremiti; non si tratta di un escamotage narrativo, poiché la presenza di eremiti che vivevano nelle grotte, è stata una realtà significativa nella storia e nella vita spirituale della città, con San Franco e una schiera di altri santi e beati che hanno segnato la vita anche civile della città e della conca aquilana. Insomma la parete di Castellaccio, con un passaggio di arrampicata che supera il sesto grado, non esiste nella realtà ma potrebbe esistere.
Il narratore, l’ex attendente dell’anziano generale Vinci, ad un certo punto ha dei dubbi sul racconto del generale:
Come un popolo ha bisogno di una sua mitologia, così noialtri, i comprimari, passiamo la vita a costruirci la nostra epica privata. Che cos’altro sta facendo il generale, seduto qui davanti a me? Più tardi gli chiederò qualcosa, ma non perché abbia dei dubbi. Sarà solo una forma di rispetto nei suoi confronti. È giusto che mostri il mio stupore, il mio scetticismo. Lui se lo aspetta. Potrà rimproverarmi per la mia mancanza di fantasia e di discernimento e si sentirà più leggero. Per ora lo lascio fare.
La verità di una storia personale, tuttavia, non sta nell’esattezza della ricostruzione storica e geografica, ma nella verità del vissuto, individuale e collettivo. Nei racconti familiari della Resistenza, molti di noi hanno potuto sentire indicati luoghi noti perché teatro di eventi finiti nei libri di storia. Ma in tali racconti vi sono anche luoghi epici solo per il familiare che ci narra l’episodio.
Nel mio caso – solo per fare un esempio – alcuni di questi luoghi sono storici e posso anche andare a visitarli, come il carcere nazista di via Tasso, a Roma (dove fu rinchiuso il fratello di mio padre), o la chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove i padri Filippini davano ospitalità ai gruppi cattolici di opposizione. Altri appartengono al solo lessico familiare, come le catacombe di Madonna del Riposo dove si rifugiò mio padre per sfuggire alla cattura dei nazisti.
Quelle catacombe, oggi inaccessibili, sono la parete di Castellaccio narrata da Dell’Omo, sono la grotta che contiene un manoscritto magari non di un eremita ma di uno di quei “comprimari” – come li definisce l’ex attendente del generale Vinci – che con le loro azioni piccole e grandi ci hanno assicurato libertà e pace. In tal senso la parete di Castellaccio e la grotta sono vere, perché nella memoria di decine di migliaia di famiglie ve ne sono altre.

Oltre ai luoghi della memoria più illustri, allora, sarebbe necessario costruire del cammini che mettano in connessione storica alcuni di questi luoghi, un po’ come oggi si stanno riscoprendo gli antichi cammini dei pellegrini del Medioevo (Francigena, Romea, ecc).
Alcuni già esistono, come il Cammino della linea gotica, ma altri dovrebbero nascere, anche nelle città: se penso a Roma mi vengono in mente, accanto, a posti universalmente noti (da via Rasella alle Fosse Ardeatine, da Porta San Paolo alla Stazione Tiburtina da dove partirono i vagoni piombati che deportarono gli ebrei romani) ve ne sono molti altri conosciuti da pochi storici o conosciuti solo localmente nei quartieri dove la Resistenza si oppose fieramente agli occupanti nazisti, o addirittura sconosciuti agli stessi abitanti del quartiere, come la Scuola delle Suore Francescane da me citata.
Dei cammini che aiuterebbero a consolidare l’identità stessa di molte nostre città e terre.

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