Prima o poi il coronavirus non farà più notizia, ma rimane innegabile che stiamo vivendo una crisi senza precedenti. Un giorno, tra un secolo magari, quando i più longevi di noi moriranno, i giornali commemoreranno l’evento come la scomparsa delle ultime persone sopravvissute alla pandemia che ha cambiato il mondo. In poche parole, la Storia vera e propria sta accadendo ora. Ho preparato parte della bozza di questo testo qui a Delhi nel tentativo di indagare sulle vite sconvolte dal virus di persone di diversa origine ed estrazione in questa megalopoli complessa. Ho incontrato alcuni di persona mantenendo le adeguate distanze, e con altri ho parlato in una serie di videochiamate. Ecco una selezione.
In una città senza speranza
Non aveva mai immaginato che gli sarebbe successo.
Chiamare i miei al villaggio per chiedere di mandarmi urgentemente un po’ di soldi mi ha riempito di tristezza… Alla mia età è il figlio che dovrebbe aiutare il padre, non il contrario.
Ma le cose si sono ribaltate per la maggior parte di noi, e purtroppo Anil Kumar Shah non è un’eccezione.
Parlando in una videochiamata su WhatsApp, questo giardiniere di Gurgaon, nella Greater Delhi Region, è ancora incredulo.
Ho lasciato il villaggio per cercare una vita migliore nella grande città, eppure devo ancora dipendere da mio padre.
Suo padre ha poco più di settant’anni e coltiva un piccolo terreno nel distretto di Motihari, una zona povera nel poverissimo stato del Bihar. Shah fa del suo meglio per risparmiare, ma praticamente tutto quello che guadagna serve a sfamare la sua famiglia nella cosiddetta Millenium City. Vive con sua moglie Vibha Devi, e i figli Ayush e Aryan in un monolocale a Indira Colony.
Shah, che non ha ancora trent’anni, s’occupa dei giardini di una mezza dozzina di residenze nel quartiere benestante di Sushant Lok. Ma da quando è iniziato il lockdown per la pandemia non ha potuto lavorare e ormai è passato più di un mese. Ora che le misure restrittive si sono allentate, ha potuto uscire e tornare al suo lavoro.
Il mese in cui ha dovuto rimanere a casa è stato traumatico. “Abbiamo finito i soldi”, mi racconta. Aveva pensato di tornare al villaggio, ma sua moglie l’aveva dissuaso. Non c’erano treni né autobus e i trasporti informali erano troppo rischiosi per i bambini. Alla fine, Shah si era visto costretto a chiedere aiuto a suo padre, che gli aveva inviato cinquemila rupie, circa sessanta euro, tra mille complicazioni i cui dettagli si sono persi nella videochiamata.
C’era un altro motivo per cui Shah era rimasto a Delhi invece di intraprendere il lungo viaggio verso casa. Al telefono, suo padre l’aveva informato che chi era tornato aveva dovuto rimanere in quarantena per due settimane nella scuola del villaggio. “Chissà cosa avremmo mangiato, o se ci avrebbero dato da mangiare del tutto. La nostra regione è molto povera, per quello ci siamo trasferiti a cercare lavoro così lontano.”
E nei momenti di crisi si ha bisogno dell’affetto e del tipo di rifugio che solo la casa di famiglia può dare. Shah abita nella regione di Delhi da quasi dieci anni ed è casa per lui, ma la città lo ha deluso. Dice di aver seguito le notizie sul triste destino dei lavoratori a giornata rimasti bloccati, senza occupazione né cibo nelle città dove abitavano. “La città non è nostra.”
Anche l’appartamento a Indira Colony è un peso. “Il proprietario ci chiede l’affitto pieno, cinquemila rupie.”
Shah sta considerando molto seriamente l’idea di tornare a vivere al villaggio con la sua famiglia quando le restrizioni verranno tolte e i treni cominceranno a funzionare a piena capacità come prima.

Il risciò a pedali
Tutti prima o poi si sono confrontati con i danni che la pandemia ha provocato nella loro vita. In questo caso, il conducente di risciò a pedali Rajkumar ha riassunto la sua situazione in due parole hindi – “Phase Gaye”, sono rimasto bloccato.
Rajkumar, che ha meno di trent’anni, ha appena lasciato un passeggero in un quartiere di Delhi piuttosto alla moda.
Era un sawari, un cliente locale… Non posso stare sulla strada principale, ma riesco a passare dai vicoli.” Dice che i poliziotti lo lasciano operare in zona ma “insistono per farmi indossare la mascherina.
E Rajkumar infatti l’indossa.
Una brava persona stava distribuendo riso e lenticchie a noi senzatetto un po’ di sere fa, e mi ha dato una maschera oltre al cibo.
Abita con altri uomini su un marciapiedi, non lontano dal quartiere benestante dove lavora. Questo pomeriggio, le case sulla strada che costeggia il parco sono avvolte in un piacevole silenzio postprandiale. Tutte le porte e le finestre sono chiuse, e da un’appartamento arriva il ronzio di un condizionatore.
Rajkumar mi racconta che, come tanti, non è di Delhi. “Questa è solo la città dove lavoro.” Viene da un villaggio nello Shahjahanpur, in Uttar Pradesh. “Mia moglie e i miei due figli vivono là con i miei genitori.” Di solito gli manda soldi ogni due settimane ma non ha potuto farlo nelle ultime tre, da quando è iniziato il lockdown tre settimane fa.
Sono bloccato… voglio andare a casa ma non posso.
Prende una bottiglia d’acqua da sotto il sedile passeggeri, e una saponetta dalla tasca, e si mette a lavarsi le mani.
Un passeggero mi ha dato il sapone qualche giorno fa, e mi ha detto di lavarmi le mani molte volte al giorno.
E poi si mette a posto la maschera sul viso con fare solenne, la sposta sul lato destro del viso, poi sul sinistro, la tira sopra il naso, poi l’abbassa, e poi la lega bene dietro la testa.
Quando sta per rimettersi a pedalare, una finestra s’apre da una casa vicino e spunta il viso di una donna. “Bhayya, fratello, peene ka paani, vuoi bere dell’acqua?” chiede in un hindi zoppicante. Rajkumar congiunge le mani e scrolla il capo, per dire che non ha sete, ma sembra toccato, forse commosso da quel gesto inaspettato di cameratismo.

Il sorriso di Sudama
La prima cosa che noti in lui è il sorriso. O perlomeno, così ti viene da pensare se lo vedi sullo schermo di un cellulare. Sudama e io parliamo in una videochiamata WhatsApp.
Il suo vero nome è Ajit Singh Nivediya, “ma tutti mi chiamato Sudama.” A poco più di quarant’anni, ha una piccola bottega di sartoria nel Settore 31 di Gurgaon nella Greater Delhi Region, che raggiunge ogni giorno in bicicletta dalla sua stanza nella Sheetala Colony.
Ovviamente in questi giorni è costretto a casa. La città è in pieno lockdown.
Ci sono così tanti problemi adesso – mormora Sudama. – Non guadagno più niente, e gran parte dei negozi dove compravo da mangiare sono chiusi o hanno alzato i prezzi…
Alza gli occhi al cielo e mi regala uno dei suoi sorrisi radiosi dallo schermo del cellulare.
Prima Sudama lavorava in “campo medico”, e aveva una carriera promettente, mi dice. Il futuro sembrava roseo per lui, sua moglie Saroj e i loro tre figli. Ma poi il figlio più piccolo, Abhinav, era morto a un anno per “una specie di febbre cerebrale.” Sua moglie non aveva retto il dolore ed era mancata poco tempo dopo, lasciandolo solo con due figlie.
Distrutto, Sudama si era visto costretto ad abbandonare il suo lavoro e aveva deciso di riaprire la bottega di sartoria che era stata di suo padre “perché mi dava orari abbastanza flessibili per occuparmi delle bambine.”
E a quanto pare è proprio un bravo papà e mi presenta subito le sue figlie al telefono. La famigliola si è riunita fuori dalla casa “perché dentro internet è molto lento.” Sembrano entrambe radiose come il loro papa mentre mi salutano con la mano. Harshita, quindici anni, vuole diventare ingegnere. Sonakshi ha due anni in meno e sogna di fare il medico. Le ragazze erano iscritte in una scuola privata “ma poi era troppo costosa e le ho trasferite in una scuola pubblica.”
Sudama non è sempre in grado di aiutare le sue figlie con gli studi (“ma gli insegnanti sono molto comprensivi”) però fa tutti i lavori di casa, “così hanno tutto il tempo per studiare e giocare.” Cucina sempre lui, anche perché non vuole che le sue figlie stiano vicino alla bombola del gas, che potrebbe essere pericolosa. “Ieri sera ho fatto dal chawal, riso e lenticchie.”
Non posso fare a meno di chiedergli, dopo tutte le tragedie che ha visto nella vita, come può avere sempre un sorriso così generoso?
Il sarto rimane in silenzio per un attimo a riflettere e poi dice:
È andata come è andata… sono felice di quello che ho, le mie figlie.

Tre uomini mascherati
Passano davvero poche macchine, e i guidatori hanno il viso nascosto dalla mascherine. Un chiosco del latte Mother Dairy è mezzo chiuso. I cerchi gialli davanti al chiosco, disegnati qualche settimana fa per mantenere la distanza di sicurezza tra i clienti, sono ormai parte del paesaggio, come se fossero sempre stati lì. Dietro il chiosco, un venditore di verdure aspetta i clienti sotto un albero di peepal. La maschera si è sfilata, lasciandogli il viso esposto agli elementi.
È domenica pomeriggio in una zona di Delhi benestante. A un certo punto arrivano tre ragazzi. Camminano lenti sul marciapiedi. Due hanno la mascherina, il terzo un tessuto viola avvolto intorno al viso.
“Siamo falegnami,” dice il ragazzo con la mascherina. È la prima volta dopo settimane che vanno al lavoro.
Abbiamo saputo che ora si può uscire dal tramonto all’alba per andare al lavoro,
dice il ragazzo con il tessuto viola.
Considerandosi già fortunati di avere un lavoro, stanno andando al cantiere per “dei lavori di manutenzione”, dice il giovane con la mascherina nera.
L’uomo con il viso ricoperto dal tessuto impugna la cassetta con gli strumenti di lavoro di tutti e tre.
Non sembrano andare di fretta e accettano di fermarsi per una chiacchierata.
Awadh Raj (mascherina nera), Sanjeev (tessuto viola) e Lakhan (maschera verde) abitano insieme in una stanza nei paraggi. Hanno più o meno vent’anni e vengono tutti dal poverissimo distretto di Satna nel Madhya Pradesh, ma non dallo stesso villaggio.
“Delhi è piena di braccianti dal Madhya Pradesh” dice il ragazzo in viola. Si erano incontrati in città un anno prima, erano diventati amici e avevano deciso di condividere una stanza.
Prima andavamo a dormire in cantiere, ovunque ci mandasse l’impresa per cui lavoravamo.
Ora che sono freelance, hanno stabilito una rete di contatti che permette loro di trovare lavoro senza intermediari.
Lo scorso mese è stato una sfida continua, ovviamente.
Eravamo bloccati in quella stanza, dice Awadh Raj.
Non riuscivamo a guadagnare nemmeno un centesimo, non potevamo mandare i soldi alle nostre famiglie al villaggio… per sopravvivere abbiamo usato tutto quello che avevamo nel portafoglio.
Non hanno molte speranze per il futuro. “Quando i treni ricominceranno a viaggiare me ne torno al villaggio”, dice Lakhan, il più giovane.
Awadh Raj fissa il viso mascherato del suo amico, e dai suoi occhi si capisce che sta riflettendo. Appoggiandosi al corrimano di metallo lungo il marciapiedi, racconta che sua moglie lo chiama ogni due o tre giorni, e insiste perché rimanga in città.
Dice che si sta prendendo cura dei bambini e dei miei genitori, e che non devo preoccuparmi.
Sua moglie teme che non guadagnerà nulla se ritorna al villaggio adesso. La famiglia ha un piccolissimo appezzamento che dà un raccolto scarso ogni tanto,
ma non c’è acqua per l’agricoltura e i paesi vicini non hanno abbastanza fabbriche o cantieri per assicurarsi dei lavori continuativi.
I tre giovani rimangono immobili e in silenzio per un po’. All’improvviso il cielo si scurisce, il vento danza e sibila e l’aria diventa gialla di polvere. I fiori rosa di una buganvillea cadono dai rami come zampilli di una fontana. Gli uomini abbassano la testa, forse per proteggersi gli occhi, e si allontanano in fretta.

Strade senza vita
Le foglie sempre più gialle hanno ricoperto il terreno polveroso, trasformandolo in un soffice materasso giallo dorato. Una grande cassa di legno contro una parete di mattoni rossi è coperta di due strati di telo di plastica, sui cui sono cadute le foglie. Tutt’intorno alla plastica ci sono grossi sassi per evitare che voli via se si alza il vento.
La cassa di legno è chiusa con un lucchetto enorme. Accanto c’è una macchina da cucina a pedali marca Gold, ricoperta anch’essa con un telo di plastica punteggiato di foglie.
Altre tracce di una presenza passata includono un ritratto in cornice di Lakshmi e Ganesh, una confezione di incenso, una bottiglia di plastica vuota e una sedia di metallo nero.
È pomeriggio a south Delhi e non c’è nessuno in giro.
È evidentemente la ‘bottega’ su strada di un sarto che potrebbe chiamarsi Dinesh, perché è questo il nome tracciato sul muro vicino con il gesso bianco, insieme a un numero di cellulare.
Delhi è in lockdown da settimane, le folle brulicanti sono scomparse, le strade rimangono tutto il giorno senza vita. Eppure, quando mi avventuro nel mondo e vado a comprare della verdura, se osservo i marciapiedi vedo residui della vita di strada, congelati come muti reperti, un po’ come le persone e le case di Pompei quando il vulcano all’improvviso divorò la città, distruggendo tutto in un istante eppure preservando intatto il suo mondo.
Questa viuzza di south Delhi è piena delle tracce di bancarelle di fiorai, kulcha wallas, baracchini che vendono il tè. Ogni venditore ha messo il proprio nome e numero di cellulare, dipinto su un asse o tracciato sul muro più vicino. È incredibile come qualcosa di improvvisato come una bancarella di strada diventi così visibile durante un lockdown completo.
Una delle immagini più commoventi in quel mercatino fantasma è la bancarella di un fioraio, dove ho visto un mazzo ancora sotto il tavolo, i fiori del tutto secchi. Dove sarà il fioraio? Nella sua casa a Delhi oppure è rimasto bloccato, senza il modo di tornare dalla sua famiglia in qualche stato lontano? Avrà abbastanza soldi per sopravvivere giorno per giorno?
E che ne è stato del sarto Dinesh?
Provo a chiamare il numero di cellulare sul muro ma non ho nessuna risposta.
Forse la pandemia finirà presto e le strade della città ritorneranno alla vita. E Dines, sarà di nuovo al suo posto. Spazzerà via le foglie secche, toglierà la plastica dalla macchina da cucire, aprirà la cassa e tornerà alla vita di prima.
Per ora c’è solo silenzio.

Donne al lavoro
La tarda mattinata è ancora fresca, come se fosse febbraio e non aprile, e l’aria è satura del canto degli uccelli. Un koel non smette di fischiare e la strada è ricoperta di foglie secche che probabilmente sono cadute il giorno prima.
Due donne, ciascuna con una lunga scopa in mano, stanno silenziosamente spazzando le foglie riunendole in piccoli cumuli.
Anche se una buona parte della popolazione di Delhi è ancora costretta all’isolamento, Santosh e Lajwanti continuano a lavorare, come se niente fosse cambiato. Più o meno.
“Veniamo al lavoro a piedi”, dice Santosh, sottolineando il cambiamento più significativo nella loro vita quotidiana.
Le donne mascherate sono dipendenti del South Delhi Municipal Council, e lavorano come spazzine da anni. Entrambe hanno l’uniforme – salwar e kurta blu.
Lajwanti spiega che non ci sono autobus al mattino presto e così devono venire a piedi da casa alla tranquilla zona residenziale di south Delhi a cui sono state assegnate.
“Vengo da Badarpur Khadar,” dice. Santosh viene da Mehrauli. Ci mettono più o meno due ore ad arrivare qui.
Santosh si sveglia alle 5.30. “Mi lavo, mi preparo delle paratha, pane e burro e chai” e dopo essersi un po’ rinvigorita con quella colazione, parte per la sua lunga camminata.
Il rituale mattutino di Lajwanti non è diverso. “Bisogna fare molti sacrifici per guadagnarsi da vivere”, dice.
L’altra donna annuisce.
La strada è vuota. Le finestre delle palazzine tutt’intorno sono chiuse.
“A volte la gente ci offre dell’acqua”, dice Lajwanti, aggiungendo, “ma in generale non ci vedono nemmeno.”
Secondo Santosh “la gente pensa che potremmo essere infette, e quindi ha paura di venirci vicino.”
Dopodiché ritornano a spazzare le foglie in strada.
All’improvviso una finestra in una casa vicina si apre, e un uomo anziano in kurta pajama bianco sbircia fuori, poi richiude subito.
Lajwanti e Santosh sperano di finire di lavorare nel pomeriggio. Poi torneranno a casa a piedi. “Di solito arriviamo verso le tre, tre e mezza” dice Santosh.
E casa, si godranno un lungo, meritato riposo.

Maschere e fiori
L’economia mondiale è in ginocchio, un numero incredibile di persone in tutto il mondo ha perso il lavoro, i numeri delle vittime sono spaventosi. La pandemia sta trasformando il mondo, e non si sa quando questo incubo finirà. La vita di tutti è completamente stravolta.
Ma una cosa è rimasta intatta. L’estate è scoppiata, e il laburno è tornato, come un’habitué, con i suoi fiori di un giallo vivace, prepotente. Come se i suoi rami fioriti cercassero di sussurrare, in quest’epoca catastrofica, “non potete eliminarci.”
Solo ieri mattina un piccolo laburno è stato avvistato in un quartiere di south Delhi, i rami carichi di fiori giallo dorati. E in una coincidenza così meravigliosa da sembrare irreale, un giovane uomo è stato visto sotto l’albero con una mascherina della stessa identica sfumatura di giallo.
Per tutto l’anno gli alberi di laburno non si notano, ma nei mesi estivi, quando il caldo diventa insopportabile, i rami si ricoprono di gemme lucenti e i fiori continuano a cadere a terra in una specie di cascata magica e perenne.
Il giorno in cui il ragazzo con la mascherina gialla è stavo visto mentre ammirava il laburno ho anche notato una donna con la mascherina rossa che ammirava i fiori rossi di un gulmohar, detto anche albero di fuoco (coincidenza!). Anche quegli alberi sono in fiore e la loro bellezza fa bene al cuore. E proprio come il laburno, il gulmohar cresce in varie parti della città, come tante piccoli fuochi che spuntano qua e là. La donna ha fissato i fiori rossi a lungo, mentre il sole si nascondeva dietro le foglie, il bagliore accecante circoscritto come una lampada da lettura. Era difficile distinguere l’espressione della donna perché aveva la mascherina, ma dev’essere stata colpita da tutta quella bellezza perché aveva preso il cellulare e scattato una foto prima di andare verso il piccolo supermercato di fronte.
Alcuni degli alberi in fiore di Delhi hanno colori così brillanti che i passanti che li notano forse dimenticano per un attimo i loro problemi quotidiani, oltre alla pandemia, e questo potrebbe essere la vittoria di una battaglia, se non della guerra.
Traduzione di Gioia Guerzoni
Questo è il quinto e ultimo di cinque reportage (simbolicamente uno per continente) sui tempi del coronavirus commissionati dal Center for the Humanities and Social Change di Ca’ Foscari a importanti scrittori internazionali. Il primo della serie è Il mondo alla rovescia. Reportage dal Kenya di Stanley Gazemba. Il secondo è Il lockdown nella libera Repubblica del Pigneto di Igiaba Scego. Il terzo è La vita in uno schermo di Eli Gottlieb. Il quarto: Virus in una terra bruciata di Ellen Van Neerven.

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