I casi della vita. Col mondo ancora in pandemia, ricominciano a piovere statue. Usanza antica, tornata d’attualità in seguito all’odioso omicidio del povero George Floyd, a sua volta destinato a richiamare in causa il razzismo e il colonialismo che si staglia alle sue moderne origini. Decapitare Cristoforo Colombo, dunque, che almeno nelle Americhe vanta una sua incontestabile primogenitura. Peccato che il navigatore non abbia mai fatto ritorno in Europa, morto di stenti a Cuba, prigioniero di Atahualpa, valoroso guerriero Inca che, rimesse in mare le caravelle, intraprenderà un viaggio di ritorno destinato a cambiare il corso della storia.
L’ingegnosa ucronia fa da filo conduttore al romanzo Civilizzazioni (La Nave di Teseo, traduzione di Anna Maria Lo Russo) di Laurent Binet, che già ci aveva deliziato non poco con La settima funzione del linguaggio, dove il giovane romanziere francese, di suo anche ricercatore e professore di letteratura, si permetteva più di una licenza nei riguardi dei mostri sacri della cultura transalpina di osservanza strutturalista, semiologica e psicoanalitica. Un romanzo che, di fatto, andava anch’esso abbattendo statue, sia pure con il garbo di una fantasiosa inventiva metaculturale in forma di detection. E ora il piacere di quest’altra lettura, immersa nell’universo di una storia controfattuale peraltro sorretta da una buona conoscenza storiografica e aperta a infinite nuove “riletture”.
Che Colombo sia morto in cattività ce lo dice lui stesso nei frammenti dei diari, che costituiscono la seconda parte del romanzo, giorno per giorno dal 3 agosto del 1492 ad una data imprecisata dei primi mesi dell’anno dopo, quando tutto è ormai compromesso:
Mi sento perduto e disfatto. Sino al presente, ho pianto per gli altri. Il cielo si muova a compassione e pianga la terra per me. […] Sono rimasto qua nelle Indie nel modo che ho detto: solo nella sofferenza, infermo, in attesa giorno dopo giorno della morte, assediato da selvaggi senza numero e crudelissimi e nostri mortali nemici, senza potermi accostare ai Santi Sacramenti e alla Santa Chiesa, che certo si perderà quest’anima se qui le capiterà di separarsi dal corpo.
Suo grande disappunto, in fondo, è il non poter tenere fede all’impegno di portare i tesori promessi ai Reali di Spagna, che l’avevano armato di tutto punto per l’impresa. E fors’anche qualche dubbio sull’Onnipotente, che magari finirà per perdersi la sua anima. Ma in precedenza, tra le pieghe di un’avventura e l’altra, il rammarico per certe nefandezze perpetrate dalla soldataglia del suo equipaggio, specie nei riguardi di quelle ragazze che per cultura e abitudine se ne andavano in giro nude per la foresta, senza per questo “offrirsi” alla mercé carnale del primo venuto. Chiamali peccatucci…
Le poche pagine dei diari “apocrifi”, come e dove rinvenuti non sarà mai dato di sapere, sono precedute dalla scoperta che qualche altro europeo, prima di Colombo, era giunto in quelle terre: i biondi norreni della Groenlandia, dediti al culto di Thor (tuono e tempesta) ma in cerca di sole, sempre più a sud, dove ne troveranno in quantità, scoprendo che esattamente a quel disco provvidenziale che riscalda il mondo sono rivolte le preghiere dei nativi: un dio ben visibile e quasi palpabile, cui la terra – che gli gira intorno (particolare non proprio trascurabile per quei tempi ancora tolemaici: Copernico ci arriva in quegli anni ma Galileo andrà a processo ancora un secolo dopo, nel 1633) – deve molto, forse tutto.
E siccome si trovano bene, i nordici, ci restano, integrandosi fra una guerricciola e l’altra con gli indigeni e dando vita ad un meticciato in fondo riuscito. Mica le cose devono sempre andar male, a questo mondo.

Il cuore vero del romanzo è però al terzo capitolo, dove – come si sarà intuito – il prode Atahualpa sbarca a Lisbona, trova il modo di accordarsi con il re del Portogallo, proseguendo da lì per la Spagna, ancora scossa dalla Reconquista cristiana, con moriscos e conversos ridotti in schiavitù, quando non più severamente puniti. Nella Spagna di Carlo V d’Asburgo, nato tra parentesi in Belgio senza conoscere una parola di castigliano, scopre che guerre e oppressioni sono all’ordine del giorno nel “nuovo mondo”, tutti contro tutti benché accomunati da una medesima ossessione religiosa per quel “dio inchiodato” di cui già aveva sentito parlare, motivo di pubbliche esecuzioni nelle piazze e di rivalità dinastiche nei palazzi, di guerre tra paesi diversi e di “riforme” anche sanguinose per dirimere diatribe dottrinali che francamente gli sfuggono.
Già questa storia del dio padre che manda il dio figlio a farsi inchiodare per redimere il mondo gli sembrava un po’ bislacca. Per non dire poi della madre che partorisce vergine o di quel terzo incomodo, chiamato “spirito santo”, che non s’è capito bene che cosa ci stia a fare. Curioso infine, sul versante pratico, che questi ferventi adoratori dell’inchiodato parlino tanto di carità per poi arricchirsi e gozzovigliare a più non posso, magari affamando i contadini. O che vietino la poligamia per riempirsi impunemente il letto di amanti. Vuoi mettere il Sole, ben visibile a tutti, chiaro e pulito, tutt’al più adombrato talvolta dalle nuvole quando i tuoni e le tempeste di Thor reclamano la loro parte, ma sempre destinato a tornare e a dominare, pressoché per ogni dì di ogni singolo raccolto (che poi sarebbe un anno).
Sia come sia, Atahualpa comprende presto che i margini di manovra per impossessarsi di questo nuovo mondo così irascibile, corrotto e rissoso sono davvero ampi. E s’adegua perfettamente al gioco, difensore degli oppressi ma ben capace di stringere alleanze anche con il peggiore dei suoi nemici quando le circostanze, magari occasionalmente, lo rendono amico.
Non sa cosa sia la politica ma se ne fa ottimo interprete, tanto più che grazie ad un conoscente fiorentino, il giovane Lorenzino di una casata in vista di quella città italiana, riesce a mettere gli occhi sugli scritti di un autore che sembra sapere perfettamente come vanno le cose, un tale di nome Niccolò Machiavelli. E parafrasando il pensiero di un rivoluzionario di là da venire, l’Inca realizza che quando la confusione sotto il cielo si fa massima, beh quello è il momento giusto per agire…

La controepopea di Civilizzazioni si fa appassionante cavalcata tra fatti e personaggi storici autentici del Cinquecento europeo, secolo chiave anche per quel che verrà dopo. Non staremo a dirvi fin dove si spingeranno Atahualpa e la sua capacità di conquista per non togliervi il piacere della lettura, che si chiude al quarto e ultimo capitolo con un gustoso epilogo di “saggezza” avente per protagonisti nientemeno che Miguel de Cervantes, il pittore El Greco e un filosofo che vive ritirato dalle parti di Bordeaux, con una giovane e amabile moglie, tollerante e lungimirante, che risponde al nome di Michel de Montaigne. Il suo accorto relativismo diviene anche la cifra con cui leggere ed apprezzare la controstoria di Binet.
Ad un passo dalla paradossale conclusione che non sapremo mai cosa davvero ci siamo persi. E utile magari per riempire scenari anche contemporanei di cui talvolta ci sfuggono i nessi. Capita di continuo, del resto.


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