A 79 anni – li avrebbe computi il prossimo 25 agosto – è morto Mariolino Corso. Una vita in nerazzurro.
Mariolino Corso è stato molto più di un calciatore. È stato soprattutto un esteta, un narratore di gesta epiche, un aedo pallonaro che cesellava magie e intanto le raccontava al mondo, attraverso il suo sguardo profondo, la sua testimonianza e la sua classe cristallina che riusciva nell’impresa di sposarsi con i metodi rudi di un tecnico tutto movimiento che sulla carta sarebbe dovuto essere un suo acerrimo nemico. E lo era, altroché se lo era! Helenio Herrera, l’hombre vertical che divenne mago, chiamato da Moratti a traghettare l’Inter verso la gloria, detestava abbastanza platealmente quel campione apparentemente immobile, l’opposto di Riva, non a caso detestato anche dal padanista Brera, innamorato di Rombo di tuono e nemico giurato di quelli che aveva definito sprezzantemente “abatini”, pur essendo costretto a riconoscerne a denti stretti la grandezza.
Corso apparteneva alla generazione che non aveva conosciuto da vicino il fascismo ma si ricordava eccome le difficoltà del dopoguerra, e quella memoria collettiva accomunava tanto i campioni come lui quanto i gregari. Era il fuoriclasse di un calcio più bello, più umano, più solidale, in cui i ruoli erano ben definiti ma gli stipendi non erano ancora esagerati e volti a creare una differenza di classe anche in un mondo comunque benestante, almeno al livello della Serie A.
È morto a 78 anni Mario Corso, campione della grande Inter degli anni '60. Mancino estroso e fuori dagli schemi, è considerato l'inventore delle punizioni a foglia morta. #Tg3 pic.twitter.com/1UWBg7InGe
— Tg3 (@Tg3web) June 20, 2020
Mariolino Corso non era certo un giocatore dinamico, non era un tuttocampista, non aveva i crismi dell’olandese né si sarebbe mai potuto conciliare con gli ideali del calcio totale e, successivamente, del sacchismo. Era il fuoriclasse di un’epoca precedente, di una stagione in bianco e nero, dei tempi del folle Sivori, in onore del quale giocava con i calzettoni abbassati, dei dribbling, delle finte e dell’inventiva tutta ricami ed esaltazione estetica che farebbe venire un travaso di bile ai pragmatici di oggi e che non estasiava certo un cinico come Herrera.
Eppure, il petroliere Moratti, imprenditore gentile in un’Italia speranzosa, ne era talmente innamorato che tutte le richieste del Mago di disfarsene venivano prontamente accantonate, fino a quando a pagare pegno non fu proprio lui, il condottiero di tante battaglie vittoriose che aveva ormai perso il tocco magico e si avviava verso un sia pur lento declino. Corso, invece, pur non avendo mai raccolto in Nazionale i frutti della sua classe, osteggiato com’era da un altro maniaco di schemi e tattiche sui generis come Mondino Fabbri, visse comunque anni di gloria in nerazzurro, per concludere poi la carriera al Genoa, ormai carico di trionfi e pronto per affrontare il tramonto senza eccessivi traumi.

La sua arte era il calcio da fermo, la punizione con tre dita, la foglia morta che s’insaccava beffarda e non lasciava scampo ai portieri. Ogni maestro successivo s’è dovuto, per forza di cose, confrontare con lui, aggiungendovi un tocco personale ma senza mai potersi discostarsi del tutto dell’inventore di un genere che è diventato, com’era inevitabile che fosse, letteratura. Il compianto Berselli, in quel tiro mancino, ha ravvisato l’alfa e l’omega di cinquant’anni di storia repubblicana. Corso, infatti, è durato nel tempo, restando come simbolo e pietra di paragone. E oggi che se n’è andato, sappiamo che un pallone, in qualche angolo sperduto del mondo, sta per insaccarsi là dove nessuno può arrivare, beffardo come solo la poesia scritta con i piedi è in grado di essere.


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