La tragica uccisione di George Floyd da parte della polizia Minneapolis, oltre a generare manifestazioni di protesta che ancora si susseguono in molte parti del globo, ha riacceso il dibattito sul significato dei simboli, specie, dei monumenti. In particolare sono diventate oggetto di sdegno le statue dedicate a personaggi storici legati in vario modo al razzismo e alla schiavitù. Tra questi rientrano generali e presidenti sudisti (Robert E. Lee e Jefferson Davis), mercanti di schiavi inglesi (Edward Colston), sovrani (Leopoldo II del Belgio), uomini politici (Winston Churchill), navigatori (Cristoforo Colombo) e altri, tra cui persino Gandhi, icona del pacifismo anticolonialista ma accusato di favorire la segregazione razziale nel Sudafrica in cui visse per circa vent’anni (le sue statue erano già state vandalizzate nello stesso Sudafrica, ma recentemente sono state danneggiate anche di fronte alle ambasciate indiane di Washington e di Londra).
Il presupposto dei manifestanti è che tali personaggi furono in vario modo colpevoli di un colonialismo aggressivo e schiavista che ha riverberi anche nella società attuale: una società in cui il razzismo è ancora diffuso e in cui gli afro-americani – ma anche altre minoranze etniche non bianche – vivono in una situazione di subalternità.
Cominciate negli Stati Uniti, tali manifestazioni hanno avuto una rapidissima diffusione e – pur con sfumature diverse – hanno riguardato numerosi paesi. Secondo i fautori delle proteste, personaggi come quelli appena citati sono stati celebrati in maniera quasi eroica, mentre il fatto che si nasconda il loro coinvolgimento nella promozione dello schiavismo legittimerebbe l’attuale situazione. Se ormai la storiografia ha affermato senz’ombra di dubbio la tragedia legata alla tratta atlantica degli schiavi, i monumenti sono comunque rimasti in piedi.

Uno dei problemi è capire se i fautori dell’abbattimento colgano il bersaglio giusto, quello che può offrire benefici alla loro causa. Il “giusto” è ovviamente soggettivo, ma certamente sarebbe opportuno che riconquistasse una centralità la conoscenza della storia, che pur deve far fronte ai tentativi di marginalizzazione in atto nei curricula scolastici. Tale disciplina è votata non tanto a giudicare, quanto a comprendere il passato in modo da poterlo spiegare alle generazioni presenti e future. Essa, inoltre, fornisce gli strumenti per comprendere la complessità delle vicende umane. Di più: direi che ha addirittura il dovere di trasmettere tale complessità.
Il passato è certamente immutabile negli eventi, ma non nell’interpretazione degli eventi stessi: tale interpretazione si può modificare sia grazie alle nuove ricerche sia al cambiamento dei valori della società. Il rischio, tuttavia, è quello di cadere nell’“ex-postismo”, ovvero nel giudicare gli uomini del passato (vicino o lontano) sapendo quali sono state le conseguenze delle loro azioni, senza tener conto degli strumenti, delle conoscenze e delle opzioni che essi avevano a disposizione ex ante.
Certamente la storiografia si evolve, va avanti. Ad esempio, sono ormai passati i tempi dell’eurocentrismo, mentre ha preso sempre più campo la storia globale, che considera anche il punto di vista di civiltà e culture diverse rispetto a quella che per secoli è stata egemone, ovvero quella europea. Inoltre fioriscono studi sulle minoranze (religiose, etniche, ecc.), così come quelli dedicati ai ceti subalterni: ciò ha permesso di modificare interpretazioni del passato che erano state fatte esclusivamente nell’ottica dei vincitori. Anche la terminologia è oggetto di dibattito: da qualche anno si discute ad esempio sullo stesso utilizzo della parola slave (schiavo), poiché alcuni sostengono che il termine de-umanizzi le persone, le quali quindi dovrebbero essere più appropriatamente definite enslaved persons.
Nel 1983 Eric Hobsbawm e Terence Ranger curarono The invention of the tradition (L’invenzione della tradizione): nell’introduzione al volume Hobsbawm discuteva su come, specie nei momenti difficili, le società tendano a inventarsi delle tradizioni riferendole, anche solo implicitamente, a un passato che diventa il presupposto stesso della legittimità della situazione presente. Nei regimi totalitari questo concetto è portato all’estremo: la storia viene in questo caso riscritta per consolidare le basi del potere, come ben ha messo in evidenza ad esempio George Orwell, sia nella Fattoria degli animali che in 1984 (celebre, in quest’ultima opera, è la citazione: “Chi controlla il passato […] controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato).
Negli Stati Uniti non sono una novità i movimenti che propugnano l’abbattimento delle statue dei confederati. Secondo un’accurata analisi del Southern Poverty Law Center, l’erezione di tali monumenti, pur cominciata immediatamente dopo la guerra civile, ebbe due picchi: uno, molto pronunciato, nel primo ventennio del XX secolo, quando in molti stati del Sud vigevano le Jim Crow Laws, che miravano a conservare la segregazione razziale (e le statue, che celebravano il passato schiavista, in qualche modo le legittimavano); l’altro, un po’ meno marcato, tra metà anni Cinquanta e metà anni Sessanta, per contrastare i movimenti per i diritti civili. Potremmo forse dire che tali monumenti siano da rimuovere non tanto (o non solo) perché rappresentano i generali più illustri che combatterono per difendere il sud schiavista, ma anche – e soprattutto – perché le statue furono messe in un periodo successivo, in cui, come detto, esse costituivano un’affermazione di forza, peraltro di istanze che erano state sconfitte nella guerra civile (anche se erano ancora ben presenti nella società).
La classe politica attuale è divisa: alcuni governatori e sindaci si sono mossi per accondiscendere alle richieste dei manifestanti e anche Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Rappresentanti, ha deciso che siano rimossi dal Campidoglio tutti i monumenti confederati. Dall’altro lato il presidente Trump, che di fronte a simili manifestazioni del 2017 si era detto “triste di vedere la storia e la cultura del nostro grande paese distrutti con la rimozione delle nostre bellissime statue e monumenti”, qualche giorno fa ha alzato i toni twittando come sia opportuno difendere le statue e “riprendete la vostra città ADESSO. Se non lo fate voi, lo farò io. Questo non è un gioco. Questi orrendi anarchici devono essere piegati IMMEDIATAMENTE. MUOVETEVI, FATE IN FRETTA!” (i maiuscoli “urlati” sono dello stesso Trump). Inoltre il presidente americano si è rifiutato anche solo di prendere in considerazione l’idea di cambiare i nomi di alcune basi militari, ancora intitolate a generali confederati.
Ma negli Stati Uniti è sotto accusa anche Cristoforo Colombo (1451-1506). Già tre anni fa, in occasione degli scontri di Charlottesville, ci eravamo soffermati sul “mito” del navigatore genovese: un mito sviluppatosi quasi tre secoli dopo il celebre viaggio del 1492, all’indomani dell’indipendenza delle tredici colonie. Secondo chi lo vuole rimuovere dalla memoria, Colombo sarebbe l’iniziatore di una colonizzazione schiavista. È però utile riflettere su alcuni punti.
Innanzitutto, se di Colombo sono noti atteggiamenti inaccettabili per i canoni attuali (torneremo fra poco su questo aspetto), essi si rivolsero in primis nei confronti dei nativi americani, piuttosto che di coloro che erano deportati dall’Africa; e comunque egli non postulò mai un sistematico sterminio della popolazione locale. Inoltre Colombo, che viaggiava sotto bandiera spagnola, non toccò alcuna terra appartenente agli attuali Stati Uniti. Secondo i dati del ricco Trans-Atlantic Slave Trade database, circa dodici milioni e mezzo di africani furono imbarcati verso le Americhe in poco più di 350 anni. Di questi, meno di undici milioni giunsero a destinazione (con una mortalità in viaggio davvero impressionante): il 45,5 per cento arrivò nel Brasile portoghese, il 21,7 per cento nei Caraibi britannici, il 12,1 per cento nell’America spagnola, il 10,5 per cento nei Caraibi francesi, il 4,2 per cento in quelli olandesi e “solo” il 3,6 per cento nel Nord-America continentale (una tratta che peraltro iniziò in maniera consistente solo a partire da metà Seicento). Quando Colombo morì, nel 1506, poche centinaia di schiavi avevano compiuto il viaggio oceanico. Da notare, inoltre, che in Africa solo di rado gli europei ottenevano schiavi facendo razzie, ma in genere li acquistavano da capi tribù o sovrani locali (che a loro volta avevano ridotto in schiavitù i propri prigionieri).

L’inizio del commercio europeo di schiavi sub-sahariani può esser fatto risalire all’epoca dei viaggi portoghesi di esplorazione lungo la costa occidentale africana, poco prima di metà Quattrocento: un’epoca in cui persino il papa, Niccolò V, con la bolla Dum Diversas del 1452, legittimava (se non addirittura incoraggiava) la riduzione in schiavitù delle popolazioni incontrate (“illorumque personas in perpetuam servitutem redigendi”). La tratta atlantica dei secoli successivi, promossa da varie potenze europee che avevano bisogno di manodopera per le piantagioni, fu accettata e anzi promossa da tutti i sovrani dei paesi coinvolti. Se si condanna Colombo, sarebbe poi assai difficile salvare anche un solo sovrano di antico regime (e di epoche più recenti).
Una delle questioni fondamentali è se sia legittimo giudicare gli uomini del passato con i canoni odierni, o se l’appellativo “uomini del loro tempo” basti a giustificarne le azioni. Nel caso specifico, occorrerebbe ad esempio conoscere se ideali contrari allo schiavismo fossero abbastanza diffusi da porre i personaggi oggetto di critica nella condizione di scegliere quale atteggiamento adottare. Fu solo nel 1511 (un momento comunque successivo alla morte di Colombo) che Antonio de Montesinos, padre domenicano di stanza a Hispaniola (l’isola che comprende le odierne Haiti e Repubblica Dominicana), pronunciò un rivoluzionario sermone in difesa degli indios. Successivamente altri religiosi – soprattutto domenicani – si espressero in favore delle popolazioni indigene dell’America insulare e centrale che gli spagnoli stavano sfruttando: il più celebre è Bartolomé de Las Casas, le cui argomentazioni stimolarono l’emanazione, nel 1542, delle Leyes Nuevas, con cui si migliorava il trattamento degli indigeni.
Ad ogni modo, nella fase iniziale dell’esplorazione e della conquista da parte degli europei, in alcune delle argomentazioni di quella ristretta minoranza intellettuale che difendeva le popolazioni locali si prevedeva che esse non potessero essere schiavizzate solo in quanto sudditi dell’impero o in quanto cristiani (convertiti, anche forzatamente); non si criticava la schiavitù in generale. Infine bisogna tener conto che questi dibattiti riguardavano gli indigeni del continente americano e non consideravano i neri africani.
Nel corso dei suoi primi anni americani, Las Casas aveva a sua volta avuto indios a lavorare nelle miniere che possedeva. Si aggiunge qui un’altra questione: che peso diamo alla redenzione? Il Las Casas difensore degli indios può essere condannato per le sue azioni degli anni giovanili? Più in generale questa riflessione vale per tutti, anche per molti santi. Allora, può davvero Colombo essere considerato il promotore/iniziatore e quindi il simbolo del sistema di discriminazione attuale?
Diverso è il discorso dei confederati, vissuti in un periodo in cui il dibattito sulla liceità della schiavitù era da molto tempo in atto e le istanze antischiaviste erano preponderanti. Peraltro, se anche accettassimo il senso comune odierno come metro di giudizio, dovremmo stare attenti. Un’indagine condotta dal Marist College Institute for Public Opinion in occasione delle proteste del 2017 ha mostrato che il 62 per cento degli americani considerava che le statue confederate dovessero rimanere come simbolo storico, mentre solo il 27 per cento riteneva opportuno rimuoverle in quanto offensive per qualcuno; sorprendentemente era divisa anche la comunità afro-americana, con un 44 per cento in favore della conservazione e un quaranta per cento per la rimozione (e un sedici per cento di incerti).
Come detto, dagli Stati Uniti le manifestazioni di protesta si sono diffuse anche in altri paesi, specialmente quelli con un passato coloniale. In Belgio si discute da tempo di Leopoldo II (1835-1909), il sovrano ispiratore della colonizzazione del Congo (ex Congo belga, ora Repubblica democratica del Congo), che già in vita fu molto criticato in quanto considerava il territorio africano come un dominio personale in cui attuare uno sfruttamento selvaggio. Pur con toni giustamente meno accesi si contesta anche Tintin, il fumetto icona di Hergé, il cui protagonista, in un albo del 1931 (“Tintin in Congo”), mostra i tratti paternalistici del colonizzatore razzista. Probabilmente ispirato da questo clima di protesta, nella notte tra il 14 e il 15 giugno, qualcuno ha scritto “krapuul” (truffatore) accanto alla statua di Giulio Cesare (102/100 a.C.-40 a.C.) in un paese delle Fiandre orientali.
In Francia è posto sotto accusa Jean-Baptiste Colbert (1619-83), ministro e grande riformatore dell’economia e dell’amministrazione francesi seicentesche, ma autore anche del Code noir (1685), legge che regolamentava la schiavitù nelle colonie francesi. Inoltre è stato vandalizzato un busto di Charles De Gaulle (1890-1970), eroe della resistenza antinazista e presidente della Repubblica, ma implicato anche nella guerra d’Algeria.
Nel Regno Unito ha fatto notizia l’abbattimento a Bristol, il 7 giugno, della statua di Edward Colston (1636-1721), eretta nel 1895 per celebrarne le opere di filantropia, ma contestata da anni per il ruolo che tale personaggio ebbe nella tratta degli schiavi. In un sondaggio di YouGov, la maggioranza della popolazione britannica si è espressa in favore dell’abbattimento (53 per cento, contro un 33 per cento di contrari e un quattordici per cento di “non so”); ma solo il tredici per cento del totale si è detto d’accordo sul modo in cui è stato attuato, mentre il quaranta per cento avrebbe preferito una modalità diversa. Un altro dei problemi, sottinteso probabilmente nella critica del quaranta per cento appena citato, è cosa fare con le statue eventualmente abbattute: distruggerle? Considerarle esclusivamente come opere d’arte e metterle in musei? Costruire luoghi della memoria, in cui ricordare – nel bene e nel male – il ruolo ricoperto da certi personaggi?
A Londra, invece, è stata oggetto di vandalismo la statua dedicata a Winston Churchill (1874-1965), prontamente “inscatolata” dalle autorità locali per evitare ulteriori rischi. L’accusa rivolta a colui che guidò il paese nella Seconda guerra mondiale è quella di razzismo, da lui più volte manifestato in commenti (e azioni) ai danni degli abitanti delle colonie dell’Impero britannico. Churchill, tuttavia, fu anche colui che guidò il Regno Unito contro la Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Di cosa, dunque, deve essere considerato il simbolo? Del razzismo da eliminare o della democrazia da celebrare?
Nell’arco della vita di un uomo politico e di governo le decisioni prese sono di varia natura e hanno conseguenze di diversa portata. Nel 1991 il premio Nobel per la pace è stato attribuito ad esempio ad Aung San Suu Kyi per la sua lotta pacifica alla dittatura militare birmana; attualmente consigliere di stato (in pratica primo ministro), Aung San Suu Kyi accetta, se non addirittura legittima, le violenze contro la minoranza musulmana del paese (i Rohingya). Nel 1993 tra i vincitori dello stesso premio vi fu Yasser Arafat, fino ad allora considerato un terrorista, ma poi premiato in quanto firmatario degli accordi di Oslo che cercavano di favorire la pace in Medio Oriente.
Tornando a Churchill, è peraltro paradossale l’incoerenza emersa nel campo di chi è contrario all’abbattimento della statua. Il 13 giugno, infatti, dimostranti di estrema destra si sono riuniti per “difendere” la statua dell’ex primo ministro: manifestando al canto di “England, England”, essi hanno fatto il saluto nazista proprio di fronte a colui il cui lascito principale è stato quello di combattere il nazismo nell’“ora più buia”.
Dalle statue alla toponomastica (o all’onomastica in generale) il passo è breve. La targa di Penny Lane, la strada di Liverpool resa celebre dai Beatles, è stata imbrattata per il legame che il nome avrebbe con quello di James Penny, mercante di schiavi di fine Settecento. Secondo altri, in realtà, la parola farebbe riferimento al costo – un penny – che doveva essere pagato per un ponte a pedaggio che lì anticamente si trovava.
Nell’inseguimento dell’ondata emozionale del momento, addirittura, i membri del gruppo pop americano Lady Antebellum hanno deciso di cambiare il proprio nome in Lady A, dichiarandosi “profondamente costernati per il male che esso ha causato”. Il problema risiede nel fatto che antebellum è un tipo di architettura tipico del sud schiavista degli Stati Uniti nei decenni che precedettero la guerra civile (da cui, appunto, il nome); la questione non è in effetti del tutto nuova, tanto che già dopo le devastazioni dell’uragano Katrina del 2005 ci si pose il problema se ricostruire o no quegli edifici (molti dei quali convertiti in musei). Peraltro in alcuni di essi, tutelati certamente anche per il loro valore architettonico, sono stati creati musei sulla black history in America (ad esempio Boone Hall).

Quello degli edifici, se vogliamo, è un tema ancora più difficile da districare rispetto a quello delle statue, se non altro per la maggiore complicazione che vi sarebbe nell’abbatterli. Ma alcuni pongono il problema su cosa sia accettabile e cosa non lo sia. È accettabile, ad esempio, tenere quanto costruito mediante l’uso massiccio di manodopera servile, oppure quanto edificato durante regimi totalitari? In Italia c’è chi discute i simboli fascisti che connotano gli edifici e i quartieri costruiti durante il ventennio. Sarà difficile, tuttavia, arrivare a una qualche decisione condivisa (ma probabilmente anche a un dibattito pacato) in un paese che non ha mai veramente discusso e metabolizzato tale periodo.
Come ha ricordato Igiaba Scego in un recente articolo su Internazionale, alla vigilia delle Olimpiadi del 1960, ospitate a Roma, Gianni Rodari si soffermava sugli edifici del Foro Italico, destinati a ospitare alcune gare: “Si vogliono lasciare le scritte mussoliniane? Va bene. Ma siano adeguatamente completate. Lo spazio, sui bianchi marmi del Foro Italico, non manca. Abbiamo buoni scrittori per dettare il seguito di quelle epigrafi e valenti artigiani per incidere le aggiunte”. Lo stesso spirito – potremmo dire – caratterizza l’idea propugnata qualche giorno fa da Banksy per la natìa Bristol: l’artista ha proposto di ripristinare sul piedistallo originale la statua di Colston, ma di affiancarla con statue dei manifestanti nell’atto di abbatterla.
È forse superfluo sottolineare che nessuno dei due possa essere tacciato di ambiguità ideologica: Banksy è stato uno dei primi a schierarsi con il movimento di Black Lives Matter, e Rodari non può certo essere accusato di simpatie fasciste. Se l’aggiungere a ogni statua spiegazioni o targhe (che, pur evidenziando l’importanza del ruolo che il personaggio ha avuto per gli eventi successivi, ne delineino la figura con maggiori sfumature, evidenziando anche gli aspetti negativi), potrebbe essere una soluzione, essa rischierebbe di essere in realtà poco efficace. Preservare le statue (almeno alcune di esse) e integrarle con elementi “di disturbo” può, molto più della rimozione, fare di loro dei luoghi della memoria e contribuire a evitare che gli episodi che si condannano si ripetano nel futuro. Forse, ancora una volta, è dall’arte e dalla letteratura che arrivano i suggerimenti migliori.
La parola latina monumentum deriva dal verbo monere, cioè ricordare. Tale verbo in realtà connota anche l’atto dell’esortazione o della persuasione. La scelta di erigere un monumento, insomma ha certamente anche una componente celebrativa a financo politica. Forse non è un caso che negli ultimi decenni siano state rare le erezioni di statue dedicate a personaggi che potevano essere controversi, con una grande prevalenza di monumenti dedicati ai caduti (in guerra) o alle vittime (di terrorismo o di mafia, per pensare al caso italiano).
La rimozione (pacifica o violenta) di monumenti non è affatto una novità, così come non lo è il cambiamento della toponomastica. La caduta di dittature ha sempre portato alla distruzione immediata di statue e simboli del precedente regime (presenti in grande quantità come manifestazione visiva del potere). Ma non è solo in occasione di rivoluzioni che nel corso dei secoli monumenti sono stati distrutti, o strade e piazze hanno cambiato nome.
È giusto che, nel momento in cui cambiano i tempi – e con essi i valori di una società – si apra un dibattito sui simboli che la debbano rappresentare. Spesso, tuttavia, tale dibattito è rimandato (o evitato) e quindi forse è inevitabile che s’arrivi a compiere atti forti, come appunto la vandalizzazione delle statue, per porre il problema al centro dell’attenzione; anche se il rischio è che la discussione sia eccessivamente appesantita dal profluvio di opinioni espresse da commentatori europei e bianchi (come ad esempio chi scrive).
Peraltro, in una società sempre più complessa e globalizzata, le minoranze si moltiplicano e – per fortuna – aumenta la possibilità che esse abbiano una voce. Ma sarebbe un peccato che poi, nella confusione generale, ci si allontanasse – come spesso accade – dal cuore del problema. Le istanze del movimento Black Lives Matter non sono favorite dall’ampliamento degli obiettivi. Se si vuole combattere il razzismo, e in particolare quello contro gli afro-americani, forse non fa bene alla causa l’inclusione nella protesta di istanze molto più generali, quali quelle antiglobaliste o anticapitalistiche, che ne annacquano il significato.

A livello dei singoli paesi, poi, è certamente fuorviante buttare tutto in caciara tirando fuori vicende nazionali che poco c’entrano con la discriminazione razziale (in Italia, ad esempio, se può essere legittimo discutere di Montanelli, sembra proprio fuori tema proporre la rimozione delle statue di Vittorio Emanuele II e di Garibaldi).
Il rischio di continuare ad aggiungere nomi alla lista dei personaggi da abbattere è che si arrivi a proposte quasi paradossali, simili a quella del Marchese del Grillo che, divertendosi a non voler pagare l’ebanista ebreo Aronne Piperno, giustificava il proprio atteggiamento con queste parole: “i tuoi antenati falegnami hanno fabbricato la croce dove hanno inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo: posso essere ancora un po’ incazzato pe’ ’sto fatto?”.
La questione è seria e non può certo essere derubricata con una battuta. Ma nel momento in cui tutto si mescola, e per tutto si trova una giustificazione, anche la protervia del Marchese del Grillo – che agiva in quel modo proprio per dimostrare quanto i forti potessero fare torto ai deboli uscendone impuniti – deve suonare come monito. Nel film il personaggio interpretato da Sordi, ricco nobile romano vicino al papa, può permettersi una sfrontatezza simile a quella del lupo nei confronti dell’agnello della celebre favola di Esopo: corrompendo giudici, cardinali, altri ecclesiastici e funzionari, infatti, egli riesce addirittura ad aver ragione.
Nella realtà il rischio è che la scelta di obiettivi opinabili e l’annacquamento delle rivendicazioni diano più forza a chi difende lo status quo e che quindi si arrivi a paternalistici contentini di facciata (la rimozione di qualche statua e poco più) senza che nulla cambi nella sostanza. Le elezioni presidenziali americane di novembre, peraltro, sono alle porte e se i democratici faranno di tutto per garantirsi il voto degli afro-americani, Trump cercherà di consolidare la propria base elettorale contrastando con asprezza le loro istanze. È da dubitare che tale scontro frontale finisca per favorire i cambiamenti auspicati dai manifestanti.
In copertina la protesta attorno alla statua del generale confederato Robert E. Lee a Richmond, in Virgnia.

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