“Tornate in Russia”. 1972, a Reggio nei giorni della rivolta

Cinquant’anni fa il movimento egemonizzato dalla destra contro Catanzaro capoluogo di regione. Io fui giovane testimone della risposta dei sindacati.
ALDO GARZIA
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“Ritorno a Reggio C.”. La copertina del Venerdì di Repubblica della scorsa settimana, dedicata a ciò che accadde in quella città nei primi anni settanta, ha risvegliato in me sopiti ricordi. Giovanissimo delegato del movimento degli studenti, andai a Reggio dal 19 al 22 ottobre 1972 per partecipare alla conferenza sindacale di Fiom, Fim e Uilm sul Mezzogiorno e al suo corteo conclusivo. Dico subito in apertura che fu una esperienza traumatica: non ho messo più piede in quella città nei decenni successivi.

La “rivolta di Reggio” era iniziata nel 1970, dopo le prime elezioni regionali: scegliere Catanzaro o Reggio Calabria come sede del Consiglio regionale? Il conflitto diede la stura a risentimenti territoriali e alla rabbia che covava già allora per un Sud dimenticato. Il Pci provò a far parte di quel confuso movimento all’inizio, poi ne prese le distanze repentinamente. Solo Lotta continua e Potere operaio cercarono di farne parte teorizzando l’emergere della marginalità sociale come problema. L’egemonia sulla rivolta era del Movimento sociale italiano (Msi) di Giorgio Almirante e della destra estrema.

Arrivai a Reggio di pomeriggio. Ci vennero a prendere alla stazione e ci portarono in albergo. La prima sorpresa fu il carrarmato che presidiava l’ingresso dell’hotel: la città era in stato di guerra. Ci venne subito detto che non dovevamo uscire da soli, dovevamo essere sempre accompagnati dal servizio d’ordine sindacale. Le cameriere dell’albergo ci spiegarono che era pericoloso gironzolare per la città “perché i fascisti di Ciccio Franco danno la caccia ai comunisti”. Ciccio Franco, che poi diventerà senatore del Msi, era il leader della rivolta con lo slogan “boia chi molla”: a mo’ di provocazione, fece capolino anche nei pressi dell’albergo che ci ospitava. 

Ricordo che l’Unità e il manifesto ce li consegnavano al mattino in camera con la preghiera di non portarli con noi. All’esterno dell’hotel c’erano carabinieri e soldati dell’esercito con i fucili a tracolla. “Ma chi me l’ha fatta fare a venire fin qui…”, pensai tra me e me dando ragione ai miei genitori che avevano tentato invano di non farmi partire in quella spedizione che aveva però il sapore di una missione democratica e antifascista con l’obiettivo di riconquistare una città. Pranzo e cena li passavamo tassativamente in albergo: erano le uniche occasioni per fare conoscenza con i delegati o gli invitati e parlottare su quello che stava accadendo intorno a noi a Reggio Calabria.

Della Conferenza sindacale di quei giorni, svoltasi nel Teatro comunale, ho poca memoria. Fu la prima volta che vidi da vicino Pietro Ingrao, invitato e osservatore per il Pci. Ingrao, molto popolare in Calabria dove aveva passato parte della clandestinità negli anni del fascismo, ebbe il compito di frenare le spinte a favore di quell’ambiguo movimento che serpeggiavano pure nel Pci. Conobbi Bruno Trentin, segretario della Fiom, che ebbe un incontro con gli studenti. La Conferenza sindacale aveva come parola d’ordine “Nord e Sud uniti nella lotta” e rilanciava la “questione lavoro/sviluppo” come fulcro della necessaria rinascita meridionale. Osservai all’opera Luciano Lama, Pierre Carniti, Giorgio Benvenuto, rispettivamente segretari di Cgil, Cisl e Uil. Rimasi colpito dalla fluente oratoria di Lama.

Il 22 ottobre, giorno della manifestazione conclusiva, avevo appuntamento in stazione alle 8,30 del mattino per organizzare la diffusione del manifesto. Mi ritrovai con Filippo Maone, direttore editoriale del quotidiano, Mario Catalano, corrispondente da Napoli, e Corradino Mineo, già nella redazione del giornale. La tensione era altissima. Sul piazzale della stazione centrale iniziavano ad assieparsi i manifestanti. Molti pullman furono parcheggiati in periferia. Nella notte erano atterrati due aerei, uno da Trieste e l’altro dalla Sardegna. Da Genova e da Napoli si attendevano due navi. C’erano polizia ed esercito dappertutto. Si attendeva qualche provocazione da un momento all’altro. Dai balconi circostanti i reggini ci facevano le boccacce e con gesti delle braccia ci invitavano ad andarcene.

Alle 11 il corteo fu pronto per partire con alla testa Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin. Era intanto arrivata la notizia di attentati lungo la ferrovia che ritardavano l’arrivo dal Nord di molti manifestanti. Il corteo si mosse. I fascisti si erano dati appuntamento non molto distante. Dai megafoni arrivava una precisa indicazione: “Respingete ogni provocazione. Rimanete uniti e compatti…”. A rompere gli indugi e a prendere la testa della manifestazione furono gli operai dell’Omeca, la fabbrica di Reggio colpita nella notte da una bomba:

Voi ve ne andate, noi restiamo qui. Se non la facciamo oggi, la manifestazione, non la facciamo più,

dicevano con forza e convinzione.

Ci muovemmo piano piano. Dalle vie laterali al corteo spuntavano gruppi con i saluti romani che ci insultavano. Dai balconi ci gridavano: “Tornate in Russia”. Qualcuno tirò pietre e altri oggetti contro di noi. Arrivammo con fatica a Piazza Garibaldi, dove si sarebbe tenuto il comizio. Ricordo che sui tetti delle case circostanti c’erano militari con i mitra imbracciati. Credo di non aver avuto mai paura come in quel momento. Bastava un niente perché tutto potesse degenerare. Sul palco parlarono Peppe Diano, segretario generale della Camera del lavoro di Reggio, e poi Luciano Rufino (segretario generale degli edili Uil), Pierre Carniti per la Cisl e Feliciano Rossitto per i braccianti Cgil. Nel frattempo, ci arrivò la notizia che stavano entrando in stazione i primi treni provenienti dal Nord: la accogliemmo con un applauso.

La manifestazione si sciolse nel primo pomeriggio. A me e altri studenti fu data l’indicazione di seguire un preciso servizio d’ordine. Ho memoria che facemmo un lungo tratto di lungomare tra le grida di disapprovazione che venivano dai balconi. Costeggiammo i quartieri di Sbarre e Santa Caterina, famosi per essere il centro della rivolta: ci urlavano contro. Raggiungemmo infine degli autobus che ci portarono in salvo.

L’indomani abbandonai con molto sollievo Reggio. Non ne potevo più di quel senso di soffocamento e tensione. Nei mesi successivi, mi sarei a lungo interrogato su quelle giornate e sulle ragioni della rivolta reggina che acuivano le incomprensioni tra Nord e Sud. Le lotte degli anni successivi per le grandi riforme spostarono a sinistra l’Italia (le elezioni del 1975 e 1976) e ricucirono un po’ lo strappo mai sanato – neppure oggi – della questione meridionale. In questo 2020 il Sud resta infatti una polveriera.

Una splendida canzone di Giovanna Marini ha immortalato quelle giornate di ottobre 1972 nel titolo I treni per Reggio Calabria:

Andavano col treno giù nel Meridione
Per fare una grande manifestazione
Il ventidue d’ottobre del Settantadue
In curva il treno che pareva un balcone
Quei balconi con la coperta per la processione
Il treno era coperto di bandiere rosse…

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“Tornate in Russia”. 1972, a Reggio nei giorni della rivolta ultima modifica: 2020-06-21T18:44:53+02:00 da ALDO GARZIA
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