Sono ormai oltre quattrocento le aziende che hanno aderito alla campagna “Stop Hate for Profit”. Il loro obiettivo è Facebook e l’incapacità dell’azienda a gestire le varie forme d’incitamento all’odio (in inglese hate speech). Sulla scia della morte di George Floyd e in mezzo a un dibattito nazionale sul razzismo, la campagna è stata promossa da vari movimenti per i diritti civili. Tra questi l’Anti-Defamation League, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP) e Color of Change.
Le associazioni hanno invitato le aziende a ritirare le proprie pubblicità dal social media per esercitare pressioni sull’azienda fondata da Mark Zuckerberg. E per ora sembrano aver ottenuto un grande successo. La campagna ha sollevato dieci questioni a Facebook, tra le quali la possibilità per le persone che subiscono gravi molestie di parlare direttamente con un dipendente dell’azienda e di concedere dei rimborsi a quei marchi i cui annunci vengono visualizzati accanto a contenuti offensivi che vengono successivamente rimossi. La campagna critica anche la decisione di Facebook di etichettare Breitbart News, il sito di estrema destra fondato da Steve Bannon più volte accusato di diffondere notizie false, come “fonte attendibile”.
Facebook realizza quasi tutte le sue entrate grazie alla pubblicità. E tra le aziende che hanno aderito alla campagna, vi sono nomi rilevanti: Microsoft, Starbucks, Adidas, Reebok, Coca-Cola, Ford, HP, Honda, North Face, Puma, Unilever, Verizon, Levi’s, Patagonia, Pepsi, Pfizer e molte altre. Tuttavia secondo molti analisti l’azienda dovrebbe subire soltanto una perdita inferiore al cinque per cento dei guadagni. Però in epoca di Covid-19 quella che è la forza di Facebook – le entrate molto diversificate e la non dipendenza finanziaria dalle grandi multinazionali – potrebbe costare caro all’azienda fondata da Zuckerberg. Per molte piccole aziende è impossibile abbandonare Facebook e le opportunità che offre in termini commerciali. Ma la crisi economica innescata dalla pandemia e la possibile scomparsa di molte di queste piccole aziende potrebbero complicare le cose.
Per ora però i danni sono soprattutto in termini d’immagine. Nel timore che la cattiva reputazione dell’azienda si trasformi in un intervento federale di regolamentazione.
La campagna avviene infatti in un crescendo di critiche verso l’azienda. E in un anno elettorale decisivo. Sotto pressione da mesi per il ruolo svolto nella campagna elettorale del 2016 e la vicenda di Cambridge Analytica, Zuckerberg ha annunciato diversi passi per intervenire sulla diffusione dell’incitamento all’odio sul social.
Secondo il fondatore di Facebook, l’azienda nei prossimi mesi nasconderà o bloccherà i contenuti considerati odiosi o che potrebbero danneggiare il voto. Senza eccezioni per i politici, seguendo l’esempio di Twitter con il presidente Trump, un approccio che Zuckerberg aveva precedentemente criticato.
Le aziende che hanno aderito alla campagna l’hanno fatto in maniera molto differenziata. C’è chi ha sospeso la pubblicità soltanto per il mese di luglio, Ford ad esempio, altre per tutto l’anno. Secondo l’analista Aaron Kessler il boicottaggio servirà a poco:
[…] anche YouTube nel passato ha fronteggiato una situazione simile. Ogni volta ha aggiustato la propria politica e gli inserzionisti sono tornati. Inoltre luglio è un mese in generale non buono per la pubblicità. E le aziende stanno tagliando i bilanci per fronteggiare le difficoltà del Covid-19.
Nonostante ciò l’azienda è corsa ai ripari.

Facebook aveva già tentato di rispondere alle critiche qualche settimana fa, quando aveva rimosso più di duecento account legati al movimento violento e antigovernativo Boogaloo. L’azienda di Zuckerberg aveva deciso di intervenire perché questi profili promuovevano “attivamente la violenza contro civili, forze dell’ordine, funzionari e istituzioni governative”. E nei giorni scorsi Nick Clegg, ex leader dei Libdem inglesi oggi vice presidente di Facebook, aveva sottolineato i progressi fatti per eliminare l’incitamento all’odio che oggi, dice, viene rimosso al 90 per cento prima della stessa segnalazione degli utenti.
Il problema però non è l’hate speech in generale. Ma quello dei politici. Sui quali Facebook ha sempre fatto delle eccezioni. Il contrasto appare ancora più evidente quando si fa il confronto con altri social.
Recentemente, grazie alle manifestazioni per la morte di George Floyd, Reddit, Snapchat, Twitch e YouTube hanno deciso d’intervenire più duramente anche sui profili dei politici (leggi Trump).
È Twitter che ha dato il via a prese di posizioni più dure. A fine maggio ha aggiunto un’etichetta di segnalazione di contenuto a un tweet del presidente “poiché incitava alla violenza”. Anche se “etichettato”, il tweet – “quando inizia il saccheggio, si comincia a sparare” – non è stato cancellato. Secondo le politiche di Twitter, infatti, rimane un tweet di “pubblico interesse” e quindi visibile. Facebook, invece, non ha seguito il percorso di Twitter per lo stesso post. Nessuna moderazione del contenuto. Perché, secondo il social, non costituiva un incitamento alla violenza ma l’annuncio dell’uso della forza da parte delle istituzioni.
È stato quindi il turno di Reddit che ha bannato un noto forum di sostenitori di Trump per non aver ripetutamente rispettato le regole del social. Poi Twitch, la compagnia di proprietà di Amazon che offre servizi di livestreaming, ha sospeso temporaneamente un account di Trump poiché trasmetteva contenuti che incitavano all’odio (il noto discorso del presidente in cui descriveva i messicani come degli stupratori). Snapchat ha in seguito smesso di promuovere Trump tra i profili da “scoprire” perché l’account incitava alla violenza razziale. YouTube infine ha eliminato una serie di profili di estrema destra, tra i quali quello di David Duke, l’ex leader del Ku Klux Klan.
Facebook è il social che sta affrontando il problema dell’incitamento all’odio nel modo più cauto.
E le ragioni sono politiche. Trump ha infatti firmato un ordine esecutivo nel tentativo di rovesciare la Sezione 230 del Communications Decency Act, una legge che protegge le società dei social media come Facebook dall’essere citate in giudizio su ciò che le persone pubblicano sulla piattaforma. Trump e i repubblicani sostengono che Facebook e gli altri social hanno un pregiudizio nei confronti del movimento conservatore. La firma di quest’ordine esecutivo sarebbe una sorta di ritorsione.
Ma non sono solo i repubblicani a protestare. Ed è questo che rende la posizione di Facebook sempre più difficile. I senatori democratici Robert Menendez, Mazie Hirono e Mark Warner hanno messo in discussione la capacità di Facebook di “liberarsi del suprematismo bianco e di altri contenuti estremisti”, nonostante il dichiarato impegno per la giustizia razziale e nella lotta contro l’incitamento all’odio. Con una lettera ufficiale, i democratici quindi hanno chiesto all’azienda di rispondere con delle informazioni relative agli sforzi intrapresi per combattere l’incitamento all’odio e il suprematismo bianco. Facebook ha tempo fino al 10 luglio per rispondere. La lettera solleva anche la possibilità che i legislatori si oppongano alle attuali protezioni di responsabilità di cui gode Facebook ai sensi della Sezione 230 del Communications Decency Act.
La crescente pressione contro Facebook si sta quindi facendo strada. Ed è qui che il boicottaggio interviene. Perché amplifica il danno d’immagine all’azienda e fornisce l’occasione ad alcuni legislatori d’intervenire sul gigante dei social. Una situazione non particolarmente favorevole per l’azienda di Zuckerberg che sta già affrontando una serie di indagini antitrust da parte della Camera dei rappresentanti, della Federal Trade Commission, del dipartimento di giustizia e di vari procuratori statali generali.


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