Quando Bill Clinton entrò alla Casa Bianca il 20 gennaio del 1993 trovò sulla scrivania dello studio ovale una lettera. Si trattava della tradizionale missiva che ogni presidente lascia al proprio successore. George H. Bush vi aveva scritto “sarai già presidente quando leggerai questa nota”, da oggi “i tuoi successi sono i successi del nostro paese”, per concludere con “faccio il tifo per te”. Immaginare Donald Trump lasciare una simile lettera per il suo eventuale successore è impensabile. Ma per alcuni oggi questo è il minore dei problemi. Molti si chiedono infatti se, qualora fosse sconfitto, The Donald lascerà la Casa Bianca o la trasformerà in un bunker.
Il tema non è davvero estraneo al terremoto politico che l’elezione di Donald Trump ha generato. La storia, le parole e i comportamenti del presidente repubblicano sollevano qualche dubbio sulla sua capacità di eventualmente accettare una sconfitta. E di dare seguito a quel passaggio di poteri da un presidente all’altro che è fatto di ritualità note e meno note. Come tutti i rituali il suo significato non si limita al mero gesto, ma parla a milioni di cittadini. Un rifiuto di Donald Trump di andarsene dalla Casa Bianca getterebbe forti ombre sulla transizione pacifica del potere. Un elemento fondamentale in ogni democrazia. Sacrale in quella statunitense.
L’ipotesi non è così balzana. Qualche settimana fa il candidato democratico Joe Biden in un’intervista con Trevor Noah, il comico e presentatore del The Daily Show, ha preconizzato questo scenario. E l’immagine del presidente sconfitto scortato a forza fuori dalla Casa Bianca dai militari non è apparsa irreale. Tanto che Donald Trump stesso ha dovuto chiarire su Fox News che in caso di sconfitta lascerà pacificamente la carica.
Più problematica però potrebbe essere la situazione se la vittoria di Biden fosse risicata e vi fossero del ricorsi giudiziari. In quel caso, molti scommettono sulla resistenza dell’attuale presidente. Col supporto del dipartimento di giustizia guidato da William Barr che in questi anni si è dimostrato completamente supino ai desideri del presidente. E nessuno scommette sul “beau geste” di The Donald, in un tentativo di emulare Al Gore, nella contesta elezione del 2000, quando la Corte suprema dichiarò la vittoria di G.W. Bush in Florida.
A sollevare dubbi è anche Lawrence Douglas, docente di diritto all’Amherst College in Massachusetts. Douglas è l’autore di un recente e fortunato libro – all’origine della discussione sul tema – dal titolo eloquente: Will He Go? (“Se ne andrà?”). Se per molti è impossibile uno scenario di questo tipo, il presidente ha dimostrato nel tempo che quello che Maya Angelou diceva – “quando qualcuno ti mostra chi è, credici la prima volta” – non è molto lontano dalla realtà.
Già nel 2016 l’allora candidato alla Casa Bianca aveva affermato durante il dibattito contro Hillary Clinton che avrebbe potuto non accettare i risultati delle elezioni di novembre. Ogni risultato che non fosse la sua vittoria sarebbe stato il frutto di manipolazioni e frodi elettorali. Il timore che Trump all’epoca non accettasse il risultato elettorale era così reale e diffuso che l’amministrazione Obama aveva elaborato anche un piano apposito. Secondo quando racconta Ben Rhodes, vice-consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, il piano prevedeva la convocazione dei leader repubblicani, degli ex presidenti e di personalità che avevano ricoperto ruoli rilevanti nelle amministrazioni, come Colin Powell e Condoleezza Rice, per validare pubblicamente la vittoria di Hillary. Le cose però andarono diversamente.
Oggi però quel copione è riproposto. Nei mesi scorsi infatti il presidente non ha smesso di parlare di “frodi elettorali” legate all’estensione del voto via posta. Una possibilità quella del voto postale sempre più possibile per evitare la diffusione del Covid-19. E si sono visti ricorsi giudiziari e file lunghissime ai seggi in questi mesi. La possibilità che a novembre vi siano dei problemi di gestione delle elezioni è quindi molto elevata.
Secondo Douglas, però, molto dipenderà dall’eventuale margine di sconfitta dell’attuale presidente. Se il presidente dovesse essere sconfitto pesantemente, per quanto possa non riconoscere il risultato, è difficile che il Partito repubblicano si schieri al suo fianco.
Diversa però potrebbe essere la situazione se il distacco fosse minimo tra i voti del collegio elettorale. E magari con contestazioni di voto in molti degli stati chiave. Perché, dice Douglas, i repubblicani in quel caso potrebbero in gran parte appoggiare il presidente e rallentare il processo di passaggio dei poteri, in attesa dei vari ricorsi giudiziari. Con una data limite. Perché il Ventesimo emendamento stabilisce che il mandato del presidente e del vice terminino il 20 gennaio a mezzogiorno. Qualora per svariate ragioni non ci fosse un vincitore chiaro prima di quella data, lo Speaker della Camera svolgerebbe il ruolo di presidente ad interim, secondo l’attuale legislazione sulla successione presidenziale.
Che cosa accadrebbe però tra il 3 novembre, la data delle elezioni presidenziali, e il 20 gennaio? Potrebbero accadere più cose. Innanzi tutto è il Congresso che deve confermare i risultati del collegio elettorale. Lo fa il 3 gennaio sotto la presidenza del vice-presidente, che presiede il Senato. E se Trump chiedesse a Mike Pence di non presiedere quella seduta, in attesa della risoluzione di ricorsi giudiziari? Perché i ricorsi a livello statale potrebbero essere moltissimi e in tutti gli stati chiave.
Ci potrebbero essere poi degli interventi dei singoli stati a guida repubblicana. Da costituzione sono infatti i legislatori statali a decidere le modalità di selezione dei membri del collegio elettorale. E in trentadue stati ci sono obblighi legali che richiedono ai grandi elettori di votare in accordo con il risultato elettorale statale (anche se non vi sono conseguenze legali in molti di questi in casi di violazione).
In una situazione di contestazione del risultato, alcune legislature stati a guida repubblicana potrebbero ad esempio approvare delle leggi per nominare direttamente i grandi elettori dello stato. Nel 2000, ad esempio, è quello che accadde nello scontro tra Bush jr e Gore. In Florida, infatti, la legislatura statale a guida repubblicana richiese una sessione speciale per discutere della nomina diretta dei grandi elettori dello stato, ancora in assenza di un vincitore chiaro. Poi intervenne la Corte suprema due settimane dopo.
Nella confusione post-elettorale potrebbe verificarsi anche lo scenario indicato da Newsweek. Il Collegio elettorale incompleto s’incontra anche in assenza dei delegati di alcuni stati. In assenza di alcuni stati, magari quelli chiave, né Biden né Trump hanno una maggioranza sufficiente. Dell’elezione del prossimo presidente se ne deve occupare quindi la Camera dei rappresentanti. Dove i democratici dovrebbero conservare la maggioranza, ma per questo tipo di elezione si vota per delegazione statale. E attualmente 26 delegazioni sono guidate dai repubblicani e 23 dai democratici, una è divisa a metà (la Pennsylvania). E la composizione non dovrebbe cambiare granché alle prossime elezioni della Camera. In questo modo Trump verrebbe ri-eletto presidente.
Esiste anche uno scenario pre-elettorale. Le difficoltà legate alla pandemia del Covid-19 potrebbero spingere il presidente a posporre le elezioni. È uno scenario molto improbabile perché esistono tre differenti disposizioni di legge che prevedono che le elezioni debbano tenersi il martedì successivo al primo lunedì di novembre. Anche se il Senato a maggioranza repubblicana fosse d’accordo su quest’eventuale rinvio, il presidente dovrebbe passare attraverso la Camera dei rappresentanti dove la maggioranza è democratica. Ed esiste sempre il ventesimo emendamento che prevede un nuovo presidente per il 20 gennaio.

Al di là però dei ricorsi giudiziari e della possibilità da parte degli stati di manipolare il collegio elettorale, che cosa potrebbe accadere se l’incertezza sul vincitore proseguisse fino al 20 gennaio? Che cosa farebbe Trump? Sarebbe la prima volta che un simile evento si verifica per un’elezione presidenziale. Anche se nel passato è accaduto che funzionari eletti non accettassero di fare un passo indietro di fronte al risultato elettorale.
Per esempio, nel 1874 in Texas. Qui il repubblicano governatore del Texas si chiuse a chiave nel seminterrato del Campidoglio poiché non riconosceva il risultato dello sfidante democratico, accusandolo di brogli elettorali. I ricorsi alla Corte suprema statale, dove sedevano giudici nominati dal governatore repubblicano, gli diedero ragione e le elezioni furono dichiarate non valide. I democratici tuttavia continuarono con i preparativi per la sostituzione fino al giorno dell’inaugurazione. In quel giorno lo sconfitto repubblicano si chiuse appunto nel seminterrato con i militari e richiese l’intervento del presidente Grant. quest’ultimo però rifiutò di inviare le truppe federali e il governatore repubblicano dovete accettare il risultato.
Una situazione simile accadde nel 1946 in Georgia con la “crisi dei tre governatori”. L’improvvisa morte del governatore-eletto, avvenuta poco prima dell’inizio del mandato, diede inizio a una contesa tra tre uomini. Infatti, il governatore uscente, il vice-governatore eletto e il figlio del governatore-eletto ne rivendicarono la carica. L’assemblea dello stato scelse il figlio del governatore per succedere al padre, ma il governatore uscente si rifiutò di riconoscere il risultato. Inizio quindi un’occupazione fisica da parte dei due uomini dello studio dell’ufficio del governatore che si risolse a vantaggio del figlio del defunto. Questi infatti fece cambiare le serrature dell’ufficio impedendo al governatore uscente di accedervi. Tre mesi dopo la corte suprema statale decise in favore del vice-governatore eletto.
Ma nel caso di un presidente che cosa potrebbe accadere? In primo luogo, a mezzogiorno del 20 gennaio l’U.S. Secret Service abbandona l’ex presidente. E il successore potrebbe utilizzare agenti federali per rimuoverlo dallo studio ovale. Da privato cittadino potrebbe anche essere arrestato e incriminato per violazione di domicilio, una volta messo piede fuori dalla Casa Bianca.
A mezzogiorno del 20 gennaio scadrebbero inoltre anche i codici nucleari che consentono a Trump di ordinare e autenticare un attacco nucleare. Anche la persona che segue il presidente con il libro dei codici l’abbandonerebbe a mezzogiorno. E qualora qualcuno tentasse di fermarlo, un nuovo funzionario sarebbe già pronto per affiancare il nuovo presidente alla cerimonia d’inaugurazione.
Che i militari facciano qualche cosa è difficile crederlo. Nelle scorse settimane il segnale, inusuale, è invece stato quello di richiamare il presidente al rispetto delle norme di base della democrazia americana.
Però esiste uno scenario più preoccupante. La continua denuncia di frodi elettorali e la possibile contestazione dei risultati potrebbero servire per altri scopi. Se il presidente uscente infatti non fosse sconfitto in maniera pesante e determinante dall’avversario democratico, per i repubblicani potrebbe costituire un problema futuro.
The Donald potrebbe infatti continuare a coltivare la propria base. E nutrirla col sospetto di elezioni truccate e di complotti. Per ripresentarsi alle primarie repubblicane del 2024. Oppure come terzo candidato. Riuscisse ad evitare i problemi giudiziari che potrebbero travolgerlo una volta uscito dalla casa Bianca, avrebbe la stessa età che oggi hanno Biden e Sanders nel 2024.
E non sarebbe nemmeno il primo presidente che ritenta la candidatura a qualche anno di distanza dall’aver ricoperto la carica presidenziale. Ci provò Grover Cleveland, democratico, che fu eletto presidente nel 1885, fu sconfitto nel 1889 e venne rieletto nel 1893. E Teddy Roosevelt che nel 1912 guidò il Partito Progressista contro il suo successore Howard Taft e ottenne il 27,4 per cento dei voti, vincendo in sei stati e ottenendo 88 voti elettorali. Roosevelt sorpassò il candidato repubblicano che ottenne il 23,2 per cento e 8 voti elettorali e consentì la vittoria di Woodrow Wilson, il candidato democratico.


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