Quando qualche giorno fa Robert Unanue, l’amministratore delegato di Goya Foods, ha incontrato Donald Trump e ne ha lodato l’azione politica, probabilmente non pensava di suscitare molte reazioni. Invece quest’azienda “latina”, una delle più grandi nel settore dei prodotti alimentari, si è ritrovata nel bel mezzo di polemiche e di un boicottaggio. A molti fedeli consumatori non sono piaciute le lodi che Unanue ha usato nei confronti di Trump, definito come “una benedizione per il paese”. E anche i democratici sono insorti. La deputata Alexandria Ocasio-Cortez e l’ex candidato alle primarie Julián Castro hanno dichiarato che parteciperanno al boicottaggio dei popolari prodotti dell’azienda.
Azione e reazione sono parte della battaglia politica in corso per conquistare il voto latino. Che potrebbe essere decisivo in alcuni stati chiave, come Florida e Arizona. Circa il 13 per cento dell’elettorato statunitense è latino, trentadue milioni di elettori, una cifra per la prima volta superiore a quella degli african-americans (trenta milioni, in crescita ma meno dei latinos). I latinos, poi, costituiscono il 24 per cento dell’elettorato in Arizona e il venti per cento in Florida.
Trump però ha una relazione complicata con quest’elettorato. Nel 2016 ha definito gli immigrati di origine messicana come dei criminali. E una volta eletto presidente ha avviato politiche anti-immigrazione che non sono piaciute a molti elettori latinos. Quest’elettorato però non è un monolite.
Nel 2016 Hillary Clinton vinse il 66 per cento del voto latino, in linea con quanto fece Obama nel 2008 (ma meno dello stesso presidente nel 2012, quando raggiunse il 71 per cento). Nel 2016 Trump ottenne invece il 28 per cento del voto latino. Nonostante le dichiarazioni razziste della campagna elettorale. Un risultato in linea con quelli di Romney nel 2012 (27 per cento) ma leggermente più basso rispetto a McCain nel 2008 (31 per cento). Tutti molto lontani dal 44 per cento di Bush jr nel 2004, che aiutarono il presidente a vincere il secondo mandato.
Alle scorse elezioni presidenziali Trump ha registrato però percentuali più alte nel voto latino in alcuni stati chiave come la Florida (il 35 per cento). Qui molti latinos di origine cubana o venezuelana hanno appoggiato il presidente per le dure parole nei confronti dei regimi dei paesi nativi. Più del 54 per cento dei latinos di origine cubana hanno sostenuto il candidato repubblicano, contro il 26 per cento dei latinos non cubani.
Per le elezioni del 2020 la situazione appare molto complicata per Trump, secondo i sondaggi. Ma non così diversa rispetto al 2016. Se la popolarità del presidente è del 31 per cento tra i latinos e i due terzi degli elettori dicono di voler votare per Joe Biden, Trump può godere di un 32 per cento di latinos che si dicono pronti a votare per il presidente in carica. Una percentuale più alta rispetto al 2016.
Se tralasciamo i sondaggi, sembra che la strategia della campagna del presidente punti sulle minoranze in maniera molto diversa. Da un lato si punta alla riduzione dell’affluenza di alcuni elettori, in particolare dell’elettorato africano-americano. Dall’altro lato gli strateghi del presidente pensano che sia sufficiente portare a votare lo stesso numero di latinos che votarono per Trump nel 2016. Che sono pochi, ma sono fondamentali in alcuni stati chiave (oltre alla già citata Florida, anche l’Arizona e il Nevada).
Si capiscono di più, quindi, alcune mosse recenti del presidente. L’incontro col presidente messicano Andrés Manuel López Obrador (Amlo), l’iniziativa della Casa bianca per la “prosperità” dei latinos, le recenti dichiarazioni a tutela dei DACA – quei minori entrati negli Stati Uniti in maniera illegale e rimasti nel paese illegalmente che sono tutelati dall’espulsione – contro i quali il presidente aveva fatto una battaglia, persa grazie alla Corte suprema. Non sono eventi casuali. fanno parte del tentativo di conservare un livello sufficiente di elettori latinos in alcuni stati chiave.
È dalla capacità di convincere una parte dei latinos a votare per il presidente che dipende anche la conservazione della maggioranza repubblicana al Senato. Il Sud è infatti la parte del paese che ha visto il più alto incremento della popolazione latina nell’ultimo decennio. Oggi costituisce circa il 26 per cento della popolazione di quell’area. Se si considera che i senatori del Sud sono circa ventidue, di cui diciannove sono repubblicani, si capisce che quest’area geografica è fondamentale – ma non sufficiente – per mantenere una maggioranza repubblicana al Senato.
Anche i democratici, tuttavia, hanno qualche problema con gli elettori latinos. Un rapporto dell’UCLA (University of California, Los Angeles) sostiene che i latinos che hanno partecipato alle primarie del 2020 in California, Texas e Virginia sono stati molti meno rispetto a quelli del 2016. Un segnale secondo gli esperti dell’Ucla che i democratici devono fare di più per avvicinare quest’elettorato. Elettori che, tra l’altro, in queste primarie hanno premiato soprattutto Bernie Sanders.

Le stesse considerazioni il report le fa sugli Asian-American. Quest’anno l’elettorato asiatico-americano raggiungerà la cifra di undici milioni, più del doppio del 2000, e circa il cinque per cento dell’elettorato totale. Si tratta della minoranza che cresce a ritmi più alti nel paese.
Nel 2016 questi elettori votarono in massa per Clinton: il 79 per cento contro il 18 per cento a favore di Trump. Il sostegno a Clinton era molto forte tra gli elettori che votavano la prima volta e tra quelli originari dell’Asia meridionale. Tra gli americani di origine vietnamita, il 65 per cento aveva votato per Clinton, mentre soltanto il 32 per cento per Trump. Un calo drastico rispetto al 54 per cento di Romney nel 2012 e al 67 per cento di McCain nel 2008. Infatti i vietnamiti-americani costituiscono da sempre la base repubblicana tra gli asian-american.
Al contrario, gli asian-american di origine cinese e coreana costituiscono da tempo una solida base per i democratici. I sino-americani hanno votato democratici nel 2016 (73 per cento), nel 2012 (81), nel 2008 (73) e nel 2004 (72). Cifre simili per gli americani di origine coreana: 84 per cento nel 2016, 78 per cento nel 2012, 64 per cento nel 2008 e 66 per cento nel 2004.
I dati invece sulle elezioni del 2018 rivelano che il 58 per cento degli Asian-American disapprovava Donald Trump. Un netto contrasto rispetto al 2014 quando durante le elezioni di metà mandato Obama godeva di un’approvazione del cinquanta per cento tra quest’elettorato. Anche qui vi sono differenze significative rispetto al paese d’origine. Gli americani di origine vietnamita (il 64 per cento) e quelli di origine filippina (49 per cento) approvano il lavoro del presidente. Il settanta per cento degli americani di origine cinese e il 66 per cento degli americani originari del subcontinente indiano disapprovano invece l’amministrazione Trump. Il presidente ha il sostegno più basso tra i giapponesi-americani.
Si tratta però di un elettorato a cui sono più interessati i democratici rispetto ai repubblicani. E potrebbero essere decisivi nelle gare congressuali e senatoriali. Il fatto che siano importanti dipende dall’aumento delle sfide elettorali competitive. Già nel 2018 Trump aveva contribuito a espandere la capacità dei democratici di risultare competitivi in contesti repubblicani. Quest’anno, complice il Covid-19, potrebbe non essere diverso.
I voti asiatico-americani però sono meno importanti per la competizione presidenziale. Ed è per questo che Trump non vi dedica molta attenzione. Molti di questi elettori si trovano infatti in stati democratici – Hawaii, California, Washington e Nevada – dove difficilmente il presidente potrebbe vincere. Salvo, forse, per il Nevada, dove però è importante l’elettorato latino. Per quanto abbiano attirato le critiche di molti repubblicani, le dichiarazioni razziste di Trump sulla Cina e il Covid-19 non dovrebbero quindi danneggiarlo. È un elettorato che la sua campagna non considera fondamentale. Anche se rischia di mettere in difficoltà molte competizioni senatoriali e per la Camera.


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