L’uomo della Corea, l’eterno sconfitto. Povero Mondino Fabbri, non meritava una fine tanto atroce! Certo, quel giorno a Middlesbrough sbagliò tutto ciò che si poteva sbagliare, come sbagliò nel corso di un Mondiale, quello del Sessantasei, nel quale perse pur avendo a disposizione una squadra fortissima e alternative ancor migliori che, tuttavia, scartò per via della sua idiosincrasia nei confronti di Herrera. Pur di non darla vinta al suo arcinemico, escluse buona parte del blocco della Grande Inter che in pochi anni si era issata sul tetto del mondo, incaponendosi con l’ottimo Bulgarelli che, già in precarie condizioni fisiche, ahinoi si infortunò, costringendoci a giocare in dieci il resto della partita, dato che all’epoca ancora non erano previste le sostituzioni.
In pratica, non ebbe la forza, né il coraggio, di cambiare strategia al momento opportuno. Fu tradito, e questo è davvero il colmo, anche dal suo vice: il solitamente prudente Valcareggi che, a proposito dei nordcoreani, si era lanciato in una presuntuosa definizione, paragonandoli a “ridolini”. Tutto fecero, quei furetti assatanati, fuorché farci ridere, fino a trasformare un anonimo personaggio come Pak Doo-ik in un’icona nazionale e nello spauracchio di un’Italia che, purtroppo, non ebbe la forza di reagire.
Gli Azzurri di Fabbri, reduci da buone prestazioni nella fase che precedette il Mondiale, inseriti in un girone tutto sommato alla portata, con Cile, URSS e, per l’appunto, Corea del Nord, ebbero la meglio sui cileni grazie alle reti di Mazzola e Barison, caddero con i sovietici a causa del gol di Cislenko e giunsero all’appuntamento col destino con la sicumera di chi pensava di essere già qualificato, di dover affrontare una squadra di dilettanti, di poter avere la meglio senza faticare, salvo poi essere traditi, sul campo, dal fatto di non essere compiutamente una squadra ma solo un insieme di ottime individualità.
Fabbri pagò per tutti, in quell’anno rivoluzionario in cui venne presa la decisione, a pensarci bene assurda, di chiudere le frontiere agli stranieri: una follia oggi impensabile ma che si protrasse fino al 1980, in un’illusione autarchica che sortì l’unico effetto di privarci di fuoriclasse che avrebbero potuto arricchire ulteriormente il nostro campionato e probabilmente ci indebolì sul piano internazionale, dopo i fasti delle milanesi negli anni Sessanta.
Mondino cadde in disgrazia, pur essendo un ottimo tecnico e pur togliendosi alcune importanti soddisfazioni alla guida del Torino, vent’anni dopo la tragedia di Superga e prima del trionfo targato Pianelli e Radice. Ma non bastò. Quasi nessuno ebbe pietà di quell’uomo troppo orgoglioso, troppo convinto delle sue idee, tragico come un personaggio di García Márquez, un generale nel suo labirinto, vittima di un lento e inesorabile declino che lo condusse alla morte, venticinque anni fa, all’età di settantatrè anni. La sua vera vita, tuttavia, si era conclusa il 19 luglio di ventinove anni prima in Inghilterra. Il resto è stato solo un supplizio, non lenito dalla pietà umana che pochi, pochissimi gli hanno dimostrato mentre i più hanno riflettuto sul fatto di aver ucciso moralmente un uomo solo quando ormai era troppo tardi.


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