[TOKYO]
Quando parliamo, pensiamo alla Cina, al suo ruolo passato, presente e soprattutto futuro non dovremmo limitarci all’aspetto militare, commerciale, finanziario, politico. Potremmo e dovremmo ricorrere a uno strumento di analisi molto più semplice ed elementare. Empirico e pragmatico. Quello della stazza.
Size counts, dicono gli americani. La stazza conta. E hanno ragione.
Con gli Stati Uniti ridotti come sono, tra pandemia e leadership ondivaga, e un’Europa, che nonostante il recente, sofferto ma bene augurante accordo, è ancora molto lontana dall’aver raggiunto la consapevolezza di dover inventarsi una sorta di “centralismo democratico” che rispetti il dibattito interno ma sappia poi esprimere all’esterno una posizione comune chiara e precisa, lo storico “sorpasso”, o se vogliamo usare un termine più soft, “avvicendamento” del cosiddetto “secolo cinese” avverrà a prescindere. Usa ed Europa arrivano a settecento milioni di persone, per la maggior parte stanche e preoccupate. Esattamente la metà della Cina, dove la gente, a prescindere dal suo attuale status, è convinta che le cose non potranno che continuare a migliorare. Conterà pure qualcosa?

Ritengo che il New York Times – salvo qualche raro capitombolo – sia uno dei più autorevoli giornali in circolazione. I suoi editorialisti, inviati, corrispondenti, alcuni dei quali ho avuto modo di conoscere personalmente sono certamente tra i migliori in assoluto. Soprattutto per quanto riguarda la copertura dell’Asia. E della Cina, in particolare. I recenti articoli sullo Xinjiang di Chris Buckley, il corrispondente da Pechino che dopo essere stato “espulso” (in realtà non gli hanno rinnovato il visto) dalla capitale si era trasferito a Hong Kong (ma che ora deve andarsene anche da lì) sono senz’altro tra i più autorevoli e documentati in circolazione, così come le sue più recenti corrispondenze da Macao e Hong Kong.
Il NYT è anche noto per il pluralismo dei suoi editorialisti. Se c’è da schierarsi, da prendere posizione lo fa. Ma lascia sempre spazio ad altre, anche opposte, opinioni. E sulla Cina, si sa, la danza è aperta. Minacciosa potenza del male? Antica e riemergente potenza che legittimamente cerca di riconquistare il suo ruolo? Feroce e sanguinaria dittatura? Fulgido esempio di governance stabile ed efficace?
In questi ultimi giorni il NYT ha pubblicato due editoriali estremamente interessanti. Entrambi ottimamente articolati, ma diametralmente opposti. Il 14 luglio Steven Lee Myers, bureau chief del quotidiano a Pechino, e Paul Mozur scrivono che gli Usa (dunque Trump) sono riusciti a colpire al cuore, colpo dopo colpo, tutti gli obiettivi che Xi Jinping si era prefissato per raggiungere il suo nuovo sogno egemonico, in vista del famoso “sorpasso”. E ci sta: indubbiamente, rispetto a Obama, Trump qualche fastidio alla Cina l’ha procurato, e continua a procurarlo. Qualche giorno prima, l’11 luglio, Ross Douthat avanzava, argomentandola altrettanto compitamente, un’altra ipotesi: che la Cina non sia “in crisi” per colpa (o merito) di Trump, ma perché è in crisi e basta. Una crisi di crescita, si badi, nonostante – o forse proprio grazie al – Covid. Secondo Douthat, al momento l’obiettivo principale di Xi Jinping non è tanto quello di rispettare la tabella di marcia per un eventuale – peraltro mai annunciato/minacciato anche se per molti decisamente scontato – “sorpasso”, quanto di mantenere saldo l’attuale potere assoluto del Partito. Perché il sistema del “socialismo con caratteristiche cinesi” – che solo chi non l’ha un minimo studiato o non ha vissuto in Cina anche per un breve periodo può permettersi di inquadrare sotto altre, semplificate etichette – potrebbe vacillare non tanto per un improbabile malcontento popolare (un recente studio dell’Università di Harvard mostra che il consenso nei confronti del governo e del partito non è mai stato così alto: 93 per cento, contro l’86 del 2016) quanto, al contrario, per “rilassamento borghese”. L’errata percezione, cioè, che la sempre più numerosa “classe media” cinese potrebbe avere di una sorta di “missione compiuta”, dimenticando che circa metà della popolazione è ancora, e non poco distanziata, “in marcia”.

È vero che mai come in questo momento la Cina – da sempre divisa e spesso parzialmente “occupata” da potenze straniere – è unita sotto un governo centrale stabile e, comunque la si pensi su certi argomenti, efficace. Ma è anche vero che mai come in questo momento la Cina è divisa a metà: tra chi è “arrivato” e chi è ancora… in marcia. Ed ecco forse perché il governo cinese per mantenere il consenso punta su due fondamentali obiettivi: quello di “stabilizzare” e offrire sempre maggiori occasioni di arricchimento a chi è arrivato – punendo, e la campagna di “moralizzazione” contro la corruzione è perseguita con grande determinazione, tutti coloro che “esagerano” – e quello di assicurare a chi è ancora in marcia il raggiungimento del sogno condiviso. Chi sta bene ed è convinto che starà sempre meglio, e chi sta ancora male ma è certo che starà meglio non si ribella. Continua a “marciare”, felice e soddisfatto. Ecco perché l’idea dell’implosione interna, del “vulcano sociale”, della rivolta popolare, dei cinesi che assaltano il Palazzo e che trascinano in piazza Tien Anmen una statua decapitata di Mao sembra, francamente, azzardata, se non decisamente improponibile.

Anni fa, quando era ambasciatore della Cina in Giappone, ebbi modo di conoscere Cui Tiankai, attuale ambasciatore cinese a Washington, stretto collaboratore di Xi Jinping, persona colta e arguta. Nel corso di una rara apparizione alla stampa estera di Tokyo, Cui Tiankai rivolse una domanda un po’ retorica al paese che l’ospitava:
I rapporti con il Giappone? Se questo paese è capace di accettare l’idea di una grande Cina, potente e pacifica, tutto il resto si risolve.
All’epoca al governo in Giappone c’era l’attuale vicepremier e ministro delle Finanze Taro Aso. Noto per le sue volgari derive etno-sovraniste e il cui nonno, padrone delle omonime miniere e acciaierie, ridusse in schiavitù migliaia di cinesi (e coreani), deportati dal continente. Negli anni Settanta e Ottanta migliaia di “veterani” giapponesi si recarono in Cina, anche in folti gruppi, seguiti da centinaia di migliaia di turisti e dal business. Ogni qualvolta presentavano le loro scuse – quanto meno formali (ma spesso anche sincere) – per le nefandezze commesse durante la guerra, le autorità cinesi rispondevano magnanime: “Non avete nulla di cui scusarvi: la guerra è stata fatta dal regime militare, non da voi. Pace e bene”. Poi ci fu Tien Anmen, e alle critiche (invero tra le più timide della comunità internazionale…) di Tokyo Pechino rispose ingranando la marcia indietro. Rispolverando, a ogni occasione, la guerra d’aggressione, le mancate scuse, l’incapacità del Giappone di fare i conti con la storia [1], fino a giungere, negli ultimi tempi, a vere e proprie provocazioni, come quelle regolarmente svolte attorno alle contestate isole Dyaotai, Senkaku per i giapponesi.

A poco più di dieci anni di distanza, l’ambasciatore Cui ha ripetuto la stessa frase qualche giorno fa nel corso di un’intervista a Fareed Zakaria della CNN:
Il problema è tutto vostro. Gli Usa devono decidere se sono in grado di convivere pacificamente con un’altra potenza. Non necessariamente nemica e minacciosa. Semplicemente, diversa.
Per quanto autorevole e potente, non penso che l’ambasciatore Cui – come altri suoi colleghi in giro per il mondo, tranne quello in Italia, sostanzialmente ancora defilato, forse perché il governo italiano non è (ancora?) saltato sul carro di Trump – parli per sua esclusiva iniziativa. È indubbio che attorno e oltre la cosiddetta strategia del softpower Pechino abbia lanciato anche quella della warrior diplomacy [2], affidando ai suoi più autorevoli e preparati diplomatici il ruolo di difendere i suoi principi, rintuzzare gli attacchi e a sua volta minacciare rappresaglie e ritorsioni. Un fenomeno recente ma sempre più diffuso, se pensiamo alle numerose dichiarazioni rilasciate in questi giorni dagli ambasciatori cinesi a Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles.
Tutto questo non avviene per caso. I cinesi, nella loro storia millenaria, non affidano nulla al caso. Men che meno il Partito comunista. Che può sbagliare certo – e l’ha fatto più volte, se solo si pensa alla tragedia del “Grande Balzo in Avanti” – ma che continua a fare della pianificazione, della “visione”, e della capacità di modificarne ritmi e obiettivi anche in corso di navigazione, la sua più efficace arma di gestione e conservazione del potere. Che è il vero – e per carità legittimo – obiettivo del partito.

Negli anni Settanta, per “resistere” alla reale – o quanto meno fortemente percepita – minaccia egemonica sovietica, Pechino decise di “aprire” agli Stati Uniti e (pochi lo sanno) ancor prima al Giappone [3]. Nel 1989, di fronte al pericolo – questa volta forse più reale – di un’espansione della protesta popolare guidata dagli studenti di Tien Anmen – il governo, non senza aver affrontato un lungo, drammatico e tutto sommato “democratico” dibattito interno, decise di intervenire risolutamente per chiudere la questione. Oggi, ritenendo il consenso interno abbastanza solido e la comunità internazionale, Stati Uniti in testa, incapace di reazioni concrete ed efficaci, ha deciso di risolvere, almeno il momento, la situazione di Hong Kong con una forzatura legislativa, anziché militare. “Nascondi le tue forze, aspetta il tuo tempo”, diceva Deng Xiaoping. Tutto torna. I cinesi sanno aspettare. Di fiumi sulle cui sponde attendere ne hanno a bizzeffe. Ma poi è la stazza che conta.

[1] Il che è vero: a parte il contenuto dei libri di testo scolastici, dove prevale, quando si parla della Guerra del Pacifico (i giapponesi non usano il termine “Guerra Mondiale”) il concetto di “sfortuna” e di “occasione persa” prevale su quello di assunzione di responsabilità e men che meno pentimento, per il giapponese medio la guerra è stata vinta dagli americani, e non anche dai cinesi, anche all’epoca erano loro determinanti alleati.
[2] Dal titolo della popolare serie cinematografica “Wolf warriors”, dove una sorta di “Rambo a mandorla” va in giro per il mondo a risolvere situazioni difficili e a proteggere e difendere gli interessi cinesi.
[3] Il premier Kakuei Tanaka pagò cara la sua “arroganza” diplomatica. Gli Usa non apprezzarono il suo riavvicinamento anticipato a Pechino e lo fecero cadere in disgrazia fornendo ai media giapponesi documenti compromettenti sul cosiddetto “scandalo Lockheed”.

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