[GORI, GEORGIA]
A dire il vero, non è così semplice arrivarci. Le indicazioni sono poche e un po’ nascoste. Ma alla stazione degli autobus di Gori, dove scende chi ha preso il comodo marshrutka, o minibus, dalla non lontana Tbilisi, tassisti e guide si offrono per la visita all’attrazione della città. Il museo di Stalin, il più famoso georgiano al mondo. Anche se non persiste un vero culto della personalità o una nostalgia di riabilitazione, il grande leader dell’Unione sovietica ha ancora ammiratori tra i suoi concittadini. Un’ammirazione che era rimasta indiscussa fino alla recente guerra-lampo con la Russia per il controllo dell’Ossezia, che ha riaperto secolari contrasti tra i due vicini.
Non ci sono monumenti o boulevard a lui dedicati o parchi o stazioni ferroviarie com’era fino alla sua morte, ma si coglie un po’ sottotraccia, dai commenti della gente e soprattutto visitando il tempio – museo a lui dedicato. Una grande attrattiva che richiama visitatori da tutto il mondo e che anche il governo, durissimo nel braccio di ferro in corso con la Russia, non pensa neanche lontanamente di chiudere o anche solo di modificare.
Qui è tutto come nel 1957, quando fu eretto, grandioso e agiografico. È passato indenne e immutato attraverso gli anni della denuncia del culto della personalità sotto Kruscev, la caduta del comunismo e l’indipendenza della Georgia. È nota la vicenda della rimozione della sua statua, una delle ultime rimaste. Di sicuro era la più fieramente esibita dell’ex Unione Sovietica, colossale e nel cuore della piazza principale. Due anni dopo la breve ma devastante “Guerra dei cinque giorni” del 2008, il governo decise che non si poteva lasciare lì quel monumento di bronzo alto sei metri su un piedistallo di dieci in memoria del più grande leader del paese ora divenuto occupante. Di abbatterla però non se ne parlava: semplicemente fu rimossa e dovettero farlo di notte, per evitare sollevazioni dei cittadini e poi collocarla altrove. Ma ne restano altre, dentro e fuori il museo lui dedicato, imponente e maestoso, sontuoso e sacrale, sempre nel cuore della città.
Del resto, se è vero che la maggior parte dei turisti in Georgia sono russi, a Gori si vedono persone di ogni razza e provenienza, come in nessun altro posto nel paese. Più dei distretti dei vini e delle stesse montagne. Ed è innegabile che la figura di Stalin giganteggi ancora nell’immaginario di mezzo mondo. La celebrazione inizia già dalla visita alla modestissima casetta natale in semplici mattoni: poco più di una stanza, spoglia e spartana ma dignitosa, con un letto, un tavolo, una lampada dove viveva tutta la famiglia. La guida che accompagna, chiavi in mano, un folto gruppo di orientali attenti e in religioso silenzio, non può che enfatizzare le sue modestissime origini. Queste innegabili.
Si sa che la scalata al potere del grande georgiano, nato poverissimo, fu fulminea ed inarrestabile ed è raccontata passo dopo passo, anno dopo anno, nelle sale che occupano l’intero palazzo bianco poco distante con arcate orientaleggianti, costruito appositamente. I pannelli esplicativi, rigorosamente in georgiano e russo, come anche le brochure mettono subito in chiaro lo spirito celebrativo, e mai critico, di tutto il percorso. Ne veniamo introdotti leggendo all’inizio che durante i suoi trent’anni di potere la popolazione del paese passò da poco più di 22 a 188 milioni e che la sua personalità e la sua azione politica è stata “variamente” apprezzata fino ad oggi. All’ingresso t-shirt, portachiavi, tazze, piatti e souvenir di ogni genere che lo raffigurano, come accade con le vere star.
Del resto, fino a neanche una ventina d’anni fa, già dopo la caduta dell’Urss, in Georgia il grande leader era ancora pressoché un idolo. Ci fu chi nel paese reclamava che la salma tornasse al Cremlino, spuntarono diverse associazioni e organizzazioni che ne chiedevano la riabilitazione. Nei manuali di storia delle scuole superiori si diceva che nel periodo krusceviano la critica a Stalin era oltraggiosa per il popolo georgiano. Quando l’ultimo ministro degli esteri sovietico Eduard Shevardnadze, ovunque apprezzato per diplomazia e moderazione, s’insediò a capo dello stato dopo il crollo del blocco sovietico, subito mise in piedi un istituto per gli studi sulla sua figura. Che per lui e i suoi connazionali, molto spesso era stata infangata.
Proprio in quegli anni un grande reporter di viaggio, Wojciech Gòrecki, osservava come fosse difficile parlare ai georgiani di Stalin.
La maggior parte di loro lo ritiene un grande. Tra loro vi sono quelli che non credono nei crimini staliniani – negazionisti diciamo adesso – e quelli che, pur vedendo il male, sono convinti che gli si debba perdonare ogni cosa.
Restava infatti ancora molto popolare tra la gente di Gori chiamarlo affettuosamente “zio Soso”. E ricorda i vari tentativi andati a vuoto di rimuovere la grande statua nella piazza principale di Gori: nel 1956 dopo dopo la denuncia di Kruscev e nel 1998, sotto Gorbacev, finché alla fine riuscirono a rimuoverla, ma di notte, all’insaputa della popolazione. In tutte quelle occasioni, la gente di Gori si concentrò in massa davanti al monumento impedendo che fosse rimossa.
Il benvenuto al visitatore del museo lo dà la grandiosa statua in marmo bianco che domina la cima della scalinata con il lungo tappeto rosso nel foyer. La posa è sobria, la mano in tasca dei pantaloni nell’eterna divisa militare che è l’unico abito con cui lo si è visto pubblicamente. Nulla di enfatico, ma certo molto rassicurante. Al primo piano, alla luce dei principeschi candelabri, altri busti in marmo e persino un mosaico che lo raffigura mentre tiene un discorso. Alle pareti le prime immagini del racconto apologetico della vita straordinaria del grande connazionale: ci sono foto di lui bambino e dei genitori, il padre calzolaio, straordinariamente somigliante, e la madre; poi altre della sua classe dei primi anni di scuola al seminario e con i compagni del coro. Con le ottime pagelle ci sono anche i suoi poemetti giovanili che, a quanto si dice, venivano studiati dai bambini delle scuole primarie. Ed ecco nelle teche altri documenti e oggetti degli anni della rivoluzione bolscevica.
Ma qualcosa colpisce poco più avanti: le immagini che lo ritraggono in amichevole compagnia col suo peggior nemico, Trotskji. Forse questo potrebbe suonare come una sorta di tentativo di sollevarlo dall’accusa di essere stato il mandante del suo assassinio? Siamo nella grande sala che comprende gli anni della costruzione dello stato sovietico, dei primi piani quinquennali ma anche – grande vuoto -, della collettivizzazione forzata delle campagne, uno dei nodi più discussi del dominio stalinano, che fu un disastro umanitario. Ancora, lo vediamo in veste di agit prop mentre da un palco incita i compagni alla lotta, lui che grande oratore e trascinatore probabilmente non era, e in tante foto agiografiche attorniato da donne del popolo osannanti e mentre abbraccia bambini, secondo il più consolidato culto della personalità.
Tutto è rimasto come settant’anni fa. Le brochure del museo non fanno menzione delle lotte interne al partito, delle purghe e delle carestie. Solo qualche vago cenno. Ma il culmine è nel cuore del museo, quello della guerra patriottica, una grandiosa sala semicircolare con gigantografie belliche e ritratti del leader con i principali alleati, Churchill e Roosevelt. Qui le note informano che Churchill considerava Stalin un grande dittatore ma che aveva preso in mano un paese “con un aratro di legno e l’aveva lasciato fornito di armi nucleari”, mentre secondo Roosevelt “era stato una delle più grandi persone dell’era moderna”. E addirittura, secondo il nemico numero uno, Hitler in persona, Stalin sarebbe stato più intelligente degli altri due messi insieme. Un giudizio di cui non si sa se ci sia da andare molto orgogliosi.
Sparsi un po’ qua e là ci sono tanti oggetti personali, anche una sala di doni dall’estero molto affettuosi, come il grano di riso inciso con 382 microscopici caratteri di auguri dall’India chiuso in una capsula, il set di pipe decorate dall’Italia, un suo ritratto in legno del Libano offerto dal metropolita ortodosso di Beirut con tanti auguri per il suo settantesimo compleanno. Insomma, un ottimo amico per tutti.
Le foto sono di Giovanni Verga, tranne quella di copertina.

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1 commento
Molto interessante. Particolari inediti e analisi sintetica che incuriosisce e invita ad approfondimenti e interpretazioni.