Per un comune “benicomunista”

La prossima amministrazione deve mettere al centro del governo del territorio la gestione dei beni comuni emergenti da parte delle comunità.
MARIO SANTI
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Molto deve cambiare in una Venezia dove la caduta strutturale di una mono-cultura turistica che riteneva inesauribile la “conversione economica che invece che esportare manufatti punta a importare visitatori” ha messo in crisi radicale redditi e lavoro. ytali ha opportunamente aperto una riflessione con un articolo di Michele Mognato dal significativo titolo “Un nuovo patto sociale per la Venezia post-Covid 19”. Erano (prima) e sono (poi) intervenuti in molti su temi diversi e si comincia a comporre un affresco per capire cosa può portare le Venezia di acqua e di terra verso la sostenibilità. Basta scorrere, proprio su ytali, i contributi della sezione Venezia per farsi un’idea.

In questi giorni la vicenda dell’area ex Gasometri, con la discussione farsa in Consiglio comunale, la cui presidenza è arrivata a negare il diritto di intervento al soggetto sociale che aveva proposto la discussione, mi spinge a riprendere il tema dei beni comuni, di cui ho parlato su ytali in passato. Se lo riprendo è perché sono cresciute e stanno crescendo le esperienze e la capacità di proposta dei movimenti, e sta partendo una volontà di fare rete.

Questo rende attuale la prospettiva di un governo del territorio “benicomunista”.

Lezioni di yoga alla Vida a San Giacomo dall’Orio
I beni comuni emergenti, un patrimonio territoriale non abbastanza esplorato

Le nostre città (d’acqua, Venezia e le isole, e di terra, Mestre, Marghera, Favaro e gli altri centri) sono piene di quelli che possiamo definire “beni comuni emergenti” (bce). Di cosa si tratta? 

La mia ipotesi è che possano essere considerati bce tutti quegli edifici, strutture o compendi territoriali per i quali esista (al di là del regime di proprietà, pubblica o privata) un’azione di una comunità che se ne prende cura con benefici “non proprietari”. Benefici che ricadono cioè non sui promotori delle azioni ma su intere comunità locali e/o sulla popolazione tutta.

Si tratta di una definizione forse “larga” e non “di scuola”. Ma se guardiamo alla mappa dei casi che negli ultimi anni hanno visto iniziative che si sono mossi in questa direzione possiamo definire questi beni un “valore”, una vera “infrastruttura” che alimenta socialità e relazioni sul territorio.

I bce hanno in comune un dato, pur nella diversità dei regimi proprietari, di soggetti interessati e proposte: l’intervento di cura da parte delle comunità porta ad un aumento del loro valore. Quello che aumenta è la loro “redditività civica”, cioè il valore che il bene assume per la comunità. Vale a dire che quando i “benicomunisti” intervengono su un bene, anche privato, lo fanno con proposte che lo rendono più prezioso e più fruibile per tutti.

Si prenda, ad esempio, una delle battaglie più mature aperte nelle città di terraferma. Un gruppo di cittadini ha preso a cuore il ruolo di riqualificazione del centro di Mestre che potrebbe avere l’area sulla quale sorgeva l’ex ospedale Umberto I. Dopo un periodo di abbandono e incuria (due della precondizioni “classiche” che accompagnano il percorso che porta i beni pubblici verso la privatizzazione speculativa, giustificata a quel punto come “alternativa al degrado”) l’Ulss l’ha messo all’asta. Il comune non ha voluto acquisirlo (anche se le condizioni erano favorevoli) ed è stato assegnato a un privato – gestore di una catena di supermercati – che intende localizzarvi un supermercato del gruppo e un centro commerciale. I cittadini non contestano queste intenzioni, sancite anche dallo strumento urbanistico (la variante terraferma al Prg). Ma proprio dello strumento urbanistico si fanno forti per proporre le loro istanze. 

Infatti nel piano di recupero la destinazione urbanistica individuata dal Prg come zona territoriale omogenea è di “area edificabile con destinazione ricettiva commerciale residenziale parcheggio privato”. E questo garantisce il privato. Ma è anche destinata ad attrezzature collettive e verde pubblico, mentre c’è un problema di recupero della memoria storica attraverso la salvaguardia e valorizzazione di alcuni padiglioni del vecchio ospedale ancora recuperabili.

Ecco emergere un paio di dati che possono caratterizzare quell’atteggiamento che ho definito “benicomunista” ed è applicabile a proprietà pubbliche, ma anche private:

  • da una parte l’attenzione allo sviluppo degli spazi verdi come forma di “infrastrutturazione” territoriale in grado di contrastare il cambiamento climatico con polmoni che rinfrescano l’aria e la rendono respirabile, evitando bolle di calore e portando la natura in città;
  • dall’altra l’attenzione alla storia dei luoghi e dei manufatti come testimonianza in grado di mantenere e sviluppare la memoria delle persone e delle comunità.

Non è un caso i membri del comitato ex Umberto I sono tra gli animatori dell’associazione culturale Mestre mia nata per ideare e realizzare iniziative ed eventi che diffondano la conoscenza della storia mestrina, che viene considerata un “pietra d’angolo culturale ritenuta necessaria a rafforzare l’identità e stimolare la socialità dei suoi abitanti”. 

Da questo punto di vista appare molto interessante la discussione, aperta negli ultimi mesi, sul destino dell’edificio che ospitò l’antica posta sito in Piazza Barche, nell’area archeologica del centro storico di Mestre. Anche questo edificio è stato acquistato da un privato (dopo che i “classici” trent’anni di abbandono da parte del pubblico ne avevano accentuato il degrado), che intende demolirlo e costruire al suo posto un palazzo di sette piani. Anche in questo caso i cittadini si sono fatti sentire ed è stato costituito un comitato che chiede si proceda a un restauro conservativo dell’area dell’antica posta e chiede alla Soprintendenza di Venezia la dichiarazione di interesse culturale ai sensi del Dlgs 42/2004 (lasciando comunque la libertà di iniziativa privata per tutta la rimanente area).

Questo perché è fondamentale lasciare un segno della storia di Mestre, storia di una città che nell’asse tra Piazza Barche e il Castelvecchio ha costruito la sua prima evoluzione. Ecco allora che tra le proposte del Comitato abbiamo la possibilità vi trovino posto anche una sede museale (ad esempio Museo Postale) o uno spazio espositivo culturale o la sede di associazione di carattere storico culturale.

Ancora una volta, un luogo della memoria, non in contrapposizione con “la modernità”, ma per darvi un senso, a partire dalle sue radici. 

Ancora a Mestre. Sul margine della Laguna, il Parco di San Giuliano potrebbe essere assieme un polmone verde, un punto di affaccio alla Laguna e di interconnessione e relazione tra la città di terra e quella d’acqua. Così era nato, ma la sua posizione lo rende appetibile per una “infrastrutturazione” più pesante al servizio di una logistica di scambio terra-acqua, necessaria ma per la quale esistono molte altre possibili localizzazione che non mettano in discussione un tessuto così delicato e funzionale ad uno scambio dolce tra terra e acqua.

Fortunatamente anche qui sono i cittadini a difendere i diritti dell’ambiente. L’associazione Amici del Parco di San Giuliano nasce del 2007 per promuovere e sviluppare il Parco di San Giuliano di Mestre così come delineato dal piano guida approvato dal Consiglio comunale nel gennaio 1996. In questi anni l’associazione ha dovuto battersi per far rispettare questo ruolo. È di questi giorni l’azione dei carabinieri della forestale di Mestre che hanno posto sotto sequestro penale una parte del parco, compresa quella del “tamburello”, dove è stata realizzata la colata di cemento mascherata da campi da basket. Da un anno gli Amici del Parco denunciavano come le opere realizzate come infrastrutture ai grandi eventi fossero prive di autorizzazione paesaggistica.

Ecco qua un altro elemento che accompagna la storia dei bce. Non solo sono i cittadini che li animano con le loro proposte e le loro iniziative, ma spesso devono ricorrere all’autorità giudiziaria per “far rispettare” norme e regolamenti che dovrebbero assicurare la loro salvaguardia. 

Se oltrepassiamo il Ponte della Libertà troviamo altri spazi che possiamo considerare bce. Nella città storica abbiamo tre casi nei quali la proprietà, divenuta privata dopo le dismissione pubbliche degli ultimi anni, non riesce a realizzare i suoi progetti, per l’opposizione propositiva di abitanti e comunità interessate.

Nel caso della Vida (l’Antico Teatro di Anatomia, a San Giacomo dall’Orio), quando la Regione – dopo aver interloquito con le associazioni per un progetto di valorizzazione culturale – l’ha ceduto ad un privato, la comunità è “entrata” ed ha riaperto i locali. Li ha gestiti in modo inclusivo, assicurandone il presidio giorno e notte per sei mesi e mezzo, fino alla sgombero avvenuto manu militari e concluso con la denuncia di alcuni occupanti scelti in modo casuale ed arbitrario. 

Ma quei mesi di gestione “liberata” hanno dimostrato che ruolo fondamentale può avere un centro di aggregazione culturale e sociale in una città che ne è priva, e come le comunità locali siano la più vocate per gestire questi spazi. Di ciò si è dato ampiamente notizia su ytali

La novità è che di recente è stata sporta denuncia alla Procura della repubblica presso il Tribunale ordinario di Venezia, tramite il nucleo carabinieri tutela patrimonio culturale di Venezia. Sotto accusa è il comune di Venezia, per non aver (ancora) fermato l’abuso messo in atto dalla proprietà con i lavori in corso finalizzati all’apertura di un ristorante, in violazione della vigente disciplina urbanistica.

Anche qui quindi un dato che accomuna i casi di molti bce: appoggiarsi alla disciplina urbanistica per difendere edifici e territorio dagli stravolgimenti speculativi e ricorrere all’autorità giudiziaria per denunciare la violazioni, anche di chi come il comune, istituzionalmente, deve evitarle.

Sia nell’area dell’ex Orto botanico di San Giobbe che in quella degli ex Gasometri di San Francesco della Vigna, dopo le dismissioni pubbliche e vari passaggi di proprietà, siamo in presenza di proprietari che vogliono investire in alberghi e/o residenze di lusso.

Ulteriori offerta di ricettività per una clientela abbiente, in una città dove il turismo è stato messo – prima dall’aqua granda 2.0, poi e soprattutto dalla pandemia – in una crisi dalla quale non si sa quando e come riuscirà a sollevarsi. Se lo farà sarà lasciando sul terreno morti e feriti. Lo dimostrano chiusure o cambi di target che già hanno cominciato ad interessare molte attività ad esso legato.

Anche di queste realtà ho già parlato su ytali e ribadisco qui il nodo: che siano case per gli abitanti a San Giobbe o la realizzazione della palestra per Sarpi Benedetti e Tommaseo ai Gasometri, cioè nel posto più comodo per gli studenti e non “più lontano” come proposto dalla proprietà, è il comune che ha il pallino in mano, perché è lui (sia per l’ex Orto botanico che per ex Gasometri, ma anche per la Vida) che deve concedere alla nuove proprietà un cambio delle destinazioni d’uso per poter realizzare i loro progetti.

Molti elementi sconsigliano questa scelta: la presenza di un interesse pubblico reale (di abitanti e comunità studentesca) per il mantenimento della destinazione attuale a difesa dell’interesse pubblico, la presenza di forti movimenti di opinione, la scarsa attrattività che il turismo ha in questo momento. E forse un minimo di bonton istituzionale per cui in presenza di elezioni forse consiglierebbe di lasciare a chi gestirà il comune per la successiva consiliatura decisioni così delicate e che stravolgono l’assetto urbanistico in atto.

Purtroppo ci sono due elementi che potrebbero favorirla: la spregiudicatezza (arroganza?) del sindaco uscente e il suo essere passato da “civico” (come si presentò alla scorse elezioni) a organico rappresentante (come si presenta ora) di una coalizione di una destra che a Venezia s’illude di archiviare il Covid-19 come un incidente di passaggio. Staremo a vedere.

Infine cito un caso “lagunare”.

Il fatto che non abbia parlato di Marghera e del resto della terraferma non significa che non vi siano in questi territori bce e soggetti che vi lavorano con conflitti e proposte. 

È che Poveglia consente di affrontare un caso in cui la “proprietà” è tuttora pubblica, essendo “affidata” al Demanio statale. Anzi fu proprio il fallito tentativo di metterla all’asta che nel 2014 fece nascere attorno alla cura dell’isola la comunità che si è associata in “Poveglia per tutti”.

Un’isola lasciata al degrado dopo la dismissione del sanatorio, ma meta ricorrente dei giri in barca in laguna sud di veneziani (e non solo) per una sosta e un picnic. Un caso paradigmatico del percorso dei bce: un bene pubblico prima abbandonato e poi avviato ad una vendita speculativa. 

Ma i giudecchini – i veneziani più vivi – hanno promosso un’associazione per prendersene cura “per tutti”, cioè perché sia la comunità a impegnarsi nella rinascita di un’isola che deve essere fruibile da chiunque voglia prendersene cura o anche solo desideri visitarla. E hanno raccolto centinaia di migliaia di euro da tutto il mondo per salvarla. Hanno messo in campo idee, progetti, proposte, si sono dati un’organizzazione partecipativa e inclusiva. 

Questo è già un successo e la dimostrazione che i bce possono aggregare e mobilitare risorse, tecniche, umane e anche economiche. 

Da anni cercano di ottenere dal Demanio una concessione per realizzare un gestione inclusiva dell’isola. La battaglia è passata per una proposta di concessione respinta e un ricorso al Tar vinto, per l’attesa di bandi mai usciti. Oggi si sta avviando una riflessione su proposte di concessione che potrebbero variare la strumentazione normativa di riferimento. 

Nel frattempo la azioni di cura dell’isola (apertura e mantenimento dei sentieri, attenzione alla sicurezza dello sbarco, pranzi sociali e produzione di marmellata di more, feste) proseguono e hanno reso “Poveglia” e “i poveglianti” un riferimento per tutte le iniziativa sociali e politiche che vogliono portare aria nuova in città e fuori.

L’aqua granda 2.0 a Rialto
Sulla valorizzazione del patrimonio pubblico

La battaglia su Poveglia ha rivelato un conflitto economico e concettuale sul tema della valorizzazione dei beni (dismessi) dal pubblico, che riguarda un po’ tutti i bce. “Poveglia per tutti” nasce per contrastare la volontà del Demanio di “metterla a reddito”, indicendo un’asta nell’ambito del progetto “Valore Paese”, che altro non è se non un piano (fino ad oggi fallito) di alienazione di fette consistenti di patrimonio pubblico con la giustificazione del loro non avere più funzioni strategiche per lo stato, ma di consentirgli di “fare cassa”.

C’è un primo problema, che riguarda la proprietà dei beni pubblici e le figure abilitate a decidere sulla loro gestione. Quando di dice che un bene o un compendio sono demaniali o delle regione o della provincia o del comune (o di altro ente pubblico) si intende dire che gli amministratori di quegli enti ne sono i “custodi pro tempore”. Non i “proprietari”. La proprietà resta pubblica, vale a dire del popolo. 

E non si può mascherare per interesse pubblico (adducendo motivi quali la necessità di reperire risorse o di creare effetti “indirettamente positivi” – quali l’occupazione legata alle attività insediate) quello che nella sostanza è un trasferimento di valori fondiari pubblici alla speculazione privata.

Il secondo problema è quello della valorizzazione. È perdente una logica “finanziaria”, che vende i gioielli di famiglia per coprire un buco di bilancio, che si ripresenterà l’anno successivo, senza più possibilità di coprirlo. Il beneficio è dello speculatore che acquista, il danno è per il pubblico che vede depauperarsi irrimediabilmente il suo patrimonio. 

È invece vincente basarsi su un altro tipo di redditività, quella “civica”. Affidare il patrimonio che ha perso i suoi scopi istituzionali alle comunità consente la sua valorizzano attraverso le attività sociali, culturali, relazionali, produttive che queste sono in grado di insediarvi.

Il beneficio è per la comunità che svolge le sue attività, per la popolazione che ne usufruisce, per il pubblico che mantiene la sua proprietà.

Gli ex Gasometri a san Francesco della Vigna
Le proposte per un Comune benicomunista

Casa, lavoro, servizi, ambiente sono le ben note priorità che rientrano in ogni programma elettorale. Ma l’esperienza consente di ricavare una serie di condizioni (dalle quali ricavare i necessari strumenti amministrativi – delibere, regolamenti) anche per fare di Venezia un comune “benicomunista”.

Il nuovo Consiglio comunale assuma l’impegno politico di affidare prioritariamente la gestione dei suoi beni dismessi (o in fase di dismissione) alle comunità che siano in grado di valorizzarli con la redditività civica delle attività proposte. Solo in mancanza di queste proposte sarà possibile alienarli.

La nuova amministrazione dichiari la volontà di dotare il territorio di una vera “infrastruttura” fatta di beni comuni emergenti (bce) gestiti con le comunità per il bene comune. 

Su molti di essi esistono pratiche e proposte che potrebbero essere messe in rete e portare ad un riconoscimento formale della rete comunale dei bce e della necessità di difenderli e valorizzarli attraverso l’azione della comunità interessate alla loro cura.

Ci sono provvedimenti di carattere urbanistico che l’amministrazione può assumere, ad esempio con una variante alla norme tecniche generali del Prg:

  • blocco dei cambi di destinazione d’uso verso il commerciale e ricettivo;
  • inserire quella di “bene comune emergente” tra le possibili destinazione d’uso per tutti gli edifici ed aree pubbliche, accanto a quelle oggi in uso;
  • definire (a livello comunale, ma aprendo con Anci un’azione per inserire questa modifica anche nel decreto sugli standard urbanistici) un nuovo standard urbanistico, relativo ai “beni comuni emergenti”. Il nuovo standard deve assicurare che nel territorio comunale siano messi a disposizione un certo numero di spazi (utilizzando ancora l’indicatore mq/ab o indicando una dotazione funzionale minima legata ai contesti) pubblici a gestione comunitaria, destinati agli usi collettivi non proprietari e da gestire in modo inclusivo, sulla base di “dichiarazioni di uso civico”.

Nel frattempo sta crescendo ed estendendosi un movimento sociale e ogni giorno le vertenze in atto prendono le pagine dei giornali locali. La settimana scorsa erano i gasometri al centro dell’attenzione, in questi giorni il sequestro di un’area del parco di san giuliano. Quando leggerete queste righe sarà la volta di qualche altro bce assurgere agli onori della cronaca.

E negli incontri tra i movimenti, in particolare grazie alla vertenza ai Gasometri, sta crescendo la voglia di parlarsi, di valutare se un fare fronte comune rispetto all’amministrazione comunale possa aiutare le singole vertenze. È in corso la loro mappatura. 

Perché in fondo ognuna di esse – in situazioni diverse delle città d’acqua e di terra e nella isole – ha saputo radunare comunità che intendono prendersi cura del proprio territorio.

È auspicabile che la nuova amministrazione (che verrà eletta tra un paio di mesi) inauguri una stagione positiva di rapporti con queste preziose aggregazioni di cittadinanza attiva. 

L’occasione potrebbe essere costituita da un forum beni comuni emergenti che metta insieme questa comunità. 

Sarebbe il livello giusto per avviare con il coinvolgimento dei cittadini un processo di revisione partecipata del regolamento comunale di gestione di beni comuni (messo a punto alla fine dello scorso mandato) per valorizzare meglio l’autogoverno delle comunità.

L’ex Orto botanico di San Giobbe

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Per un comune “benicomunista” ultima modifica: 2020-07-27T11:38:31+02:00 da MARIO SANTI
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