Bisogna sempre diffidare degli uomini venuti dalla polvere perché delle due l’una: o affondano o vincono tutto. Vale nella vita e vale anche nel calcio. Inutile star qui a sottolineare quanti assi sudamericani, nati nei sobborghi peggiori di città poverissime, cresciuti in bidonville senz’acqua né elettricità né fognature, abbiano trovato nel calcio un’occasione di riscatto, trasformando la rabbia e la frustrazione per le sofferenze patite in un propellente straordinario per arrivare sul tetto del mondo.
Per Sarri, fatte le debite differenze, il discorso è più o meno lo stesso. Non è stato un campione alla Zidane, non può vantare quarti di nobiltà, coppe del mondo o Champions alzate al cielo da capitano: fino a trent’anni fa lavorava in banca, poi la passione per il pallone ha avuto il sopravvento e questo toscanaccio, schivo e dal carattere aspro, si è messo in gioco, ha studiato, ha allenato squadre minuscole, ha conosciuto i campi fangosi delle serie minori, la polvere e le notevoli difficoltà di una professione che, lontano dalle luci della ribalta, è tutt’altro che dorata. E infine ha avuto ragione: prima a Empoli, conquistando una salvezza a suon di gol e partite eccezionali, poi a Napoli, dove è nato il mito del sarrismo, un misto di bel gioco e risultati di tutto rispetto, quindi al Chelsea, dove si è tolto la soddisfazione di vedere la propria squadra vincere l’Europa League.
E ora la Juve, la consacrazione definitiva, corredata, per ora, dallo scudetto, dalla valorizzazione di un fuoriclasse in erba come De Ligt, dalla rinascita per merito suo di un genio come Dybala che Allegri – pur bravissimo – aveva colpevolmente accantonato, dai gol a raffica di Cristiano Ronaldo, dall’ascesa di Rabiot, dall’esplosione di Bentancur e dalla sua promozione a regista, ruolo in cui a breve diventerà uno dei primi al mondo: Maurizio Sarri è questo, prendere o lasciare, e i risultati al momento parlano a suo favore.

Quando penso a un personaggio del genere, alle sue idee politiche, mai troppo celate, al suo modo di stare in panchina, al suo sembrare un soggetto uscito dalla penna di Malvaldi, alle sue battute folgoranti e al suo non prendersi mai troppo sul serio, rivedo il primo Lippi, con in più una caratteristica che il Marcello non ha mai avuto: l’umiltà. Nell’anno più difficile, dopo tre mesi di incertezze, paure e mancati allenamenti, in un campionato impazzito e con risultati piuttosto sorprendenti, Sarri è riuscito a modificare innanzitutto se stesso, dimostrando di non essere per nulla un integralista, di sapersi adattare alle caratteristiche dei giocatori e di saperli prendere per mano nei momenti più difficili, quando troppi commentatori lo davano per finito e, probabilmente, già vergavano in segreto dei compiaciuti de profundis.
Del resto Sarri, per sua stessa ammissione, non può piacere a chi ama il glamour, l’apparenza, gli abiti firmati, le dichiarazioni roboanti, la retorica da strapazzo e i venditori di fumo. Al pari di Gattuso, è un uomo verace, schietto, burbero, senza peli sulla lingua e audace nello sfidare convenzioni, ipocrisie e ogni genere di falsità. Per questo, come ebbi modo di scrivere quando venne presentato un anno fa, bisogna stare attenti a uno così: può affondare ma può anche vincere tutto. E questa sembra essere la sua intenzione.

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