Abbiamo passato gli ultimi trent’anni a sostenere che le aree metropolitane, in cui si raccolgono le attività più avanzate quanto a ricerca, istruzione, sanità, innovazione tecnologica, produzione industriale, sono i luoghi che attraggono e formano talenti. Ambienti da rendere accoglienti perché siano capaci di trattenere il capitale umano, vero motore dello sviluppo. Perché le persone hanno anche delle necessità del tutto peculiari: una famiglia, degli hobby, fare sport, ascoltare musica, hanno preferenze estetiche, amano mangiare bene, frequentare bella gente. Vogliono soprattutto appartenere a una comunità. Una comunità ricca di stimoli, che supera la dimensione delle nostre tradizionali città e che è dotata di una propria identità. Di qui la necessità che sia dotata di un proprio assetto istituzionale.
Il fenomeno delle aree metropolitane non è stato programmato a tavolino, si è prodotto spontaneamente perché gli esseri umani sono attratti dagli ambienti più ricchi di stimoli, oltre che dalle opportunità di lavoro.
Ora leggiamo che l’home working è la nuova frontiera del lavoro. Fenomeno iniziato già da tempo nei paesi più avanzati, USA, Canada, ma anche Svezia e Belgio, ma che inevitabilmente si diffonderà, ostacolato soltanto dall’arretratezza della tecnologia e della disciplina dei rapporti di lavoro. Le città si spopoleranno, gli immobili grandi varranno meno, ristoranti e caffè si svuoteranno, cinema e teatri pure. La forma delle città cambierà.
La diffusione del virus Covid 19 ha accelerato negli ultimi mesi questo processo, ma non lo ha determinato. La causa risale all’innovazione tecnologica che rende possibili operazioni prima inimmaginabili. Soltanto, chi non ci aveva pensato prima si è reso conto ora che una serie di lavori possono essere eseguiti da remoto, con i risparmi che ne seguono, in termini di spazi di lavoro, tempi e costi di trasporto e, forse, produttività. Secondo i dati riportati il 26 luglio da Maurizio Molinari direttore di Repubblica, la percentuale di chi lavora in ufficio negli Stati Uniti si è ridotta al 26 per cento.
Accanto a questo fenomeno, anche le università – obbligate per qualche mese dalla pandemia a trasformarsi in università telematiche – sarebbero sulla strada di adottare questo metodo in via permanente, o quanto meno con larghezza. Mentre le università americane ben prima del Covid avrebbero capito l’affare: ridurre il personale docente – un corso on line si può replicare un numero infinito di volte – diffondere i propri corsi per il mondo, grazie al predominio linguistico, a modico costo, tagliare gli spazi, ridurre le presenze.
La formazione a distanza non è una scoperta di oggi. La famosa Scuola Radio Elettra è stata fondata nel 1951 e ha formato a distanza – senza neppure l’ausilio di uno schermo – più di un milione e mezzo di tecnici in Italia e all’estero, che hanno accompagnato la ricostruzione postbellica. Importante aggiungere che il servizio fornito dalla scuola era di alta qualità e personalizzato. La preparazione dell’allievo veniva periodicamente controllata, i “compiti” restituiti corretti, i materiali per le attività, sia cartacei, sia per costruire apparecchi, forniti gratuitamente per posta. Radio Elettra colmava un deficit della scuola pubblica, che non forniva neppure nelle professionali questo tipo di formazione, che escludeva tutte le persone prive della licenza di scuola elementare, che erano numerosissime. E accoglieva tutti, indipendentemente dall’età.
Pensare di respingere le possibilità che si offrono per effetto dei progressi della tecnologia – la diffusione della fibra prima di tutto – sarebbe assurdo. Non possiamo in nessun modo pensare di bloccare lo sviluppo della tecnologia. Così come è stato insensato e inutile pensare di opporsi alla globalizzazione, invece di lavorare per correggerla e governarla.
Per contro, sostenere che inevitabilmente cambierà tutto nell’insegnamento; che le attività in presenza, nel rapporto diretto con studenti e professori, possano essere (quasi) interamente sostituite, è una faciloneria, anzi un delitto. Non soltanto perché gli umani sono essere socievoli, come si è detto, ma specificamente perché l’apprendimento si giova moltissimo dello scambio diretto e della discussione.
Parallelamente, anche l’home working sarebbe una tendenza inarrestabile, cui sarebbe inutile opporsi. Si prospetta un mondo in cui i medici – che non potrebbero lavorare da remoto – contano meno e sono pagati meno di chi, lavorando da remoto, fa risparmiare forza lavoro e spese varie. Si prospetta un mondo in cui la società sarebbe sempre più atomizzata, con le conseguenze che si vedono già oggi, sulla politica e sulle istituzioni e in definitiva sulla nostra democrazia costituzionale.

Vengono in mente i temi dell’occupazione femminile nelle società moderne, anzi della scarsità dell’occupazione femminile. L’occupazione femminile è sicuro indice del grado di progresso di una società. Quante volte si è replicato che le donne inoccupate “lavoravano” anch’esse? Che faticavano, certo che sì, ma senza il lavoro dei maschi erano escluse dalla società. Non si confrontavano in un ambiente di lavoro in cui si muovevano soltanto uomini, non lo arricchivano né ne erano arricchite. Ora l’home working fa pensare al lavoro casalingo, non per i contenuti, certo, ma per le modalità sì. In qualche modo il lavoro da casa – se totalizzante – assomiglia alla situazione del lavoro domestico, in cui ci si confronta con il muro che si ha di fronte, o poco più. Anche il peana per il lavoro in pigiama suscita orrore: finora non è stato un lusso, ma un handicap, tanto che le professioniste obbligate per qualche ragione a lavorare da casa si infilano prima il tailleur, perché sia chiara la distinzione.
Ma poi, siamo sicuri che si lavori meglio da casa? Che siano destinate a lavorare da casa le persone più preparate e talentuose? Tanto che con l’home working – che richiede l’uso di tecnologie informatiche – si creerebbe un mercato globale dei talenti, perché lavorerebbero da remoto le persone più colte e preparate, a proprio agio con la nuove tecnologie. Siamo certi che una persona sia colta e abbia talento perché domina le nuove tecnologie? Che sono pur sempre dei mezzi, neppure troppo complicati da apprendere.
Siamo certi che molti lavori si possano fare da casa, che in particolare il lavoro delle varie pubbliche amministrazioni – profondamente diverso da quello che si svolge nelle aziende private – sia adatto a tale modalità? Quanto meno senza essere ripensato e riorganizzato appositamente? La pubblica amministrazione richiede spesso una dose di discrezionalità, l’impressione di chi scrive è che soltanto per i lavori più semplici e ripetitivi sia possibile in questo caso l’home working. Vale qui quel che si è detto sopra per l’apprendimento: il contatto e lo scambio con i colleghi (e i superiori) è fonte di idee ed evita gli errori.
Quindi sfruttare i vantaggi ed evitare i danni, soprattutto nel settore delle pubbliche amministrazioni, ripensarne semmai l’organizzazione in funzione del lavoro da remoto, organizzazione già oggi non brillante. Tra i vantaggi si può collocare ad esempio la valorizzazione dei risultati, che acquistano ancor più importanza (già oggi dovrebbero averla) se la valutazione del lavoro svolto non si misura più in ore di presenza in ufficio, ma in pratiche concluse o in progetti prodotti. Noi in Italia siamo alle prime armi, studiare le esperienze straniere s’impone come necessario.
Ma considerare inevitabile lo smantellamento della gran parte degli uffici con la motivazione del risparmio dei costi, di uffici e dipendenti, e il radicale mutamento dell’ambiente universitario per ragioni di puro marketing, no, a questo ci si deve opporre. Sono in gioco conseguenze gravi sull’atomizzazione della società di cui già patiamo le conseguenze.
Copertina: da Twitter Working from home…. @Notsocheekytay1

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