La Russia dopo il “non-proprio-un-referendum”

Gli scenari del potere e della società russa dopo la consultazione del 1° luglio che ha, tra gli altri effetti, il cosiddetto “zeroing”, che azzera di fatto il numero dei mandati della figura del presidente, lasciando a Putin la possibilità di candidarsi e restare al Cremlino fino al 2036.
ANNALISA BOTTANI
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2020 is the new 1976”. Questo, secondo Brian Whitmore, direttore del Russia Program presso il CEPA – Center for European Policy Analysis, è quanto sta avvenendo in Russia in questa fase storica, dopo la vittoria del sì al nationwide vote, definito anche il “not-quite-a-referendum” del 1° luglio (non ha, infatti, i requisiti legali per essere definito tale), che ha visto circa il 78 per cento della popolazione approvare la riforma della costituzione in vigore dal 4 luglio. Agli elettori non è stata data la possibilità di esprimere, dal 25 giugno al 1° luglio, il proprio giudizio sui singoli emendamenti proposti (complessivamente 206), se non approvandoli in blocco con uno “yes-or-no-vote”. Emendamenti, peraltro, molto diversi tra loro: dall’inserimento della fede in Dio nella costituzione alla definizione di un unico modello di matrimonio, ossia l’unione tra uomo e donna, dal rafforzamento delle garanzie sociali, come il salario minimo, alla ridefinizione dei poteri del presidente e del parlamento, solo per citarne alcuni. Tra questi, un emendamento non particolarmente “valorizzato”, secondo molti analisti, è proprio quello che ha destato maggiori proteste: il cosiddetto “zeroing”, che azzera di fatto il numero dei mandati della figura del presidente, lasciando a Putin l’eventuale possibilità di candidarsi e restare al potere, se riterrà, almeno per altri due mandati, ossia fino al 2036. In realtà questo emendamento si applica solo all’attuale presidente in quanto è previsto nella nuova costituzione il divieto di essere eletto presidente per più di due volte. 

Perché il 1976, dunque? 

Nel 1976, mentre il Partito comunista si apprestava a preparare il 25° Congresso del Partito, Leonid Brezhnev, prossimo ai settant’anni, avrebbe dovuto ritirarsi l’anno successivo. Ma non lo fece. Nessuno sa se fu una sua decisione o fu convinto dalla leadership sovietica. Nel 1977 il Congresso lo rielesse all’unanimità e rimase al potere fino all’anno della sua morte, il 1982. Ciò che seguì fu un periodo di “stagnazione”, noto anche come застой (zastoi), che portò a un periodo di reale agonia per il regime. 

Ma torniamo al 2020. Whitmore osserva che a gennaio Putin parlò al parlamento di riforme costituzionali, preparando apparentemente il terreno per la fine del proprio mandato e per un eventuale successore e apprestandosi ad esercitare la propria influenza in un altro ruolo di rilievo. Ma il “referendum” si è rivelato, tuttavia, un diversivo per prendere il potere e consentire eventualmente a Putin di governare fino al 2036. In termini di reale legittimità popolare, i risultati del referendum

hanno lo stesso valore della rielezione di Brezhnev da parte del Partito comunista 44 anni fa.

Come noto, in Russia, quando si parla di elezioni, non bisogna badare al risultato, considerati i numerosi brogli che spesso le caratterizzano, ma alla loro efficacia in termini di “rituali di legittimazione”. Una legittimazione che per Putin, secondo il giornalista Leonid Ragozin, è stata minata profondamente. E, sottolinea Whitmore, non dobbiamo pensare che in Russia vi siano reali “elezioni”, ma proiezioni di un film su un’elezione. E in questo caso è mancato uno storytelling convincente sul perché fosse necessario per Putin rimanere al potere: nessuna promessa di ripristinare l’ordine, come nel 2000, o di elevare gli standard di vita, come nel 2004, o, ancora, di ridare alla Russia il ruolo di potenza internazionale, come nel 2012. 

Dunque, una condanna alla stagnazione fino all’agonia. 

Secondo l’analista politica Tatiana Stanovaya, fondatrice di R. Politik, il regime putiniano non solo è diviso, ma è privo di una strategia, di una visione del futuro (già dal 2018). Un elemento che è emerso con evidenza durante la crisi legata al Covid e a seguito del crollo del prezzo del petrolio. Putin, ormai inaccessibile, non sembra essere interessato a individuare una nuova direzione, è assente dall’agenda politica nazionale e desidera evitare di prendere decisioni, lasciando baccagliare le élites che lo circondano senza schierarsi. L’unico fattore che unisce le diverse componenti dello Stato è la lotta contro “nemici” interni ed esterni, in un rimpallo di responsabilità tra i diversi livelli di autorità. A questo si aggiunge una completa “erosione delle regole” in cui vengono infrante anche quelle informali che il governo ha stabilito. A Putin, sempre secondo Stanovaya, interessano la crescita economica e la “calma” politica: l’importante è che tutto proceda senza caos, evitando, dunque, eventi come le proteste della scorsa estate o l’arresto del giornalista, poi rilasciato, Ivan Golunov. Ma se tutte le decisioni vengono prese senza seguire una linea, in base alle circostanze, alle emozioni, a richieste di Putin avulse dalla realtà o dalla legge, allora è la stabilità stessa ad essere a rischio.

Tra le decisioni prese solo per seguire il volere di Putin rientra proprio il “referendum” costituzionale. Per modificare la costituzione non era, infatti, richiesto un voto pubblico, ma è stato organizzato per volontà di Putin. Certamente il regime non rischia di collassare perché è ancora capace di resilienza e “supportato” dalla paura della popolazione, che teme un peggioramento della condizione del paese, ma si espone all’incapacità di dialogare con una società civile caratterizzata da un maggior grado di attivismo politico e alla possibilità di perdere la propria coesione e una voce unitaria. In un clima di disgregazione simile alcuni gruppi di potere potrebbero avvicinarsi a chi manifesta il proprio malcontento, rendendo tale contatto un asset, e il processo permanente di destabilizzazione potrebbe trasformarsi in una tattica di sopravvivenza per le élites.

E proprio il rapporto tra Putin ed élites è centrale, secondo Stanovaya, per capire non solo quanto sta accadendo, ma anche le motivazioni che hanno spinto Putin a indire il “referendum”. L’analista ritiene che le élites siano state e siano tuttora motivo di preoccupazione per il presidente. Il voto è stato il tentativo di ottenere un attestato di fiducia da parte dell’elettorato da mostrare ai gruppi di potere, una sorta di sigillo per imporre le proprie decisioni, forte del mandato popolare. Se torniamo al 2000, è stata proprio la cosiddetta “Putin Majority” a consentire al neopresidente di eliminare le élites e i governatori legati a Yeltsin. Nel tempo, tuttavia, i gruppi di potere accanto a Putin sono divenuti autonomi e l’agenda dei due soggetti spesso non coincide. Grazie al cosiddetto “zeroing” non è più in discussione il futuro dopo il 2024 (ossia l’anno di conclusione del mandato putiniano). Monopolizzando il dibattito su ciò che avverrà in futuro, Putin, dunque, sta tentando di placare le élites, accantonando la questione della transizione. Tuttavia, un aspetto determinante secondo Stanovaya è la diversa interpretazione da parte di Putin e dei gruppi di potere di questo “mandato” popolare. In particolare, tali gruppi hanno una visione pragmatica e sono ben consapevoli delle dinamiche che caratterizzano le elezioni in Russia. Quel 78 per cento circa di consensi potrebbe essere, dunque, interpretato come un 25 per cento o come una totale assenza di fiducia. Secondo Grigory Melkonyants, co-presidente dell’associazione indipendente Golos, intervistato dal Moscow Times, queste elezioni sono state le “meno trasparenti” della storia del paese, escludendo quelle che si sono svolte dopo il crollo dell’Unione Sovietica naturalmente.

Non abbiamo mai ricevuto così tante lamentele da parte degli elettori che hanno dichiarato di aver subito molte pressioni in vista del voto,

ha confermato Melkonyants.

Vi sono prove concrete della mobilitazione forzata da parte delle società dei propri dipendenti in vista del voto, inclusi alcuni bibliotecari di San Pietroburgo, i medici di Arkhangelsk e di Vladivostok in prima linea contro il Covid, solo per citare alcuni esempi. I dipendenti di Yegoryevsk Today, una stazione televisiva di stato della regione di Mosca, sono stati costretti a votare due volte, nel proprio seggio di riferimento e, dopo essersi “de-registrati”, nel seggio della città di Yegoryevsk per essere sulla lista del “referente” di turno. E non parliamo solo di costrizione, ma anche dell’elaborazione di sistemi per tracciare le persone tramite l’assegnazione, secondo quanto riportato da Reuters, di codici QR alle persone indotte a registrarsi alle liste elettorali con la promessa di vincere appartamenti o automobili messi in palio da lotterie allestite presso i seggi elettorali. Meduza ha rivelato che alcune società hanno ottenuto i codici QR non dalle firme volontarie, ma caricando la lista dei dipendenti direttamente dal sito. In altri casi le persone “minacciate” hanno dovuto mostrare ai propri responsabili lo screenshot per attestare il proprio voto.  

Nel tentativo di mettere al loro posto i “clan”, Putin sta ridefinendo in maniera unilaterale “nuove linee rosse”, rendendo più pragmatiche le relazioni e indebolendo la coesione con questi gruppi di potere. Il tentativo di restare in questo “passato evanescente” spaventa non solo l’opposizione, ma anche una parte dell’establishment che desidera progredire. 

E a proposito di “contratto con il popolo”, al di là dello zeroing, l’obiettivo di Putin, secondo Andrei Kolesnikov, senior fellow e presidente del Russian Domestic Politics and Political Institutions Program al Carnegie Moscow Center, è quello di sancire i valori della “Putin majority” (ad esempio, definendo la “famiglia” solo come l’unione di un uomo e di una donna). E sancire qualsiasi tipo di ideologia di stato per legge va contro la costituzione precedente dell’epoca Yeltsin (1993) che vietava qualsiasi tipo di ideologia. In realtà ciò che emerge è una costituzione putiniana nuova di zecca che ha la stessa “cover” di quella di Yeltsin. I valori ultraconservatori della nuova costituzione, secondo Kolesnikov, sono artificiali quanto l’idea di una comunità mitica detta “majority”. Il Presidente ha creato un’ideologia che è la fusione di “frammenti dei cliché della propaganda sovietica e altre banalità semi-patriottiche”. Un mix tra la triade comunista “Lenin, Party, Komsomol” con quella del Conte Sergey Uvarov “Ortodossia, Autocrazia, Nazionalità” in auge ai tempi dello Zar Nicola I. E la “maggioranza” in questione deve convincersi che questi valori sono fondamentali per la propria sopravvivenza e renderanno di nuovo grande la Russia. Il costrutto di cui parliamo non è stato definito oggi, ma è frutto di un lavoro paziente che ha portato a ridefinirne i valori in base alle esigenze dello Stato, dal 2000 ad oggi, passando per il 2014 (“Putin Majority 2.0”, rafforzata dalla comparsa dei nemici – l’Occidente e i cosiddetti “liberals”), anno di annessione della Crimea. Il collante dell’attuale “majority”, secondo la visione putiniana, è composto da storia, glorie militari, vittorie dell’era staliniana, potenza industriale e fede ortodossa. Tuttavia, la base per questa “Putin Majority 3.0” è debole, la mobilitazione del settore pubblico è bassa se comparata con quella iniziale ai tempi della crescita economica e la business community si è sentita abbandonata dallo Stato durante la crisi legata al Covid.

Il quesito da porsi per Kolesnikov è questo:

Perché Putin ha bisogno di un voto pubblico se gli emendamenti sono stati già approvati dal Parlamento?.

Perché “ha bisogno del voto per convincere se stesso e il popolo che davvero esista la ‘Putin Majority 3.0’”. E soprattutto la rende complice del suo progetto. Se qualcosa non dovesse andare secondo i piani, Putin potrà sempre cercare di “condividere la responsabilità” di quanto accade in quanto il modello di governance è stato approvato dal popolo. Che questo tipo di assunto sia convincente è tutto da vedere, visto lo scarso successo dei precedenti referendum.  

Al di là delle manovre di palazzo, cosa sta accadendo nella Russia “reale”?

Una nuova ondata di repressioni sta colpendo il paese. Secondo Vladimir Gelman, docente alla European University di San Pietroburgo e all’Università di Helsinki, il regime sta consolidando il proprio mandato manifestando

un chiaro desiderio di punire contemporaneamente alcuni oppositori e intimidirne altri in un clima di crescente malcontento pubblico.

Per l’analista politico Mikhail Shevchuk il Cremlino non finge neanche più di presiedere uno stato basato sulla legge, mentre per l’analista Ilya Klishin tra gli oppositori è emersa anche l’idea di una possibile analogia con il 1937, anno che ha segnato il culmine del grande terrore staliniano. Per Klishin forse questo non è esattamente un “nuovo 1937”, ma è decisamente preoccupante. 

E sono i casi giudiziari che dominano la scena politica a destare maggior preoccupazione. Tra questi rientra sicuramente la giornalista Svetlana Prokopyeva che ha rischiato una condanna a sei anni di reclusione per aver scritto un articolo su un diciassettenne che ad Arkhangelsk ha commesso un attentato suicida in un palazzo dell’FSB. Le è stata risparmiata la reclusione, ma è stata condannata a pagare una sanzione pecuniaria (7.000 dollari) ed è stata giudicata colpevole di apologia del terrorismo. Secondo quanto riportato da Evan Gershkovich del Moscow Times, per la giornalista sembra sia iniziata una guerra tra servizi segreti e giornalisti, considerati nemici da perseguire.  

Un altro caso che ha colpito l’opinione pubblica è quello del giornalista Ivan Safronov, che in passato ha lavorato per Vedomosti e Kommersant e poi divenuto (da maggio) un consulente di Dmitry Ragozin, a capo dell’agenzia spaziale di stato Roskosmos. L’accusa rivolta a Safronov è di aver venduto alla Repubblica Ceca informazioni segrete sul commercio di armi russe in Medio Oriente. Rischia venti anni di galera con l’accusa di tradimento, ai sensi dell’articolo 275 del Codice penale russo. Roberto Coalson di Radio Free Europe Radio Liberty ricorda che l’ultimo arresto con l’accusa di tradimento è avvenuto nel 1997, ai danni del giornalista Grigory Pasko. Secondo l’associazione di tutela legale Komanda 29, attualmente sono almeno 23 (incluso il caso Safronov) le indagini aperte legate ad accuse di tradimento o spionaggio. 

Andrei Soldatov, giornalista d’inchiesta, ritiene che il caso Safronov rappresenti un nuovo livello di repressione contro i giornalisti del paese. Prima del 2012, aggiunge, l’FSB doveva faticare per incriminare i giornalisti con l’accusa di tradimento proprio per come era formulata la legge. Quando l’articolo è stato riscritto su “impulso dell’FSB”, le regole sono cambiate. Ma tutti pensavano che le nuove vittime sarebbero stati gli esperti, non i giornalisti. Peraltro, la legge non specifica quali siano le informazioni riservate, lasciando la decisione alle agenzie governative. La lista delle informazioni segrete è spesso segreta. Il gruppo a rischio non comprende solo giornalisti, ma può anche colpire soggetti con contatti internazionali, tra cui ricercatori, accademici e attivisti per i diritti umani. La differenza tra il caso Prokopyeva e quello di Safronov, secondo la giornalista della Novaya Gazeta Yulia Latynina, è data dalla tipologia di prove. Per la Prokopyeva le prove erano pubbliche, mentre nel caso Safronov non sono accessibili in quanto legate al segreto di stato. 

Secondo la giornalista Yevgenia Albats, direttrice del sito web The New Times,

sembra che i giorni vegetariani siano finiti e il cannibalismo comparirà sempre più spesso… Viviamo in un paese ove comanda il KGB (attuale FSB, n.d.r.).

Come riportato da Steve Rosenberg della BBC, una nuova legge in fase di approvazione prevede che “la pubblicazione (distribuzione e diffusione) di informazioni sull’FSB” non sia consentita “senza la necessaria approvazione da parte dell’FSB stesso.” Tale parte non specifica i soggetti cui è vietata la pubblicazione di informazioni (ossia, ex dipendenti della Struttura), ma si applica a tutti. 

“Chiediamo un referendum sugli emendamenti alla Costituzione!”, “No – agli usurpatori del potere dal Cremlino!”, “È tempo di cambiare potere!”, “Libertà per i prigionieri politici!”
Tra i manifestanti sono visibili le bandiere del Fronte di sinistra, il Partito comunista della Federazione russa, il Partito della Causa, l’Altra Russia, Novorossiya e l’OPR.

L’11 giugno il Dossier (Dosye) Center, fondato da Mikhail Khodorkovsky, ha pubblicato un report frutto di interviste a diverse dozzine di esperti, inclusi ex dipendenti e funzionari in carica dell’FSB e persone che per diverse ragioni sono state costrette ad avere a che fare con la Struttura. Nel report si afferma che l’FSB è ormai divenuto un “secondo governo” che ha il controllo su altre istituzioni governative, tra cui, ad esempio, il ministero della Difesa, l’Investigative Committee, l’ufficio del Procuratore generale, il ministero dell’Interno e, in alcuni casi, i tribunali, elemento, quest’ultimo, che viola di fatto l’indipendenza del potere giudiziario. 

Secondo Stanovaya, i servizi di sicurezza puntano al massimo della pena, mentre il lavoro dell’amministrazione presidenziale è quello di non far “agitare” il capo. La tattica sarebbe, dunque, un compromesso tra le diverse fazioni, evitando scocciature alle autorità, ma mandando, nel contempo, un messaggio ai ribelli che non si dimostrano “leali”. 

Nel mirino di Putin e del suo entourage non poteva che finire Alexei Navalny che ha annunciato la chiusura della sua Fondazione Anticorruzione (FBK) dopo almeno un decennio di inchieste sulle autorità russe. Sul suo sito, il 20 luglio, Navalny ha dichiarato di essere stato costretto a chiudere l’associazione a causa di una causa intentata dalla Moscow Schoolchild Food Company, associata al noto Yevgeny Prigozhin (il cosiddetto “Chef di Putin”). Secondo quanto riportato da Radio Free Europe Radio Liberty, probabilmente creerà un’altra associazione legale. Navalny ha affermato che lui e Sobol ormai non possono più fare nulla al riguardo e non trovano più valide motivazioni per continuare a provare a raccogliere i soldi. Fino a quando Putin sarà al potere, vivranno con conti bloccati e ufficiali giudiziari che confiscano le loro proprietà a favore dello “Chef”. Nei giorni scorsi Navalny è stato costretto anche a pagare due sanzioni pecuniarie (4.140 dollari) per aver violato la “Foreign AgentLaw

A Navalny è stato, inoltre, vietato di lasciare Mosca in quanto è indagato per presunta diffamazione nei confronti di un veterano della Seconda Guerra Mondiale che ha sostenuto il pacchetto delle riforme costituzionali in un video promozionale. Secondo Navalny, questa mossa mira a evitare che possa girare per la Russia, in vista delle elezioni regionali che si terranno a settembre, per tre giorni, dall’11 al 13 (a seguito di una legge approvata nei giorni scorsi dal Parlamento, con il benestare del Cremlino e della Central Electoral Commission), ove intende promuovere il meccanismo dello smart voting, utilizzato in precedenza, per minare il Partito dominante Russia Unita.  


“Chiediamo un referendum sugli emendamenti alla Costituzione!”

Al di là del consenso del 78 per cento circa, la società civile sta reagendo, consapevole delle conseguenze che l’esito del referendum costituzionale porterà al paese. Già il 15 luglio a Mosca, centinaia di manifestanti, privi di autorizzazione, si erano riversati in Pushkin Square per protestare contro le riforme costituzionali e lo “zeroing” al grido di “We want changes” e “Russia without Putin”. Ma a queste proteste ne sono seguite altre, ad oltre seimila chilometri di distanza da Mosca, nella regione di Khabarovsk, al confine con la Cina, nel Far East, a seguito dell’arresto il 9 luglio del “Governatore del popolo” Sergei Furgal del Liberal Democratic Party of Russia (LDPR). Secondo quanto riportato da Evan Gershkovich del Moscow Times, decine di migliaia di manifestanti pacifici hanno marciato e stanno marciando da oltre tre settimane, inizialmente, per supportare il governatore deposto (che aveva battuto alle elezioni del 2018 il candidato di Russia Unita), poi per protestare contro l’insediamento del nuovo Governatore, Mikhail Degtyaryov del medesimo partito di Furgal (che non proviene da questo territorio e non vi ha mai vissuto). Una decisione che ha provocato un’ondata di rabbia nei confronti del Cremlino. I manifestanti avevano deciso di mantenere il focus delle proteste su Furgal, chiedendo il trasferimento del processo a Khaborovsk (non a Mosca), ma, a seguito della nomina del nuovo governatore, qualcosa è cambiato. Uno dei manifestanti ha dichiarato che il Cremlino era sicuro di aver placato le proteste perché il nuovo candidato è del partito LDPR, ma non è ciò che la piazza chiede ora. Un giovane ventitreenne ha confermato, infatti, che “le discussioni nei gruppi delle chat hanno assunto un tono più antigovernativo.” Tanti elementi hanno dato impulso al malcontento: il rifiuto del nuovo governatore di incontrare i manifestanti che ha attribuito la responsabilità delle proteste a stranieri provenienti da Mosca e poi la decisione di non fermarsi in città, ma di compiere un tour della regione.  

Da “Furgal was our choice” e “shame on LDPR” si è passati ad altri slogan diretti al Cremlino, tra cui “Twenty years, no trust”, “We can’t be bought”, “Putin resign”. Tutto questo, malgrado la promessa del primo ministro Mikhail Mishustin di allocare oltre 18 milioni di dollari a favore della regione, secondo quanto riportato da Degtyaryov. La polizia ha cominciato a reagire accusando alcuni manifestanti di aver organizzato manifestazioni non autorizzate, mentre alcuni attivisti legati a Navalny e Khodorkovsky sono stati attaccati da ignoti. Secondo gli ultimi sondaggi del Levada Center, riportati da Steve Rosenberg, l’83 per cento dei russi è a conoscenza delle proteste e il 45 per cento le vede di buon occhio (contro il 17 per cento contrario). 

Sarà interessante capire, inoltre, come la società civile reagirà nei prossimi mesi anche ai diversi cambiamenti che il governo sta apportando alla normativa vigente su temi molto sensibili e delicati. Una dinamica che si potrà osservare soprattutto nel breve e medio periodo. In primis, la decisione di definire nella Costituzione il matrimonio quale unione tra un uomo e una donna. È già in fase di elaborazione una legge per modificare il Codice di famiglia e vietare i matrimoni gay e le adozioni, modifica che andrà a colpire la comunità transgender. Attualmente, il Codice di famiglia riconosce i matrimoni registrati all’estero purché non siano tra parenti stretti o già registrati. Matrimoni all’estero tra persone del medesimo genere sono stati riconosciuti in almeno due casi dal 2018 (incluso quello di un importante attivista LGBT), mentre quattro matrimoni transgender sono stati registrati in Russia dal 2014. Tuttavia, la legge del 2013 (la cosiddetta “propaganda law”) è stata utilizzata per cancellare gay pride, eventi della comunità e mettere a tacere gli attivisti. I nuovi provvedimenti potranno esacerbare ulteriormente le forme di discriminazione già in essere. Lo dimostra il video omofobo che è circolato prima del referendum, prodotto da un gruppo mediatico collegato a Prigozhin. Secondo quanto riportato dall’Independent che ha raccolto la testimonianza del capo del Network LGBT russo, Igor Kochetkov, “analizzando la ridotta diffusione iniziale, era stato pensato come un test” per vedere quali reazioni suscita l’omofobia nell’elettorato. In realtà, secondo un sondaggio dello scorso anno, metà dei russi ritiene che la comunità LGBT debba avere pari diritti.

Altri emendamenti, talvolta pubblicati sul portale ufficiale, secondo quanto riportato dal giornale online Riddle, un giorno prima della terza lettura e del voto finale, modificheranno, invece, la legge elettorale, vietando ad alcuni candidati colpevoli di crimini previsti da cinquanta disposizioni del Codice penale russo di presentarsi alle elezioni, cambiando le regole per la raccolta delle firme necessarie ad un candidato e promuovendo diverse forme di votazione, tra cui quella elettronica, postale, presso cabine elettorali mobili etc. Tutto questo limiterà la possibilità per i candidati indipendenti di partecipare alle elezioni, creando i presupposti per favorire eventuali frodi, la mancanza di trasparenza e l’abuso delle cosiddette risorse amministrative. 

Un altro emendamento che, secondo alcuni, potrebbe limitare la libertà di espressione riguarda la questione della “territorial integrity”. È in fase di approvazione una legge che sembra rappresentare un chiaro richiamo a coloro che contestano l’annessione della Crimea e che prevede dieci anni di carcere in caso di richiesta (parliamo anche di appelli pubblici tramite social network e media) di cessione del territorio. L’attuale normativa, adottata dopo il 2014, stabilisce una pena di almeno cinque anni per chi commette un reato simile, definendo “estremisti” coloro che ripetutamente “violano l’integrità territoriale della Russia, incluso il trasferimento di parte del suo territorio”, prevedendo una pena da sei a dieci anni di prigione. Ora è incostituzionale cedere qualsiasi parte del territorio russo a una potenza straniera. A tale proposito, ricordiamo anche che la Russia è coinvolta in una disputa pluridecennale anche con il Giappone per alcune isole situate nel Pacifico.  

Un altro emendamento che ha destato polemiche e potrebbe avere conseguenze sulle relazioni internazionali è quello che sancisce la “supremazia” della legge russa su quella internazionale. Secondo il ministro degli Esteri Sergei Lavrov, i cambiamenti apportati sono “legittimi” e il paese assicura il rispetto dei vincoli e degli impegni presi nei diversi consessi internazionali, solo se non sono in contrasto con la costituzione. Proprio su questo punto si è espressa la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa che ha ribadito l’obbligatorietà delle disposizioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per tutti i membri del Consiglio d’Europa. La Commissione ha espresso la preoccupazione che gli emendamenti che conferiscono il potere alla Corte costituzionale russa di dichiarare una decisione internazionale non applicabile contraddicano gli obblighi della Russia previsti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo.  

Picchetti per il referendum sugli emendamenti alla Costituzione

Anche sul tema della ridistribuzione dei poteri tra Presidente e Parlamento, secondo Meduza, vi sono discrepanze tra quanto previsto dalla nuova costituzione e quanto dichiarato. Secondo le modifiche, il Parlamento nominerà il primo ministro, i ministri e i viceministri. Putin ha dichiarato, dunque, che il presidente ha ceduto al Parlamento poteri significativi: il Parlamento prende la decisione finale sul capo del governo e sui ministri e il presidente non ha il diritto di rifiutarli. Sempre secondo Meduza, tuttavia, gli emendamenti cambiano solo la formulazione della procedura per la nomina del primo ministro. Secondo la nuova versione, “il primo ministro della Federazione Russa viene nominato dal presidente della Federazione Russa dopo l’approvazione della sua candidatura dalla Duma”, così recita il primo paragrafo della nuova versione dell’articolo 111. Tuttavia, la procedura di approvazione non differisce dalla vecchia procedura del “dare il consenso”. La Duma deve valutare il candidato su indicazione del presidente. Ma il presidente non è più vincolato all’obbligo di sciogliere la Duma se questa rifiuta i candidati proposti per tre volte. In caso questo avvenga, il presidente può semplicemente nominare il primo ministro: lo scioglimento (o meno) è lasciato alla sua discrezione. Poi certamente il parlamento vedrà, comunque, un rafforzamento dei propri poteri, anche se vi sono molte eccezioni in cui è previsto l’intervento presidenziale.

Ricordiamo anche che il presidente continuerà a nominare i ministeri di peso, tra cui quello della Difesa e degli Esteri, ad esempio, dopo una consultazione con il Federation Council. Avrà, inoltre, ampio margine di manovra in caso di dimissioni del primo ministro. Con la nuova costituzione tali dimissioni non porteranno allo scioglimento di tutto il gabinetto che continuerà ad essere operativo, a differenza di quanto avveniva in precedenza.  

Non dobbiamo dimenticare anche l’introduzione di nuovi criteri e requisiti cui dovranno sottostare i candidati presidenziali e gli alti funzionari e il riconoscimento ufficiale nella costituzione del Consiglio di Stato che dovrà dare un orientamento in termini di policy nazionali e internazionali e di priorità socioeconomiche.

Si apre, dunque, uno spazio politico in cui vengono introdotte nuove variabili non sempre chiare, in termini di peso e rilevanza istituzionale, conferimento e transizione di poteri. 

Resta, tuttavia, da vedere come sarà gestito questo potere “in transizione”, tra le pressioni delle élites, la reazione della società civile e le relative proteste, la capacità di Putin di controllare gli scenari politici di medio e lungo periodo. Il tutto in un paese che è ancora alle prese con l’emergenza Covid: al 29 luglio sono 828.990 i contagiati e 13.673 i morti. Durante il discorso del 21 luglio Putin ha annunciato la decisione di accantonare per ora l’ambizioso obiettivo di divenire una delle cinque più grandi economie al mondo, prevedendo nuovi target economici e sociali e resettando i “national development goals” precedenti.

Tra gli obiettivi posticipati dal 2024 al 2030, rientrano l’innalzamento dell’aspettativa di vita (a 78 anni) e la riduzione della povertà. Il tutto a causa di “condizioni economiche globali sfavorevoli, che rallenteranno lo sviluppo di tutti i paesi, senza eccezioni”, per usare le parole del portavoce di Putin Dmitry Peskov. La ripresa economica russa, secondo alcune previsioni, dopo la pandemia sarà più lenta rispetto a quella di altri paesi. In base alle statistiche ufficiali del 2019, circa 18 milioni di russi vivono sotto la soglia di povertà, con un reddito medio mensile pari a meno di 154 dollari. 

La strada sembra, dunque, tutta in salita e il 2036, in uno scenario politico imprevedibile, ancora molto lontano. 

La Russia dopo il “non-proprio-un-referendum” ultima modifica: 2020-07-29T20:27:32+02:00 da ANNALISA BOTTANI
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