Ora che la piazza gli si rivolta contro, ora che la disastrosa conduzione dell’emergenza Covid-19 gli ha alienato i favori di una parte del suo elettorato, ora che non è più il “Re d’Israele”, ora che dalle finestre della sua residenza ufficiale a Gerusalemme e in quella privata di Cesarea, vede e ascolta i manifestanti chiedere a gran voce le sue dimissioni, Benjamin “Bibi” Netanyahu evoca uno scenario funereo che lo riporta indietro nel tempo.
Nel pomeriggio del 18 ottobre 1995, solo poche settimane prima dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, il leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu partecipò a un incontro del Likud alla Knesset. Il segretario del partito prese rapidamente i verbali con una penna rossa; si trovano ancora oggi nell’archivio Jabotinsky. Erano i giorni più feroci delle proteste guidate da Netanyahu contro gli accordi di Oslo II, proteste che raggiunsero il loro apice con la manifestazione a Zion Square, nel cuore della Gerusalemme ebraica. Netanyahu prende la parola dal balcone che domina la piazza mentre la folla grida: “Nel sangue e nel fuoco bandiremo Rabin”. Accanto a Netanyahu c’erano i membri del Likud più moderati, tra i quali David Levy. Il discorso di Levy è interrotto dalle decine di migliaia di manifestanti, e quando il parlamentare scende dal palco dice con rabbia: “La folla convogliata qui sta danneggiando la lotta per la Terra di Israele più del più grande dei sinistrorsi”. Levy, Benny Begin e Dan Meridor abbandonano la protesta in disaccordo.

Chi scrive era presente in quei giorni in Israele. Ho visto di persona le manifestazioni organizzate dal Likud e dalla destra israeliana contro “il traditore Rabin”. Ho visto i cartelli che mostravano il premier laburista in divisa delle SS o con la kefiah. E ho ascoltato le invettive che dal balcone che dominava Zion Square, i leader del Likud lanciavano contro Rabin. E tra i più infervorati era proprio Benjamin Netanyahu. Ed è in quel clima di odio che è maturato l’assassinio di Yitzhak Rabin, ucciso, nella notte del 4 novembre 1995, da un giovane estremista di destra, Yigal Amir, ancora oggi considerato “uno di noi” dagli ultras estremisti-squadristi del Beitar Jerusalem, in prima fila nelle aggressioni ai manifestanti anti-Netanyahu.
Annota Gidi Weitz, tra le firme di punta di Haaretz:
Una volta c’erano persone con libertà di pensiero nel Likud. Oggi, Amir Ohana, David Amsalem, Nir Barkat e i loro colleghi sono un coro di prigionieri che cantano con una sola voce. Alla fine di quella manifestazione, alcune centinaia di persone marciarono in direzione della Knesset, cercando di irrompere nella piazza davanti all’edificio e vandalizzarono le auto dei ministri. Nel frattempo, Rabin era stato attaccato al Wingate Institute e lo Shin Bet (il servizio di sicurezza interno israeliano, ndr) aveva avvertito di un tentativo di colpirlo. Passarono due settimane e la fazione del Likud alla Knesset si riunì, e in quell’occasione Netanyahu attaccò Rabin: “Deve smettere di essere l’incitatore nazionale”, tuona, accusando e Rabin di istituire “truppe d’assalto” e “milizie” con i suoi sostenitori per difendere il governo nelle strade. Mi ricorda Ceausescu, scandisce Netanyahu, menzionando esplicitamente il nome del dittatore rumeno, per poi rincarare la dose di attacchi personali sostenendo che “il peggior incitamento viene da Rabin”, che cerca di “calunniare l’opposizione popolare” e ci chiama “collaboratori di Hamas” e “movimento fascista”. ”Con noi l’estremismo viene dalla strada”, chiarisce ai suoi colleghi, mentre per il Partito laburista, “l’estremismo viene dall’alto”.
Questa performance dimenticata riflette l’anima più intima di Netanyahu. Non sarebbe l’ultima volta che l’uomo più determinato, talentuoso e brutale della politica israeliana si trasforma in vittima in una scena in cui il ruolo riservatogli è quello dell’aggressore. Questo schema si ripete di volta in volta durante la sua carriera, e diventa ancora più estremo col passare del tempo, radicalizzando la destra.
Sì, questa destra mi fa paura – dice a ytali Noa Rothman, la nipote del premier laburista – Per quello che è diventata, qualcosa di altro rispetto a ciò che per decenni il Likud era stato: una forza conservatrice, certo, ma che non aveva mai sposato le posizioni più estreme, avventuriste, che erano proprie di frange minoritarie di una destra estrema. Pur di restare al potere, con un cinismo senza eguali, Netanyahu ha radicalizzato le posizioni del suo partito, alimentando un clima di odio, arrivando ad evocare la sollevazione della piazza contro un inesistente ‘golpe legale’ del quale si sarebbe fatto strumento una persona per bene e un giudice di specchiata onestà intellettuale e indipendenza, qual è il procuratore generale d’Israele, Amichai Mandelblit. Questo è un atto allo stato di diritto, condotto da un politico che pur di non sottoporsi, come ogni cittadino, al giudizio di un tribunale, tiene in ostaggio un paese, impone nuove elezioni e rivendica impunità davanti alla Legge. Una cosa del genere non si era mai vista. Israele rivendica, giustamente, di essere l’unica vera democrazia in Medio Oriente. Lo è non perché si vota, ma perché esiste una magistratura indipendente, una stampa indipendente… È questo che fa paura a Netanyahu, che ha trasformato un magistrato, peraltro da lui nominato, nel peggiore degli ayatollah. Oggi il grande pericolo per Israele viene dall’interno, da un politico che non ha il senso delle istituzioni e del bene nazionale
Per anni, sua nonna, Leah Rabin, la moglie di Yitzhak, si rifiutò di stringere la mano a Netanyahu. Già malata (Leah è morta il 12 novembre del 2000 per un tumore ai polmoni), alla fine quel gesto lo compì. Il tempo – chiediamo a Noa Rohtman – lenisce il dolore?
No – risponde senza tentennamenti – , quando il dolore è così forte, straziante, il tempo non fa da anestetizzante né cancella la memoria di quell’atto che non ha stravolto la vita di una famiglia ma ha cambiato la storia d’Israele e del Medio Oriente. Quello di mia nonna fu un gesto che non equivaleva a un perdono ma che era un tributo alla memoria di suo marito, di mio nonno, del primo ministro d’Israele che aveva provato a far vincere le ragioni della speranza su quelle dell’odio. Ma questo Netanyahu non l’ha compreso. E oggi continua a comportarsi da avvelenatore dei pozzi della democrazia.
Quando iniziarono le indagini penali contro di lui per aver accettato favori e aver stretto accordi di corruzione con gli editori, “Bibi” ha saputo costruire con successo un’immagine del mondo capovolta e contorta. In esso, lui era la preda, e una banda di cacciatori corrotti dello “stato profondo” aveva voluto “mandarmi in prigione”.
Questa visione del mondo, a cui lui crede con tutto il cuore – rimarca ancora Gidi Weitz – è ciò che gli ha dato la legittimità di attaccare con eccezionale ferocia gli investigatori e i procuratori che hanno osato pensare che le prove contro di lui giustificassero la presentazione di accuse. Questa performance dimenticata per i membri del Likud alla Knesset, riflette l’indole più intima di Netanyahu. Non sarebbe l’ultima volta che l’uomo più determinato, talentuoso e brutale della politica israeliana si trasforma in vittima in una scena in cui il ruolo riservatogli è quello dell’aggressore. Questo schema si ripete di volta in volta durante la sua carriera, e diviene ancora più estremo col passare del tempo.
Un suo stretto collaboratore, che conosce dal di dentro i sistemi di sicurezza che circondano Netanyahu, gli ha chiesto se faceva sul serio. “Sei davvero convinto che la tua vita sia in pericolo?”. “Certamente”, gli ha risposto il premier. “La mia vita e quella della mia famiglia”.
Il suo interlocutore, raccontano, senza ombra di smentita, i media israeliani, ha avuto l’impressione che non si trattasse di una narrazione di comodo, ma di un sentimento profondo e autentico. La vittimizzazione e la persecuzione che s’imprimono e crescono dentro di lui liberano Netanyahu dai sensi di colpa, dai rimorsi di coscienza o anche da un briciolo di senso di responsabilità. Si vede come se stesse combattendo una costante guerra di sopravvivenza e di difesa contro i gruppi dichiarati e clandestini che cospirano per abbatterlo o eliminarlo.
Per questo motivo – conclude il reporter di Haaretz – non capirà mai di essere la persona direttamente responsabile delle violente e sanguinose battaglie di strada che abbiamo visto questa settimana, che potrebbero degenerare in omicidi in pochi secondi. Dalle elezioni del 2015, Netanyahu ha condotto una guerra fredda civile che ora minaccia di scoppiare. Per cinque anni, ha creato un discorso tossico, emarginante, violento e astioso. Questo dibattito si addice allo spirito combattivo di cui Netanyahu è dipendente. Sembra anche che si renda conto che questa è l’atmosfera che garantirà che la sua base sarà sufficientemente carica e alimentata per rimanere al potere e salvarli dal nemico immaginario. Questa guerra civile sembra essere l’eredità più importante che si lascerà alle spalle.

D’altro canto, il premier più longevo nella storia d’Israele, tutto è meno che un “unificatore”. Per vincere, e gli è riuscito più volte, ha bisogno di un nemico, esterno o interno, contro cui aizzare i propri sostenitori e quella parte d’Israele che ha scelto la contrapposizione come stile di vita oltre che come ragione di voto. Ma oggi, la disastrosa conduzione dell’emergenza Covid-19 rischia di travolgerlo, come può accadere al suo grande amico e sostenitore americano: Donald Trump. “Bibi” prova a demonizzare i contestatori, li taccia di essere “anarchici di sinistra” e “bolscevichi”. Si scaglia, come un Erdoğan o un Orbán qualsiasi, contro i media che, a suo dire, “alimenterebbero la protesta diffondendo fake news e ingigantendo il numero dei manifestanti”. Ma stavolta l’operazione non sembra riuscirgli.
Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha scritto su Twitter:
La violenza e il sangue versato martedì a Tel Aviv sono responsabilità di Netanyahu e dei suoi accoliti. Coloro che incitano, causeranno spargimento di sangue. Coloro che chiamano i manifestanti “diffusori di malattie” e si scagliano contro i cittadini che protestano contro [Netanyahu], stanno portando Israele a una guerra civile. Il nostro più grande problema è che il più grande guerrafondaio israeliano è seduto nell’ufficio del primo ministro.
האלימות והדם שנשפך אתמול בתל אביב הם על הידיים של ביבי והשליחים שלו. מי שזורע הסתה יקבל דם. מי שקורא למפגינים מפיצי מחלות, ומסית נגד אזרחים שמפגינים נגדו, מוביל את ישראל למלחמת אחים. אנחנו ערב ט׳ באב והבעיה הגדולה שלנו היא שגדול מחרחרי השנאה בישראל יושב בלשכת ראש הממשלה.
— יאיר לפיד – Yair Lapid (@yairlapid) July 29, 2020
E da quell’ufficio, “King Bibi” conduce l’ennesima battaglia della sua lunga vita politica. E, forse, ripenserà ai giorni dell’odio che portarono all’assassinio di Rabin e Israele sul baratro di una guerra civile. Un baratro che oggi si ripropone. Con Benjamin Netanyahu ancora una volta nei panni dell’artefice, e non certo vittima, di un clima infuocato, da guerra nelle piazze. Le piazze di un Israele che oltre che con il coronavirus devono fare i conti anche con un altro potente “virus” che lacera il Paese: quello dell’odio.

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