Juan Carlos I di Borbone, pressato dalle inchieste internazionali, lascia la Spagna in un autoesilio volontario che ha come principale scopo quello di preservare l’istituzione della corona dagli scandali fiscali che lo stanno travolgendo.
La decisione è giunta improvvisa, anche se da tempo giravano voci sulla possibilità che accadesse qualcosa del genere e si sapeva che il governo, preoccupato per le ombre che i fatti che lo coinvolgevano indebolissero oltre modo l’istituzione di garanzia del re, capo di Stato e garante della legittimità costituzionale, stava facendo da tempo pressione sulla casa reale affinché prendesse un’iniziativa. Si ipotizzava un allontanamento dalla Zarzuela, la residenza reale. Appena lo scorso marzo Felipe VI aveva rinunciato a ogni eredità economica del padre di provenienza non dimostrabile, levandogli l’emolumento di 180mila euro l’anno. Un ripudio in piena regola, evidentemente non sufficiente, soprattutto dopo le ultime denunce della ex amante di Juan Carlos, di cui parliamo di seguito. La volontà della Casa reale è chiara, sacrificare il padre per proteggere il figlio. Ma c’è da dubitare che basterà.
Juan Carlos ha spiegato così in una lettera al figlio i motivi della sua decisione:
Con la stessa volontà di servizio per la Spagna che ispirò il mio regno e davanti alle ripercussioni che stanno generando alcuni fatti passati della mia vita privata, desidero manifestarti la mia assoluta disponibilità a continuare a facilitare l’esercizio delle tue funzioni, con la tranquillità e la serenità che la tua alta responsabilità richiede. Il mio retaggio e la mia stessa dignità personale, così esigono.
Quando ieri la lettera è stata resa pubblica dalla Casa reale, Juan Carlos aveva già abbandonato il paese, come ha rivelato il quotidiano La Vanguardia, per installarsi temporaneamente nella Repubblica dominicana, ospite della famiglia Fanjul, tra i più ricchi proprietari terrieri dell’America latina.
L’erosione di credibilità della monarchia è stata costante negli ultimi anni e sono passati i tempi in cui il gradimento per la Casa reale era maggioritario e trasversale. Le inchieste del Centro de investigaciones sociológicas (CIS, l’Istat spagnolo) testimoniano la caduta, passata dal 1994 al 2014 da un voto di oltre sette su dieci al 3,4 del 2014, l’anno dell’abdicazione di Juan Carlos in favore del figlio. La valutazione del 2015 dette al nuovo monarca solo un 4,3 e da allora il CIS ha smesso di chiedere agli spagnoli cosa pensassero dell’istituzione, per evitare ancor più imbarazzanti risultati. Ma come è avvenuto che un monarca che è stato il garante del passaggio alla democrazia – quella Transizione ritenuta un modello di archiviazione incruenta di una dittatura –, consolidatosi con lo stop (tardivo) al golpe Tejero nel 1981, per anni stimato e rispettato, sia potuto crollare tanto nel gradimento degli spagnoli?
Sono tanti i motivi che si possono indagare per spiegarselo, a cominciare dai passaggi sociologici e politici che il paese sta vivendo, ma basta limitarsi ai fatti concreti delle condotte di Juan Carlos per capire tanta disaffezione. Quando nel 2012 l’allora monarca si ruppe un’anca mentre era in una battuta di caccia in Botswana, divenne pubblica la sua relazione con Corinna zu Sayn-Wittgenstein, aristocratica tedesca di 26 anni più giovane, già sposata con un principe e donna d’affari di successo. Che Juan Carlos avesse avuto molte amanti già si sapeva, il machismo monarchico si pregiava di divulgare che fossero più di 1500, ma quella volta qualcosa si ruppe. La vacanza di lusso mentre il paese era piegato dalla crisi economica e la scoperta che era lì a cacciare elefanti, specie protetta, cambiò per sempre qualcosa nel rapporto con gli spagnoli. Il “mascalzone latino”, simpatico e donnaiolo, venne visto come un traditore della moglie Sofia, già provata dallo scandalo che aveva coinvolto la figlia, la infanta Corinna, per gli affari sporchi del marito, Iñaki Urdangarin, poi finito in carcere per avere sottratto milioni di euro a un’associazione non profit. Il seduttore venne visto come un erotomane compulsivo che umiliava la moglie, l’autorevolezza si perse. Fu l’inizio della fine che portò all’abdicazione. Poi giunsero le inchieste estere.

Quella svizzera, che scoprì un versamento di cento milioni di dollari ritenuta una tangente per l’intermediazione nell’appalto per l’alta velocità alla Mecca col regime saudita. La scoperta di un versamento di 65 milioni di euro in un conto svizzero di Corinna, prima da lei descritta come “regalo per gratitudine, amore e per garantire un futuro ai suoi figli”. Regalo che poi venne richiesto indietro, convincendo i magistrati che si trattasse di un’accumulazione di denaro all’estero e che la prestanome, rotti i rapporti con l’amante, volesse tenerseli. Corinna poi, in una conversazione tenuta a Londra nel 2015 col commissario Villarejo (protagonista delle “cloache dello stato”, settori deviati della pubblica sicurezza, ex commissario di polizia e poi uomo d’affari sporchi, in carcere dal 2017), e da questi registrata e infine divenuta pubblica, ha affermato di essere stata prestanome di Juan Carlos oltre che per i soldi svizzeri per operazioni in Marocco e altri stati, di avere “casse di documenti che provano le sue affermazioni” e di essere stata oggetto di due operazioni dei servizi spagnoli ai suoi danni. A marzo ha poi denunciato Juan Carlos per minacce presso il tribunale di Londra, affermando di temere per la sua vita, di essere stata sequestrata da agenti del servizio segreto spagnolo e di aver ricevuto minacce. Infine, il 16 giugno, è arrivata la decisione della Procura del tribunale Supremo di aprire un procedimento per verificare o scartare la rilevanza penale dei fondi in Svizzera ed eventualmente procedere contro Juan Carlos per i fatti successivi al giugno 2014, quando con l’abdicazione Juan Carlos ha perso l’inviolabilità costituzionale garantita al Capo di stato.
A questo punto, con l’internazionalizzazione delle inchieste, non era più possibile far finta di nulla, malgrado le connivenze della magistratura e della maggior parte della stampa spagnola, che ha relegato le informazioni sui conti bancari alle pagine interne. L’impunità, il sospetto di utilizzo distorto della funzione e degli apparati dello stato, non erano più occultabili. Felipe VI aveva da subito varato alcune riforme, come la pubblicazione degli stipendi e degli emolumenti e il passaggio al patrimonio dello stato dei doni alla casa reale. Ma poi, complice anche la crisi catalana, si era fermato. Anche lui rischia di essere travolto, avendo ammesso di essere a conoscenza di alcune delle disinvolte pratiche finanziarie all’estero del padre. Nell’inchiesta svizzera non ci sono indicazioni che abbia ricevuto denaro illecitamente ma la sua rinuncia all’eredità economica paterna “che non sia consonante alla legalità” è arrivata solo dopo che il quotidiano britannico The Telegraph rivelasse che era beneficiario dei fondi del padre.

La monarchia spagnola è dunque giunta al tramonto? È presto per dirlo ma la possibilità è concreta. Se Felipe VI prendesse l’iniziativa di fare profonde riforme costituzionali, per regolare le incompatibilità tra l’esercizio della sovranità e la vita privata e gli affari, la trasparenza degli atti, l’obbligo della dichiarazione del patrimonio e la fine dell’inviolabilità del re, potrebbe forse salvare la corona. Riforme che richiederebbero poi la dissoluzione delle Cortes, nuove elezioni e la convocazione di un referendum per la loro approvazione definitiva. Un percorso che richiederebbe grande coraggio, che finora Felipe non ha dimostrato, irto di rischi. È certo che, dopo la crisi dei partiti e delle istituzioni, il grave conflitto territoriale, l’impianto della Spagna democratica è sempre più in crisi. Il modello della Transizione presenta il conto e vengono al pettine i nodi irrisolti, la continuità degli apparati franchisti nello stato, nella pubblica sicurezza e nella magistratura, nell’economia e nel giornalismo. E la crisi, mentre ancora si scavano le fosse dove i corpi dei repubblicani assassinati sono rimasti celati dal 1939, senza nessun aiuto da parte dello stato e anzi la persecuzione di giudici e amministrazioni locali di destra, riporta alla ribalta l’opzione di un referendum che chiami a scegliere tra monarchia e repubblica.
Se questi fatti possano contribuire a far affrontare al paese una revisione del suo impianto costituzionale, del sistema istituzionale e di quello territoriale, costringendo la politica a affrontare quelle questioni che ha finora evitato o se, al contrario, la democrazia spagnola ne uscirà ancor più indebolita e divisa aprendo inquietanti scenari di scontro interno, si capirà solo vedendo quali strade prenderà la crisi, come si muoveranno gli attori politici e la società. Quello che già si può dire è che la Spagna che conosciamo non esiste più e se ne sta formando un’altra. Quale è da vedere.
copertina: da CTXT

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