Trump dopo Trump

Pubblichiamo un articolo/saggio che appare sul prossimo numero di “Critica marxista”, la rivista diretta da Aldo Tortorella, sugli scenari che aprono le prossime elezioni presidenziali.
GUIDO MOLTEDO
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Mercoledì 20 gennaio 2021. Inauguration Day. Il presidente eletto il 3 novembre 2020, con il suo vice, presta giuramento a Washington, nella cornice spettacolare delle scalinate del Congresso allestite a mo’ d’anfiteatro, bandiere e fanfare, un parterre di leader politici e vip, dignitari e star. Segue la tradizionale parata lungo Pennsylvania Avenue dal Campidoglio alla Casa bianca, il presidente e la First Lady a piedi per un tratto tra due ali fitte di spettatori venuti d’ogni dove e sotto lo sguardo di tantissimi telespettatori, in America e nel mondo.

Quel giorno s’insedierà la nuova amministrazione, dopo i canonici due mesi e mezzo d’interregno dalle elezioni di novembre, le 59me della storia americana. Sarà evidentemente l’inizio di una nuova fase storica se sulle scalinate del Campidoglio assisteremo al giuramento del 46mo presidente, Joe Biden. E se a giurare sarà per la seconda volta il 45mo presidente, Donald Trump?

Sarà anche in questo caso, in maniera forse meno evidente ma nei fatti perfino più marcata, l’inizio – il vero inizio – di una fase storica di cui il primo mandato sarà retrospettivamente considerato l’avvio preparatorio.

Se rivedremo Trump, la sua conferma per un secondo mandato suonerà innanzitutto come la smentita di certe teorie che accompagnano il miliardario di Manhattan fin dal suo esordio in politica, secondo le quali il suo quadriennio nello studio ovale è solo una sgradevole parentesi, e come tale sarà ricordato. Un’anomalia dentro un sistema funzionante, andato inaspettatamente e provvisoriamente in panne, ma capace, per sue stesse qualità intrinseche, di emendarsi. Un’inevitabile caduta, insomma, lungo il complicato percorso trasformativo della realtà statunitense, dopo la fine della guerra fredda, a cui non può che seguire il ritorno alla “normalità”. Congetture autoconsolatorie, a cui la sua rielezione non consentirebbe più di aggrapparsi, per spiegare – dopo Obama – l’avvento, il successo e l’affermazione di una figura come Donald Trump al vertice della superpotenza americana. Entrata certo in crisi d’identità e di ruolo dopo la caduta del Muro e nell’epoca della globalizzazione ma che sembrava tuttavia capace di elaborarla, la crisi, e di uscirne positivamente, perfino rafforzata, come sembravano dimostrare gli otto anni di Obama.

Il giuramento per un secondo mandato significherebbe dunque che la presidenza Trump è una presidenza non effimera, che anzi consolida il suo progetto politico, in opposizione alla visione che – dall’Ottantanove in poi, fino alla presidenza Obama compresa – sembrava prevalere: quella di un’America post-Guerra fredda capace di mantenere il suo primato incontestabile, ma dentro un sistema multipolare di relazioni, molto diverso rispetto al bipolarismo del secondo Novecento.

Il paesaggio che ha caratterizzato questi ultimi quattro anni diventerebbe dunque – nel caso di un Trump II – quello prevalente e permanente del prossimo futuro, con un’elevata e persistente conflittualità interna destinata a segnare pesantemente le relazioni sociali, i rapporti tra comunità, religioni, culture: in breve, minerebbe la coesione sociale finora raggiunta, produrrebbe e alimenterebbe la frammentazione della società nelle sue diverse componenti che faticosamente, pur tra tante contraddizioni, hanno cercato d’incontrarsi e anche di fondersi in quello che un tempo era definito il crogiolo americano e che, specie nell’era di Obama, con il crescere e l’affermarsi di nuove comunità – i latinos, gli asiatici, i nuovi immigrati d’ogni parte del mondo e a tutti i livelli sociali – poteva essere considerato un nuovo melting pot esemplare. Una chimica demografica e sociale aperta e inclusiva, base su cui poggiare il nuovo ruolo dell’America, potenza “plurale” al suo interno e in grado, anche per questo, di agire, da attore principale certo, ma dentro la dinamica multipolare del mondo del nuovo millennio.

La sconfitta di Trump ridarebbe slancio a quell’idea di America che America First intendeva mettere fuori gioco? La fine di Trump decreterebbe anche la fine del trumpismo, dentro i confini americani e nella sua proiezione esterna? Che ne sarebbe dell’ormai ex-presidente e del suo lascito? Che avverrebbe della sua tanto spesso evocata “base” militante?

Sono domande che hanno un sottotesto inquietante: anche in caso di vittoria di Biden, le pulsioni scatenate dal sovversivo Trump potrebbero restare vive, continuare nella loro attività conflittuale, anche perché il contesto che erediterà il prossimo presidente sarà quello di un quadro sociale ed economico incandescente, specie se i dati della disoccupazione dovessero restare molto alti, nel naufragio del sistema sanitario e in irrisolte, aperte e crescenti forme di razzismo.

Tra gli scenari che sono stati evocati per il 4 novembre, il giorno dopo elezioni presidenziali, e per i giorni che seguiranno – quelli del passaggio dei poteri da Trump a Biden, fosse quest’ultimo il presidente eletto – fa sensazione lo scenario di una contestazione a oltranza della sconfitta da parte del presidente uscente. Fantapolitica? In un’intervista televisiva Joe Biden ha espresso il timore che Trump potrebbe cercare di “rubare” le elezioni e che in caso estremo potrebbe perfino arrivare a contestare l’esito del voto, rifiutandosi di lasciare la Casa Bianca. Un momento altamente drammatico nel quale potrebbero perfino intervenire le forze armate nello studio ovale. Ci penserebbero loro a scortarlo fuori della Casa Bianca. Il candidato democratico s’è detto “assolutamente convinto” che questo potrebbe accadere.

Che sia stato contemplato un ipotetico scenario del genere – quando mancavano tre mesi e mezzo al voto – dà la misura della tensione con cui si è entrati nella fase finale della campagna elettorale ma anche della durezza dello scontro che potrebbe essere innescato da un risultato quasi alla pari e in qualche modo aperto a strumentalizzazioni e manipolazioni da parte repubblicana. Parliamo di un paese nel quale ci sono molte più pistole e fucili, anche da guerra, che abitanti. Un paese nel quale ogni anno muoiono quarantamila persone in seguito a sparatorie e nel quale dal 2012 (strage di Sandy Hook) a oggi sono decedute settecentomila persone uccise da armi da fuoco. Che cosa può succedere in un paese così, se il presidente uscente non accetta il verdetto elettorale o, comunque, lascia pensare alla sua base militante che i democratici si sono liberati di lui illegittimamente, quasi si trattasse di un colpo di stato?

Il nervosismo è palpabile negli ambienti democratici e nei media progressisti e aumenta con l’avvicinarsi del prossimo auspicato cambio al vertice degli Stati Uniti. Un nervosismo dettato dalla sensazione di una vittoria che sembra a portata – da un certo punto in poi i sondaggi hanno iniziato a segnare una solida distanza a favore di Biden – ma che pure potrebbe svanire nell’Election Day. O negata dallo sconfitto. Un nervosismo che è anche il risultato di quattro anni sconvolgenti per l’America e per il mondo, dominati dalla centralità di un personaggio che ha costretto tutti a giocare di rimessa, ogni giorno, e sempre più sul terreno da lui imposto, determinato dalle sue intemperanze e imprevedibilità. C’è anche da chiedersi quali segni resteranno di questi anni, e quanto profondi, quanto duraturi, nel modo di far politica, nella fibra della nazione, nelle relazioni degli Usa con il resto del mondo. C’è, inoltre, da chiedersi se Trump sia un modello replicabile, negli Usa e altrove, e se, comunque, il suo ruolo al vertice della superpotenza americana incoraggi e legittimi imitatori. È già accaduto in Brasile, nelle Filippine, anche in Europa. Se fosse rieletto, l’affermazione nel mondo di politici Trump-like, alla Trump, diventerebbe “normale”.

Il trumpismo ha per molti versi modellato il confronto politico, la comunicazione politica, le stesse relazioni internazionali e le consuetudini che prima del suo avvento le governavano. Non potrà semplicemente svanire, si dice, con la sconfitta di Trump. Oppure, al contrario, accadrà proprio questo: uscendo battuto dal voto di novembre, sarà battuto anche il “modello” che egli rappresenta, incarnazione della destra suprematista del nostro tempo. Sconfiggere Trump significa anche questo.

Messo Trump fuori gioco a novembre, occorrerà vedere quanto ci vorrà, se ce ne sarà davvero la volontà, per liberarsi dello stile nevrotico che ha imposto ai rapporti politici e alle relazioni internazionali, facendo proseliti e mettendo a soqquadro il vecchio ordine. Dopo l’insediamento del suo avversario, se questa sarà la decisione dell’elettorato il 3 novembre, non ci vorrà molto per capire se la nuova amministrazione avrà la forza e godrà del sostegno necessario per cimentarsi nella necessaria ricostruzione, anche morale, della nazione e della sua credibilità nel mondo.

Una presidenza Biden – che per essere sufficientemente forte dovrebbe però essere sostenuta da un’adeguata maggioranza democratica nei due rami del Congresso – avrà quest’onere estremamente impegnativo. Sul fronte interno si può prevedere che la nuova amministrazione potrà contare su una notevole, generosa mobilitazione, nel mondo democratico e progressista, ansioso di archiviare al più presto il periodo di Trump. Come detto, però, a questa mobilitazione potrebbe contrapporsi assai pericolosamente quella dei seguaci del presidente sconfitto. Sarà importante, determinante, il rapporto di forze deciso dai risultati elettorali. Un nuovo corso, per affermarsi, per mettere definitivamente ai margini la destra oltranzista, avrà bisogno di un largo e netto mandato elettorale per Biden e per i candidati democratici al Congresso. Anche per recuperare la credibilità perduta in campo internazionale.

La stessa campagna elettorale, da quest’ultimo punto di vista, pone peraltro notevoli interrogativi. I temi internazionali sono stati assenti o marginali, con l’eccezione del tema dei rapporti con la Cina. Grandi questioni come il futuro dell’Alleanza atlantica e delle relazioni Usa-Unione Europea non sono chiaramente definite nell’agenda democratica. Così come la questione mediorientale, la relazione speciale con Israele (compreso il nodo cruciale del riconoscimento di Gerusalemme come capitale, che Biden confermerà) e il cosiddetto Iran-deal, cancellato da Trump. Anche la Russia resta complessivamente sullo sfondo, perfino nelle vicende legate all’Afghanistan, nel comune interesse – si direbbe – dei due contendenti a non mettere in evidenza un tema potenzialmente imbarazzante: per Trump, per le ben note ragioni legate al suo mai chiarito rapporto personale con Putin; per Biden, per l’opaca vicenda degli affari del figlio in Ucraina.

Il ritorno all’approccio multilaterale della presidenza Obama e il rientro nelle grandi organizzazioni internazionali, dovrebbero caratterizzare la politica estera di un’amministrazione guidata da un democratico. Ma anche su questo terreno manca il necessario approfondimento. Colpisce pertanto, anche per contrasto con la scarsa visibilità di questi temi, l’enfasi posta da entrambi i contendenti sulla questione cinese. Di riflesso, tra tutti gli spettatori interessati all’esito delle presidenziali americani, si direbbe che la Cina abbia il posto preminente. Più che per gli altri player internazionali, il risultato del 3 novembre avrà il rimbalzo più sentito a Pechino.

Ci può essere, nella città proibita, un interesse per un’America più debole perché guidata da un presidente debole? È quel che sostengono Biden e gli strateghi della sua campagna elettorale. “Donald Trump ci ha venduti, ha venduto ognuno di noi al governo cinese, affermandosi come il presidente più incredibilmente debole e doppiogiochista nei confronti della Cina nella storia americana”. Così Andrew Bates, uno dei portavoce di Biden interpellato dalla rivista Vox, aggiungendo che c’è chi ai vertici cinese apertamente vuole che vinca Trump. E negli stati in bilico, maggiormente interessati alla concorrenza cinese, come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin, la campagna di Biden batte sul tasto del Trump duro a parole, morbido nei fatti con la Cina, e preso in giro dal vertice di Pechino. La controffensiva di Trump è speculare nei toni e nei contenuti. Nello scambio di contumelie tra i due campi s’inserisce John Bolton, con il suo libro ricco di rivelazioni imbarazzanti sui rapporti del suo ex-capo con Xi Jinping, in particolare sulla richiesta d’aiuto al numero uno cinese per la sua rielezione, con l’acquisto di soia americana negli stati rurali dove si giocano alcune delle partite decisive per le presidenziali. Un protagonismo imbarazzante, quello di Bolton, nel pieno svolgimento della campagna elettorale: imbarazzante per Trump, per quanto s’apprende dal libro. Ma anche per Biden: che cosa vuole il numero uno dei falchi – e le lobby che egli rappresenta – voltando le spalle a Trump, e addirittura dichiarando di voler votare per il suo avversario? A essere complottisti – non noi, alludiamo alla stampa americana mainstream – c’è da chiedersi se non ci sia un gioco sporco contro Biden in questa uscita di Bolton per creargli problemi seri con l’elettorato di sinistra, che già non lo ama.

Al di là delle congetture, è difficile, nel crescendo della guerra di parole, distinguere chi dei due è davvero il duro nei confronti della Cina e se e come lo sarà davvero dopo il voto novembre. La differenza più visibile tra i due contendenti – nelle prese di posizione sui terreni più sgradevoli per la Cina, come i diritti della minoranze, tibetani e uiguri in particolare, e Hong Kong – è che Biden prospetta azioni coordinate con gli alleati nei confronti della Cina. Ma questo, come s’è detto, corrisponde allo stile che contrassegnerà complessivamente la politica estera di una presidenza Biden, in linea con l’amministrazione Obama, di cui era vice con ampia delega sulle questioni internazionali.

Una campagna caratterizzata da una gara al rialzo tra i due candidati presidenziali negli attacchi alla Cina e nella vicendevole denigrazione per la supposta cedevolezza nei confronti del suo leader, Xi Jinping, lascia ben intendere che le relazioni con Pechino saranno al centro della politica estera americana nei prossimi anni, non importa chi sarà il vincitore delle elezioni. È la conferma che lo spostamento in Estremo Oriente e nel Pacifico dell’asse principale degli interessi strategici americani diventa definitivo, ponendo via via su posizioni sempre più marginali l’Europa, le relazioni transatlantiche, il Mediterraneo e il Medio Oriente, ma anche l’Africa e l’America Latina, ormai peraltro considerata prevalentemente in chiave di retroterra dell’immigrazione verso gli Usa.

In questa direzione già si muoveva la politica estera di Obama. Con Trump cambiano lo stile, l’approccio, la sensibilità verso antiche alleanze, ma di fatto c’è un evidente filo di continuità che ormai caratterizza le scelte di fondo dell’establishment americano e del complesso militare industriale, anch’esso sempre più focalizzato sulle priorità strategiche e di “sicurezza nazionale” connesse alla crescita inarrestabile del gigante cinese.

Il voto di novembre potrebbe segnare un cambiamento molto rilevante nella politica interna americana, ma esso si riverbererà solo in parte nelle scelte più di fondo dell’America nella politica internazionale, e viceversa. Dopo la disastrosa epoca delle guerre del Golfo, proseguirà comunque il tentativo di disegnare un nuovo ordine mondiale che ha come suo teatro principale l’Asia estremorientale e il Pacifico, in competizione/collaborazione con le potenze della Regione: India, Pakistan, Giappone, Indonesia, Australia, Russia. E soprattutto Cina.

VENEZIA, 1 LUGLIO 2020

Trump dopo Trump ultima modifica: 2020-08-05T12:15:33+02:00 da GUIDO MOLTEDO
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