Sarà pure vero, come ha scritto il mio vecchio amico Pio d’Emilia su queste colonne, che “il compagno Pompeo” (nome di battesimo Mike, segretario di stato del presidente americano Donald Trump), ha sbagliato le sue valutazioni sulla Cina. Ma è altrettanto vero che non si può, a mio avviso, liquidare la crescita della potenza cinese sostenendo che si stia limitando a “stiracchiare” i suoi confini e che fondamentalmente è un paese pacifico e non aggressivo. Certo non lo è nel Mar della Cina Meridionale, uno specchio d’acqua d’importanza fondamentale per il commercio internazionale, che Pechino rivendica quasi nella sua interezza sulla base della cosiddetta “nine-dash-line”, cioè una mappa stilata centinaia di anni fa da un navigatore cinese, scoperta da cinesi e sulla cui autenticità esistono fondati dubbi.
La Cina non solo ha ignorato le proteste degli altri paesi rivieraschi – Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam – ma anche il giudizio della Permanent Court of Arbitration (un’istituzione internazionale creata alla fine del diciannovesimo secolo e riconosciuta da oltre cento paesi, tra cui la Cina) che nel 2016, in risposta ad un ricorso delle Filippine (ancora non governate da Rodrigo Duterte) ha respinto le basi legali e storiche della rivendicazione cinese.
Il fatto, che molti tra cui D’Emilia, si ostinano a non vedere, è che la Cina guidata da Xi Jinping non è quella di Deng Xiaoping, non è quella di Jiang Zemin e non è quella di Hu Jintao – che pure non erano esattamente dei paradisi dei diritti civili. Se n’è accorto anche un politico una volta “amico” della Cina , l’ex-primo ministro australiano Kevin Rudd, che in un articolo sulla rivista Foreign Affairs mette in guardia dal sottovalutare il pericolo che “i cannoni di agosto” tornino a far sentire la loro voce proprio nel Mar della Cina Meridionale, dove nelle ultime settimane si sono verificati numerosi “incontri ravvicinati” tra navi della flotta cinese e di quella americana.
Il riferimento di Rudd è alla Prima guerra mondiale che, ricorda l’ex-primo ministro, nacque da un incidente relativamente minore (l’attentato di Sarajevo) e in poche settimane montò in una guerra devastante a causa di
[…] un’escalation implacabile, una diplomazia inadeguata e un nazionalismo estremo, uniti alla convinzione sia dei governi che dei popoli che la guerra sarebbe stata impossibile.
Pochi dubbi sussistono sul fatto che Trump e i suoi uomini stiano giocando la “carta cinese” per le elezioni presidenziali di novembre e che stiano tenendo un comportamento aggressivo e confuso. Ma che la Cina voglia solo la pace e che Xi sia un angioletto animato da null’altro che dalla buona volontà è una favoletta alla quale è diffcile credere.
Secondo Rudd:
Mentre la strategia di Xi è stata chiara (il leader cinese ha “spostato verso sinistra la politica e l’economia interne, spinto verso destra il nazionalismo e ha adottato una politica più decisa all’esterno, sia regionalmente che globalmente), quella di Trump è stata caotica come il resto della sua presidenza.
Tutto ciò ha creato una situazione potenzialmente esplosiva. Tanto più prosegue l’esponente politico australiano, che
[…] nella presente congiuntura politica, le pressioni interne sono presenti sia a Pechino che a Washington, cosa che rende ancora più difficile la gestione delle crisi. In Cina un’economia già in rallentamento, l’impatto che si sta sentendo della guerra commerciale e ora la crisi del Covid-19 hanno posto la leadership di Xi sotto una pressione più forte che mai. Nel Partito comunista cinese molti hanno disapprovato la sua brutale campagna contro la corruzione, che ha usato per liberarsi degli avversari politici.
Quanto a Trump, sta disperatamente cercando un successo di qualsiasi tipo che gli permetta di ribaltare una situazione che vede il suo avversario Joe Biden in vantaggio.

Per quanto riguarda la Cina, ritengo che la svolta ci sia stata nel 2008: un anno bello e terribile, segnato per i cinesi prima da un’ondata di maltempo in coincidenza con il Capodanno cinese (che impedì a molti lavoratori immigrati di tornare in famiglia per le feste), dalla sanguinosa rivolta in Tibet, dal devastante terremoto del Sichuan, delle indimenticabili Olimpiadi di Pechino e infine dalla crisi finanziaria internazionale.
Mentre nel mondo e nel paese avvenivano queste tragedie, nel Partito comunista cinese si faceva strada un politico, Bo Xilai, che è finito in prigione ma che ha imposto a tutto il partito la sua linea politica: riscoperta del “sinistrismo” con echi della Rivoluzione Culturale all’interno, nazionalismo aggressivo all’esterno. Bo, che aveva cercato di prendere il potere scavalcando le regole del partito, fu sconfitto da una coalizione tra Xi Jinping e l’allora presidente Hu Jintao – ma la sua politica è diventata quella di tutto (o della maggioranza del) partito: di fronte al mondo “grande e terribile”, alle crisi che si susseguono alle crisi – dal terremoto alla finanza internazionale – non rimane che stringersi intorno all’Imperatore, il forte potere centrale oggi incarnato nel Pcc.
È da allora che l’atteggiamento, se così mi posso esprimere, di “collaborazione conflittuale” tra la Cina e i suoi interlocutori si è trasformata in modo profondo, perché il gruppo dirigente cinese ha erroneamente pensato che il dominio degli Stati Uniti fosse alla fine e che fosse arrivato per la Cina il momento di prendere loro posto.
Nei primi anni della gestione Hu Jintao/Wen Jiabao, era chiaro che si andava verso una crescente integrazione tra la Cina e il resto del mondo, affrontando pragmaticamente i periodici conflitti di interesse e ricercando i compromessi necessari per procedere su una strada che comunque si riteneva comune. Quel creativo atteggiamento oggi è un ricordo: siamo alla wolf diplomacy (niente di nuovo, è quella normalmente praticata dai nordcoreani – e anche questo la dice lunga sulle intenzioni di Pechino), al muro contro muro, alla nuova guerra “fredda” e ai timori che diventi “calda”.
Quello del Mar della Cina Meridionale non è certo l’unico scacchiere sul quale Xi Jinping si sta dimostrando aggressivo: ha di fatto cancellato l’accordo con la Gran Bretagna in base al quale Hong Kong sarebbe stata governata per cinquant’anni da un sistema semi-democratico, ha apertamente minacciato Taiwan di un attacco militare (che secondo Kevin Rudd è probabile, anche se non immediatamente) e sta compiendo contro la minoranza uighura del Xinjiang quello che tutti i gruppi umanitari definiscono un “genocidio”.
Per non parlare della vicenda dei due cittadini canadesi – Michael Kovrig e Micheal Spavor – imprigionati in Cina con l’accusa di spionaggio non sostenuta da alcuna prova in una rappresaglia all’arresto in Canada della dirigente della Huawei Meng Wangzhou, fermata su richiesta della magistratura americana. Poi c’è il caso di Gui Minhai, cittadino svedese ed editore di libri critici verso Pechino, rapito da agenti cinesi mentre si trovava in Thailandia e schiaffato in prigione. I simpatizzanti di Pechino si ostinano a non parlare di queste vicende ma il loro silenzio non ne diminuisce la gravità:
Invito chi volesse approfondire il problema della tensione nel Mar della Cina Meridionale a leggere tutto l’articolo di Kevin Rudd, che sviscera le posizioni delle due potenze su Taiwan (l’isola che la Cina rivendica e gli Stati Uniti sono impegnati a difendere) e conclude che il pericolo di uno scontro militare è “clear and present”, in particolare nelle poche settimane che ci separano dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti.
A noi rimane l’interrogativo: potrebbe la diplomazia europea – non affronto per carità di patria lo stato della diplomazia italiana, che non sono sicuro esista ancora – cercare di evitare che tuonino “i cannoni di agosto”, e come?

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