Pd e 5 stelle. L’accordo è più forte, i disaccordi pure

I grillini disponibili all’alleanza, a iniziare dalle regionali. Mal di pancia tra i piddini mentre Renzi esce dall’angolo.
ALDO GARZIA
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I 5 Stelle hanno fatto la loro svolta: sì a più di due mandati per chi ricopre cariche elettive, sì alla politica delle alleanze. Sono caduti due tabù, due capisaldi della passata identità grillina: la politica andava fatta solo per brevi periodi negli incarichi istituzionali; tutti gli altri partiti erano nemici e frutto di un sistema malato in cui non esistevano più né destra, né sinistra. Ora la piattaforma Rousseau non ammette discussioni sulle correzioni introdotte. 

La novità, a guardar bene, è però solo relativa. Il Rubicone è stato varcato da tempo. Quando si partecipa a due governi consecutivi come partner principale per via del numero della propria rappresentanza parlamentare, la solitudine politica in nome dell’alterità non è più una virtù. La novità è che i 5 Stelle dovranno affrontare un’altra fase della propria vita decennale e convincere i propri militanti ed elettori che il Pd non è il nemico, bensì un potenziale alleato. Impresa difficile.

Il Pd – con il segretario Nicola Zingaretti – ha esultato:

Ora è possibile anche un’alleanza a livello locale per battere la destra. Si sta al governo da alleati e non da avversari.

Spesso però la politica fa le pentole e non i coperchi. Quello che si auspicava da tempo da entrambe le parti è avvenuto. Entrambi i soggetti recalcitrano tuttavia ad acconciarsi alla nuova realtà. A iniziare dal banco di prova non secondario della ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma, ipotesi che lo stesso Zingaretti dichiara non percorribile con il sostegno del Pd. Nelle Marche, in Campania, Toscana e Puglia i rapporti sono altrettanto difficili. Un brutto risultato alle regionali potrebbe del resto far scricchiolare subito l’alleanza. E poi ci sono il referendum sul taglio dei parlamentari che mette in imbarazzo il Pd a confermare il “sì” e la questione dei fondi europei Mes da usare nel settore sanitario. Le distanze tra Pd e 5 Stelle persistono. 

La scelta di un’intesa strategica con i grillini non è intanto indolore per i piddini. Tornano al pettine i nodi non risolti su identità e collocazione che la segreteria Zingaretti ha solo accantonato. Infatti, il dibattito interno divampa nonostante la coda d’estate. Lorenzo Guerini, ministro della Difesa, ha spiegato sul Foglio (martedì 18 agosto) di dissentire da tale prospettiva invocando l’esigenza di un partito riformista e non populista, per di più a “vocazione maggioritaria” (a suo tempo si trattava di una suggestione veltroniana per affermare che il Pd non doveva puntare ad alleanze probabili o improbabili quanto invece ad allargare la propria base elettorale). 

La pensano così Giorgio Gori (sindaco di Bergamo) e Andrea Romano come molti altri ex renziani che sono restati nel Pd e non digeriscono la realpolitik che impone rapporti con una forza fino all’altro ieri definita “populista” (Zingaretti, come si ricorderà, si piegò all’alleanza di coalizione non essendone per niente convinto). Un conto – dicono – è l’alleanza per un governo in una situazione di emergenza, un altro è dare a quella convergenza un significato strategico di lungo periodo. Obiezione non infondata, anche se parlando di alleanze è difficile capire qual è l’alternativa percorribile dal momeno che la galassia Italia viva – Azione – Più Europa (Matteo Renzi – Carlo Calenda – Emma Bonino) in quanto a percentuali sulla carta non ha particolare attrattiva mentre i 5 Stelle, pur in crisi di consensi, potrebbero contare sul 10-15 per cento dell’elettorato. Il malessere attraversa tuttavia altre aree del partito (Matteo Orfini) e non entusiasma la sinistra di Andrea Orlando e Gianni Cuperlo. Tra i pochi entusiasti c’è Goffredo Bettini, tornato nel ruolo di playmaker della segreteria del Pd dopo aver trascorso la parentesi Covid in Thailandia. Un altro convinto assertore per realismo del rapporto con i 5 Stelle è Dario Franceschini, sostenitore (fino a quando?) della segreteria di Zingaretti.

Chi esulta è Matteo Renzi, per il quale si apre uno spazio politico impensato e che può risollevarlo dall’angolo in cui si era cacciato dopo l’uscita dal partito. L’ex premier può dare identità a un progetto alternativo al Pd, in quanto quest’ultimo rischia di scolorirsi nell’abbraccio con i grillini. Già sul tema dell’anti Raggi a Roma l’area politica renziana potrà alzare la voce sulle candidature di una lista unitaria del centrosinistra. La concorrenza tra Pd e Italia viva è destinata di conseguenza a diventare incandescente.

Meno problemi ci sono in casa 5 Stelle. Alcuni dissidenti infatti hanno già abbandonato la barca. Vito Crimi, facente funzioni di portavoce, e Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, gestiscono come possono la scelta di governo e le correzioni introdotte con il voto della piattaforma Rousseau. In ribasso appaiono le quotazioni di Davide Casaleggio e di Alessandro Di Battista, oppositori silenti e per ora senza esercito al seguito. Il problema più rilevante resta perciò convincere i militanti e gli elettori sugli ex nemici diventati amici e potenziali alleati. 

Sempre più decisivo in prospettiva è il ruolo del premier Giuseppe Conte, molto quotato nei sondaggi e prima o poi di fronte al bivio se scegliere il ruolo di leader dei 5 Stelle o quello di leader di una coalizione più larga del rapporto Pd-grillini. Conte è il valore aggiunto che può rendere quell’alleanza non perdente in partenza quando si arriverà alla verifica delle elezioni politiche.

Pd e 5 stelle. L’accordo è più forte, i disaccordi pure ultima modifica: 2020-08-19T15:22:12+02:00 da ALDO GARZIA
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