Riecco Dahlan, uomo chiave dietro l’intesa Emirati-Israele

Cinquantanove anni, ha guidato la lotta di Fatah contro Hamas a Gaza e oggi si propone come un leader energico capace di cambiare davvero le cose. Su di lui puntano i registi dell’operazione del riavvicinamento tra Israele e paesi sunniti, col sacrificio della causa palestinese.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Se c’è una giornalista israeliana che conosce ogni risvolto della realtà palestinese, questa giornalista è Amira Hass. Racconta così su Haaretz, una storia emblematica di ciò che si sta muovendo, sotto traccia, in campo palestinese dopo l’accordo di normalizzazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti.

La voce emozionata e festosa dell’annunciatore sulla Voce della Palestina ha dato l’impressione che si trattasse di un evento molto importante: il quarto raduno nazionale per affrontare l’annessione, che si tiene nel villaggio di Turmus’ayya a nord-est di Ramallah. All’evento interverrà anche un rappresentante di Hamas, ha promesso, e il suo discorso – come quello degli altri oratori – sarà trasmesso in diretta. E tutto questo su una stazione radio che non intervista i membri di Hamas o chiunque altro non sia d’accordo con il leader Mahmoud Abbas. Quando il popolo palestinese viene tradito deve esserci una manifestazione pubblica di unità nazionale – questo è stato il messaggio del raduno che si è svolto mercoledì scorso e che si è concentrato sull’opposizione alla “normalizzazione gratuita”, come è definito il recente accordo tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele.

Fatah – prosegue il racconto di Amira Haas – ha inviato i suoi funzionari al raduno: Il primo ministro Mohammad Shtayyeh ha parlato, e i suoi colleghi, tra cui Sabri Seidam, Rawhi Fattouh e Jibril Rajoub, si sono seduti su sedie di plastica intorno al palco, accanto ai perpetui rappresentanti di altre organizzazioni palestinesi (alcuni dei quali minuscoli e negligenti). Tutti ascoltavano pazientemente i discorsi.

E chi era assente alla manifestazione di unità? I membri del blocco di riforma democratica di Fatah, in altre parole i sostenitori di Mohammed Dahlan, che insieme all’ex capo della sicurezza di Fatah sono stati espulsi dal movimento – ma rifiutano il diritto di Abbas di espellerli. Il nome di Dahlan non è stato menzionato, ma aleggiava nell’aria. Le voci e le supposizioni che si diffondono nel dibattito palestinese sono che Dahlan, consigliere del principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Mohammed bin Zayed, è il mediatore dell’accordo con Israele e uno dei preferiti da israeliani e americani, che hanno intenzione di incoronarlo come prossimo leader palestinese.

Non è dunque un caso che la voce di Dahlan non si sia unita al coro dei dirigenti palestinesi, da Abu Mazen ai capi di Hamas, che hanno gridato al tradimento di Abu Dhabi per la pace sottoscritta con Israele. E quel silenzio ha una possente valenza politica, che non è sfuggita a Ramallah né a Tel Aviv o a Washington.

Marchiato come ‘un traditore’ nelle proteste di strada, il dissidente palestinese in esilio Mohammed Dahlan è definito un architetto del dietro le quinte dell’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti che ha scatenato una furia in patria,

scrive France24 in un reportage dai Territori occupati palestinese, rimarcando che Dahlan

è il consigliere di uno degli uomini più potenti del Medio Oriente, il principe ereditario di Abu Dhabi e leader effettivo degli Emirati Arabi Uniti, lo sceicco Mohammed bin Zayed Al-Nahyan, altrimenti noto come MBZ.

“Ad Abu Dhabi è diventato molto, molto vicino al sovrano come consigliere economico, uno che conosce bene Israele”, dice all’AFP. Yaakov Peri, ex capo di Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano. Ma “coloro che accusano Dahlan per l’accordo con gli Emirati non stanno dicendo qualcosa di vero”, aggiunge Peri, anche se l’esule aveva incontrato “molti israeliani” in visita ad Abu Dhabi prima dell’accordo.

“Siamo sicuri che sia stato complice e sponsor di questa normalizzazione”, è la ferma opinione di Adnan al-Dumairi, portavoce dei servizi di sicurezza a Ramallah.

Mahmoud Dahkan (Abu Fadi)

Ha la fama di duro Mohammed Dahlan. Cinquantanove anni, ha guidato la lotta di Fatah contro Hamas a Gaza e oggi si propone come un leader energico capace di cambiare davvero le cose. Ma è anche stato esiliato dalla Cisgiordania con accuse di corruzione quando ha iniziato a opporsi politicamente ad Abu Mazen. Per qualsiasi altro questa avrebbe potuto essere l’inizio della fine politica, ma per Dahlan è invece stato un nuovo inizio: rifugiatosi negli Emirati Arabi Uniti è diventato consigliere del sovrano locale. Come inviato degli Emirati negli ultimi anni ha girato l’Europa e il Medio Oriente, come diplomatico, contribuendo, tra le altre cose, a mediare gli accordi diplomatici tra Egitto ed Etiopia circa il progetto della Renaissance Dam. In passato ha dovuto subire l’emarginazione sulla base di accuse di corruzione; accuse rivoltegli quando Dahlan annunciò di voler correre contro Abu Mazen. Una coincidenza che alla fine ha fatto il gioco dell’emarginato, che l’opinione pubblica palestinese ha visto a quel punto sotto una luce diversa: vale a dire come l’uomo che aveva osato sfidare una nomenclatura inamovibile, sempre più lontana dai problemi, drammatici, della popolazione. Insomma, come i leader “anti-casta”.

Parà israeliani nei pressi della Striscia di Gaza

L’avanzata di Dahlan va inquadrata all’interno dello scontro che segna l’intero scacchiere mediorientale: quello tra sunniti e sciiti. Il ritorno in Palestina dell’Egitto, il sostegno di Arabia Saudita, Qatar, EAU e ora anche della Giordania, a Dahlan sono anche l’investimento su un leader che sta cercando di riportare Hamas nell’alveo sunnita, strappandolo dalle “braccia” dell’Iran sciita e di Hezbollah libanese. Nel gennaio 2017, nel pieno di una sanguinosa guerra civile a Gaza, Dahlan concesse una interessante intervista ad Haaretz, il quotidiano progressista israeliano. Il presidente in pectore palestinese aveva sfidato Hamas intervenendo a una manifestazione di Fatah nella Striscia, la prima dopo tanti anni. All’intervistatore che gli chiedeva perchè fosse il bersaglio dei radicali islamici, Dahlan rispose così, in terza persona: “Sono sicuri che se uccidono Mohammed Dahlan, Fatah scomparirebbe, ma non capiscono che questo (Fatah) è un movimento popolare”. E poi l’avvertimento, una sorta di pizzino palestinese:

Loro (i capi di Hamas, ndr) sanno che io li conosco personalmente meglio di chiunque altro, da quando Israele ha cercato di collaborare con loro contro Fatah, dagli anni in cui Mahmoud al-Zahar (il ministro degli Esteri di Hamas, ndr) era in contatto con Yitzhak Rabin ma hanno commesso una infinità di errori, indebolendo la causa palestinese, e adesso pensano di risalire la china minacciando di morte fratelli palestinesi solo perché aderiscono a Fatah.

Mahmoud Abbas (Abu Mazen)

Dall’avvertimento all’apertura. Nell’intervista Dahlan non chiude le porte ad un riavvicinamento, poi messo in atto.

La soluzione – rimarcò allora – è quella democratica: libere elezioni, alla fine dobbiamo andare avanti assieme, ma per procedere in questa direzione dobbiamo prima rafforzare Fatah per dimostrare ad Hamas che Gaza non è loro, Gaza non è Tora Bora. In passato abbiamo commesso degli errori, ma abbiamo imparato la lezione, e non li ripeteremo.

Dahlan è quello che il noto editorialista di Yedioth Ahronoth, – il più diffuso quotidiano d’Israele – Alex Fishman, ha definito “l’asso nella manica della coalizione filo-occidentale formata da Giordania, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Israele.

La regia sunnita manovra dietro le quinte: a rivelare il piano pro-Dahlan a Middle East Eye sono state fonti giordane e palestinesi. Secondo tali indiscrezioni, Abu Dhabi avrebbe già informato Israele dell’intenzione di sostituire Abu Mazen con Dahlan e la questione sarebbe in via di definizione anche con l’Arabia Saudita. Gli obiettivi del progettato cambio al vertice sarebbero unificare e rafforzare Fatah in vista delle elezioni che Abu Mazen non può più congelare all’infinito; indebolire Hamas; assumere il controllo dell’Olp e dell’Anp; arrivare ad un accordo di pace con Israele con il sostegno dei regimi arabi sunniti. Questo nel lungo periodo; nel breve l’obiettivo di Dahlan è soprattutto il rilancio economico e il miglioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi. Condizioni sempre più degradate, soprattutto nella Striscia: il tasso di disoccupazione di Gaza è il più alto del mondo, secondo un rapporto della Banca mondiale. L’economia nel territorio palestinese, “strangolata” dalla guerra dell’estate 2014 e dall’embargo israeliano, è sull’orlo del collasso. Il 43 per cento degli 1,8 milioni dei residenti della Striscia (che vivono in 160 chilometri quadrati) sono disoccupati. Tra i giovani il sessanta per cento non ha un lavoro. Il prodotto interno lordo pro capite nella Striscia di Gaza è calato di oltre un terzo negli ultimi vent’anni. Negli ultimi due anni l’economia si è ridotta di almeno mezzo miliardo di dollari, mentre il tasso di povertà ha raggiunto il 42 per cento, nonostante l’ottanta per cento della popolazione riceva aiuti umanitari.

Per far fronte a questa situazione catastrofica, sono vitali i finanziamenti delle petromonarchie del Golfo. E i petrodollari sono vincolati da una successione “pilotata” ai vertici dell’Anp: le chiavi del forziere sono nelle mani di Mohammed Dahlan.


Copertina: Il segretario di stato Mike Pompeo in visita a Riyadh, 20/2/2020

Riecco Dahlan, uomo chiave dietro l’intesa Emirati-Israele ultima modifica: 2020-08-25T19:14:43+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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