Per una singolare coincidenza di eventi l’estate 2020 può rappresentare per Venezia un banco di prova e un momento di passaggio. Con le opportunità e i rischi che questo comporta. Comunque una svolta potenziale da ponderare con attenzione.
Alla vigilia del rinnovo amministrativo del Comune s’incrociano, intrecciandosi, due diversi documenti che hanno per oggetto la città e la sua laguna.
Da un lato, un nuovo rapporto Unesco che riscatta e rimette sul tavolo la questione del sito a rischio di Venezia, molto maldestramente accantonata lo scorso anno a Baku; dall’altro, l’istituzione della nuova Autorità per la laguna di Venezia in sostituzione del Magistrato alle acque, anche questo assai maldestramente soppresso pochi anni or sono, buttando via con l’acqua sporca anche il bambino.
Tutto questo potrebbe anche rientrare nell’evoluzione dell’ordinario se non s’iscrivesse in un gioco che si è fatto più grande, e riguarda tutti ma a ognuno richiede lucidità e coraggio. Il Recovery Fund per l’uscita dalla pandemia, che ha colpito tutta Europa, rappresenta uno scenario, tanto comune quanto inedito, con un chiaro contenuto di opportunità, ma solo per chi lo saprà usare, innovando.
Venezia si trova per certo nella condizione di rappresentare un test dove il rapporto tra ambiente economia e società contemporanee va ripensato e riproposto assai più che in altre realtà, pure importanti, ma dotate di minor complessità e di diverso valore simbolico.
L’anomalia della città e della sua laguna, che escono dal secolo della grande industrializzazione costiera del Novecento sotto lo stress di una nuova pervasiva industrializzazione, quella del turismo internazionale, impone una seria riflessione sul suo futuro. Assai più di molte altre città pur alle prese con grandi problemi epocali.
Sia l’Autorità per Venezia sia il nuovo rapporto Unesco di questo parlano, nei rispettivi ruoli di istituzione amministrativa e di istituzione culturale, disponendo indirizzi e strumenti per riprendere le fila di una storica tradizione di saggia gestione ambientale, stravolta dalla forza di trasformazioni indotte dalla evoluzione dell’economia internazionale degli ultimi cento anni. E di quelli più recenti in particolare.
Ma tra indirizzi, strumenti, risorse e azioni va ricostruito un nesso sostanziale e non formale. In sostanza vanno impugnate delle nuove regole del gioco che non ripetano quelle liturgie e quei comportamenti che sinora hanno raggirato e fallito il compito di garantire l’equilibrio tra le componenti del singolare ecosistema naturale, antropico e culturale che città e laguna rappresentano agli occhi del mondo.
Su questo punto economia e società locali, con le istituzioni nazionali, sono chiamate a compiere una diversa sintesi per aprire uno scenario nuovo, che a Venezia ha la possibilità di divenire emblematico purchè si sottragga dalla filosofia della decadenza posta a traino della pura riproposizione del quadro esistente.

Unesco
Il nuovo rapporto Unesco così riassume e sintetizza le grandi e note criticità veneziane. Una crescita della monocultura turistica pervasiva e asfissiante che direttamente accentua il declino demografico della città per le dinamiche di rendite immobiliari che produce nell’“accoglienza turistica”. E una analoga insostenibile pressione del turismo crocieristico sul delicati equilibri del sito veneziano nel suo complesso.
Di qui il forte richiamo a una rinnovata visione strategica per le costituenti essenziali di protezione del sito a rischio, città e laguna, con sollecitazione a rivedere la governance complessiva del delicato sistema con gli strumenti di una programmazione integrata tra ecosistema lagunare e sistema economico locale, condivisa con gli stakeholder. Quello che finora è mancata o è abortito.
Con una richiamo particolare alla “buffer zone”, la zona cuscinetto tra il sito protetto e l’entroterra metropolitano affacciato in laguna. Un richiamo doveroso dato che proprio su questa zona di transizione tra terra e acqua, la gronda e le aree limitrofe, si sono concentrate le mire della amministrazione in carica, con la idea di valorizzazione immobiliare dei bordi esterni del sito vero e proprio. Un “effetto Venezia” spazialmente dilatato senza vincoli sulla terraferma, a sostegno di iniziative immobiliari tanto massicce quanto rigorosamente privatistiche. Con il sindaco a fare da traino.
In sostanza agli antipodi delle raccomandazioni Unesco.

Autorità per la laguna di Venezia
La neonata Autorità per Venezia si presenta invece inglobando, tra le altre cose, i contenuti di legge del 2006 sui siti italiani Unesco, dichiarando come propria l’ottemperanza a quella metodologia gestionale di tutela attiva, finora disattesa dalla politica, nazionale e locale. La nuova Autorità non è certo l’antica Magistratura scomparsa, è piuttosto una emanazione del potere e della finanza centrale con partecipazione locale. In ogni caso un prodotto di equilibri politici, comunque meglio se distanti dai poteri locali coi loro quinquennali condizionamenti elettorali, ma non certo per questo scevra da pressioni economico finanziarie centrali, anzi.
L’accasamento presso il MIT, con contributi settoriali degli altri Ministeri competenti, la qualifica come centro di spesa pubblica sotto l’egida delle infrastrutture, una visione limitativa e attardata su precedenti ordinamenti centrali. Di certo risente della presenza del Mose ma non si esaurisce affatto in questa infrastruttura, dal compito ancillare, che sicuramente non è il prodotto di una visione ecosistemica ma, nella migliore delle ipotesi, della ingegneria idraulica all’epoca del suo concepimento.
Illuminante in proposito il recente esempio di progettazione dissennata nella buffer zone aeroportuale di Tessera. Un Bretella di collegamento ferroviario, malauguratamente denominata “cappio”, per connettere il Marco Polo con la ferrovia tramite un percorso in galleria profonda peri lagunare col miraggio di portare treni AV in aeroporto. Cinquecento milioni di costo contro centoventi di un preesistente progetto assai più razionale, economico ed efficiente. Una procedura targata RFI che però ha navigato per anni nelle segrete stanze del MIT, uscendo allo scoperto per la approvazione della comunità locale in piena pandemia. Un autentico insulto alla trasparenza e alla partecipazione.
Sia chiaro. Non è con queste credenziali che il MIT può candidarsi a operare in laguna! Di Mose ce ne è già uno!
Per il compito affidatole la neonata Autorità va invece radicata in un livello istituzionale superiore, la cui sintesi sia di rango interministeriale e faccia direttamente capo alle responsabilità del governo nazionale, in analogia a quanto previsto a partire dal “Comitatone”, istituito fin dal 1984.

Recovery Fund
A questa istanza di emergenza pandemica si riconduce la necessità di posizionare Venezia nel quadro dell’esperienza internazionale invocata dall’Unesco e propugnata dallo scenario dello sviluppo verde e sostenibile cui s’ispira la filosofia della terza novità. Quella del Recovery Fund europeo, con cui Venezia dovrà cimentarsi se vorrà scrollarsi quel localismo asfissiante da cui è stata fagocitata negli anni più recenti.
Nel nuovo scenario europeo si entra però solo con una nuova capacità progettuale, qualcosa che alle istituzioni veneziane manca da tempo.
Sotto l’ombrello del Recovery Fund s’apre una stagione per “Paesi e Città più verdi e sostenibili” un motto a declinazione multipla purché intesa a modificare aspetti dell’esistente dentro una regia europea con cui dialogare in modo propositivo e cooperativo. Con gli strumenti adeguati.
Per Venezia un vasto campo di intervento per proporsi al mondo con le innovazioni richieste dalla propria specificità. Almeno su tre punti.
Al centro la sfida climatica dei crescenti livelli marini, qualcosa che la accomuna a tante realtà mondiali dotate di analoghi problemi ma di minor visibilità. Una sfida dal significato materiale e simbolico al tempo stesso, dentro cui si esprima la ricerca di nuovo equilibrio in un contesto di ambiente antropizzato che vada ben oltre i ritrovati della pura ingegneria idraulica sinora dominante.
Di qui al tema della resilienza urbana il passo è breve ma non semplice. In esso si racchiude la vita economica e sociale di una città da declinare in una pluralità di iniziative. Obbligatorio misurarsi con una nuova organizzazione dell’economia turistica di una città d’arte che punti a un turismo di migliore qualità e di inferiore quantità, allungando il tempo di visita e articolando l’offerta su modalità meno effimere che radichi nel visitatore la idea di cittadinanza temporanea, perfettamente in linea con il concetto di turismo esperienziale. Agli antipodi della anonima massificazione sospinta dall’industria predatoria del turismo internazionale. Un turismo che schiodi la città dalla monocultura di cui la pandemia ha evidenziato il limite.
Al tempo stesso l’idea di città culturale non può restare passivamente schiacciata solo sul grande patrimonio storico artistico o sulle attività della Biennale. Occorre promuovere il valore di una cultura localmente prodotta, innestando sul grande lascito storico tutto il potenziale creativo del digitale come nuovo settore di attività produttiva. Per questo serve costruire un comune interfaccia permanente, organizzativo e tecnologico, con le attività di formazione e ricerca esistenti, Università Musei Archivi e scuole superiori, da collocare saldamente con una propria specifica identità nelle reti internazionali di produzione specialistica del sapere contemporaneo.
Per passare dalle parole ai fatti due cose sono necessarie: una base di consenso da costruire e una strategia di lungo periodo da adottare, individuando gli obbiettivi e il necessario percorso per arrivarvi. Potremmo dire una vera e propria Agenda per il 2030.
Un tempo lungo ma indispensabile per allineare le volontà e le risorse in una città che ha bisogno di riprendere in mano il proprio destino espellendo i molteplici intenti di quanti oggi ambirebbero dedicarsi solo ad una lucrativa spartizione delle sue spoglie.

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