Abito a San Giacomo dell’Orio. Sono stato tra le tante e i tanti promotori e protagonisti di un atto illegale e legittimo, che ci fa sentire moralmente a posto. Ecco perché…
Sono infatti uno delle tante e dei tanti che da fine settembre 2017 al 6 marzo 2018 riaprirono gli spazi dell’Antico teatro di anatomia alla popolazione, trasformandolo per qualche mese un bene comune “liberato”, capace di essere per la Venezia insulare la “casa delle città”: il luogo delle idee e delle pratiche che la rendono viva.
La Vida è stata, e la comunità dei “vidani” continua a essere, un laboratorio che ha visto alternarsi decine di attività, spontanee e organizzate, culturali, di incontro, di relazione. Uno spazio aperto a tutte le età, dai bimbi delle ludoteca alle signore anziane per i loro incontri.
Sei mesi di “concreto miracolo” hanno fatto vedere come aprire un portone chiuso può fare entrare le forze di una città che non trovano luoghi e spazi dove esprimersi.
Per farlo, dopo aver tentato in tutti i modi – prima della vendita – di farci ascoltare da politica a istituzioni, siamo stati costretti a compiere un atto illegale: entrare in una proprietà (nel frattempo divenuta privata).
È stato il prezzo che una comunità sapeva di dover pagare per poter difendere i diritti suoi e dei suoi figli, e per far sì che Venezia potesse ancora essere una città. Perché non si può vivere in un palcoscenico al servizio del turismo e in Campo San Giacomo ristoranti e plateatici erano cresciuti fino a togliere spazio al gioco dei bambini e alle attività sociali di base, organizzate a spontanee. Non potevamo perderne un altro…
Non è un caso che l’inqualificabile episodio dei vigili che hanno multato i genitori che organizzavano la festina in campo per il compleanno dei figli sia avvenuto qui, e proprio nel periodo di concessione dell’ennesimo plateatico all’ultimo ristorante (il sesto, che ha sostituito una banca e non si accontentava del giardino interno). Un atto che mette in evidenza come l’attuale amministrazione dimostri, anche con la gestione della polizia municipale, di avere in mente che l’espansione senza limiti del turismo è il solo motore economico e sociale possibile per la città.
La domanda per la nuova amministrazione che eleggeremo è se sia ancora questa la sua “idea di città”. O se aqua granda 2.0 (e cambiamento climatico) e pandemia (non solo tutt’altro che esaurita, ma provocata da una zoonosi che è possibile si ripeta e ne inneschi altre) sono considerate incidenti di percorso o fatti strutturali, dei quali tener conto per cambiare paradigma e costruire una Venezia che veda un turismo (riformato nelle forme e nei modi) come una delle attività presenti in città: non la sola e non l’unica a dare lavoro.

Torniamo a noi. Dunque, avevamo occupato.
Qualsiasi “trattativa con gli occupanti” fu esclusa dalla Regione, che era in attesa di perfezionare il passaggio di proprietà dopo la cessione a un imprenditore che voleva farne un ristorante (il settimo!).
Appena passate la elezioni (non era bello muoversi in campagna elettorale contro una comunità che stava diventando popolare, riconosciuta e apprezzata in città e – se non da tutte sostenuta – almeno rispettata dalle forze politiche cittadine) il 6 marzo 2018 siamo stati sgomberati.
Sei di noi – scelti a caso e senza prove – furono accusati di avere avviato l’occupazione e denunciati – con tutto il seguito e i costi di una difesa legale prima che si arrivasse a una conciliazione giudiziaria.
Il presidente Zaia si distinse, nell’estate 2017, prima del rogito e che precedette la riapertura, nel rifiutare qualsiasi colloquio proposto da una comunità che aveva concrete proposte di utilizzo che avrebbero mantenuto pubblico lo spazio. Perché a campo San Giacomo ristoranti e plateatici certo non mancano e quelli che vanno salvaguardati sono invece gli spazi di gioco per i bambini. Più putei e meno plateatici, una parola d’ordine che dovrebbe valere anche per la Venezia della ripresa post Covid.
Il vice presidente Forcolin (nomen omen) aggiunse un tocco di stile, dichiarando che “era già tanto se gli occupanti non erano stati murati dentro”.
È interessante mettere a confronto la statura morale di questo politico e quella della Comunità.
Forcolin è stato uno dei politici che si sono assicurati i 600€ al mese che il governo ha messo a disposizione dei lavoratori autonomi a parziale compenso della discontinuità di reddito provocate dalla crisi da coronavirus. Azione “lecita” a termini di legge. Ma in termini politici e reddituali i buonisti la chiamano “brutta figura”, ma si tratta di un atto di ingordigia individuale, nel solco culturale di “ogni lasciata è persa”.
Giudichino i lettori la statura politica a morale di questi uomini, che hanno fatto “rispettare la legge”.
Mettano a confronto chi difende i beni comuni “per tutti” anche a prezzo dell’illegalità (con i rischi personali che ne conseguono) e chi arraffa anche le briciole dei contributi pubblici destinati a chi ne avrebbe bisogno.
Noi “occupanti” ci sentiamo moralmente legittimati. Sapevamo e sappiamo che un atto illegale era necessario per dare alla città uno spazio “vivo”, 24 ore su 24, grazie al presidio e alla capacità di progetto di decine e decine di attivisti che hanno custodito la Vida senza averne la chiavi, con la presenza continua, notte e giorno.
Personalmente ricordo con grande piacere le notti passate dentro, cui facevano seguito le colazioni in campo. Chi aveva “fatto la notte” veniva accolto al mattino dal caffè di chi abita vicino, per un saluto prima di andare al lavoro o per dare il cambio nella presenza.

Veniamo all’oggi.
I lettori di ytali sanno che la comunità non si è arresa, perché la rivista ne ha parlato in varie occasioni [*].
Dopo lo sgombero ha mantenuto una costante presenza in campo: dapprima con le iniziative svolte con continuità attorno al gazebo de “La Vida accanto” (com’è stato chiamato dai bambini che non volevano perdere la sponda per i loro giochi); poi, dopo il suo ritiro, con una costante opera di presidio di quello che avveniva all’interno dell’Antico teatro di anatomia. Bagnata di tanto in tanto da qualche aperitivo “davanti la Vida” dove ci si scambiano le informazioni e ci si consiglia sul da farsi in forma assembleare.
Il nostro primo obiettivo è impedirne la trasformazione in ristorante. Perché la legge non lo consente.
Ed ecco allora che tre associazioni cittadine che hanno preso a cuore la sorte della Vida (Poveglia per tutti, PER Venezia consapevole ed Eddyburg) dopo avere presentato formali diffide per cercare di richiamare l’amministrazione comunale al suo dovere di fermare i lavori di trasformazione in ristorante e per impedire un abuso, hanno deciso di rivolgersi alla Magistratura.
Il 2 luglio 2020 è stato presentato un esposto al Comando Carabinieri Tutela patrimonio culturale di San Marco, da avviare alla Procura di Venezia.


L’esposto della associazioni sulla Vida
L’esposto argomenta perché l’uso dell’immobile per attività di ristorazione è illegittimo in quanto incompatibile con le norme urbanistiche vigenti.
La scheda 20 della VPRG e dell’art.21.2 NTA detta le destinazioni d’uso compatibili, nell’unità edilizia speciale preottocentesca a struttura unitaria (tipo SU), quale è l’Antico teatro di Anatomia: musei; sedi espositive; biblioteche; archivi; attrezzature associative; teatri; sale di ritrovo; attrezzature religiose.
Una diversa destinazione d’uso può essere mantenuta solo se sia provato che essa fosse “in atto” – cioè, insediata e attiva – “alla data del 31 maggio 1996”. La lettera e lo spirito di queste disposizioni vanno chiaramente nel senso che l’uso compatibile prescritto dalla VPRG può essere -temporaneamente – superato solo per evitare la cessazione di attività insediate e attive all’entrata in vigore della Variante del PRG.
Ma questo non è il caso dell’unità di cui si tratta.
Quindi la conclusione è chiara.
È evidente che il progetto e i lavori in atto sull’immobile comportano la modifica della sua destinazione d’uso – da sede regionale a ristorante – in violazione della vigente disciplina urbanistica.
… i suddetti lavori risultano privi di adeguato titolo edilizio non potendo gli stessi essere qualificati come di “manutenzione ordinaria” … né, tantomeno, straordinaria, proprio perché gli stessi sono volti alla modifica della destinazione d’uso rendendo l’immobile idoneo (anche con la realizzazione di fosse settiche) all’uso a “ristorante” (art. 3, comma 1, lett. a e b, dPR n.380/2001).
Delle suesposte circostanze, le associazioni … ritengono di dare adeguata informazione alla Procura della Repubblica per le eventuali iniziative di competenza.
A questo punto la parola spetta alla Procura, che è chiamata ad esprimersi sul grave comportamento omissivo del Comune e a trarne le conseguenze.
È la Procura che deve dire se il Comune sta infrangendo al legge, bloccare l’abuso e condannarlo. E deve farlo subito.
Ma su un piano più politico e di prospettiva l’appello che la Comunità della Vida fa è tornare a ragionare di città.
La domanda è se nella Venezia del dopo coronavirus deve essere ancora tutto e solo turismo?
È del tutto evidente che in campo San Giacomo non serve un nuovo ristorante, con i sei (!) già esistenti che faticano a ripartire.
I preziosi spazi dell’Antico teatro di anatomia vanno messi a disposizione delle esigenze delle città: la gestione dei sei mesi di apertura da parte della Comunità ha fornito alla popolazione servizi che non c’erano, supplendo almeno in parte all’assenza di quelli standard urbanistici che sono elusi e monetizzati.
Le scuole hanno fame di spazi e i fondi che l’Europa metterà a disposizione del contro paese con il recovery fund offre una concreta possibilità di riacquisizione in mano pubblica della struttura.
Un Comune coraggioso li chiederebbe e li utilizzerebbe per creare nuovi spazi per la scuole della zona e per insediarvi quei servizi che rispondono almeno in parte agli standard urbanistici inevasi.
Il tutto con il coinvolgimento della comunità, pur mantenendo ruoli distinti ed autonomi.
Perché i “vidani” hanno dimostrato che una comunità può fornire ad un campo ad una città servizi di cui non dispone e ha bisogno.
Così come “i Gasometri” hanno fatto vedere che è possibile mettere insieme scuole (studenti, docenti, genitori) e abitanti di una sona per assicurare servizi scolastici (la palestra giusta al posto giusto, per le esigenze della scuole della zona) e ampliamento e qualificazione della zone verdi in città.
Un discorso analogo di può fare per l’area dell’ex orto botanico, altro possibile polmone verde che farebbe respirare la città.
In tutti e tre i casi siamo di fronte a compendi ed aree della quali l’azione di cura delle comunità ha evidenziato la natura di “beni comuni emergenti”, chiamando l’Amministrazione comunale a fare una scelta.
Se la città ha bisogno di servizi per gli abitanti deve smettere di interloquire prima e solo con la imprenditoria che investe sul turismo e trasforma il patrimonio in alberghi, airbnb, ristoranti.
Il Comune deve parlare con studenti, insegnanti e genitori di Sarpi, Benedetti e Tommaseo prima che con Ivan Holler, con gli abitanti della case attorno all’ex orto botanico prima che con Leonardo Marseglia, con la comunità della Vida prima che con Alberto Bastianello.
Questo si chiede a chi ci governerà.
Prima di tutto dichiarare che non concederanno mai i cambi di destinazione d’uso di cui quegli imprenditori hanno bisogno per realizzare i loro progetti di alberghi o ristoranti.
E poi dire a chiare lettere che, dopo che la crisi ha messo in drammatica evidenza i limiti di una monocoltura che lascia la città in ginocchio, lo sviluppo che serve a Venezia è quello artigiano, artistico culturale e scientifico almeno quanto se non più di quello turistico.
In secondo luogo aprire un dialogo con le comunità interessate che porti a determinare insieme la possibilità di utilizzare i Beni Comuni Emergenti (BCE) per fornire servizi e rispondere ai bisogni della città e degli abitanti.
Il rapporto con le Comunità le loro proposte e, quando le dimostrano, le loro capacità di autogoverno ed autogestione, non va temuto ma sviluppato come strumento di rinascita urbana. Nel nostro paese esistono casi di successo dove ciò avviene, come quello di Napoli, dove il Comune riconosce e favorisce questo ruolo delle comunità, ricavandone in cambio un’offerta di servizi culturali e artistici che riempiono molti “vuoti urbani” e alimentano la vitalità del tessuto sociale di quelle zone .
Se la pandemia ha rivelato che il turismo è il settore più esposto ai rischi di una crisi ancora purtroppo tutt’altro che risolta, è doveroso chiederci se sia non solo utile, ma anche solo possibile, “tornare come prima” o se non sia meglio diversificare l’offerta produttiva e di lavoro.
E se a Venezia il patrimonio edilizio non è espandibile i casi sono due: o va alla residenza e ai servizi per i residenti (vecchi e nuovi) o va al turismo. Dobbiamo decidere da che parte andare.


La valorizzazione del patrimonio pubblico – Alienazione sul mercato e aumento della redditività civica?
Il patrimonio pubblico non appartiene a una Regione, a un Comune o ad altri Enti pubblici – che ne sono solo gli amministratori pro tempore – ma al popolo.
Ora quando un Comune o una Regione ci dicono di voler valorizzare un “loro” bene che non utilizzano più alienandolo, coprono un doppio inganno.
Primo: questa valorizzazione finanziaria può al più coprire un buco che si ripresenterà l’anno successivo, mentre la perdita di quel bene è per sempre. E per sempre è il valore traferito al privato, quasi sempre uno speculatore immobiliare.
Secondo: non si considera come vi è un altro modo per valorizzare questi beni, non trasferendo il valore aggiunto ai privati, ma lasciandolo alle comunità.
In città e territori sempre carenti nei servizi urbani (e tanto più dove le economie sono sempre più orientati verso un turismo che tutto ingloba e trasforma – da sede pubblica ad albergo, da affittata ai residenti a casa turistica, da verde pubblico ad area edificabile), risultano sempre più “preziosi” gli spazi di incontro relazione, cultura e socializzazione.
Di tratta di superare la “vecchia prassi”, che consiste nel valorizzare beni e compendi pubblici non più utilizzati per la loro funzione originale (gli ex ospedali, le ex caserme, gli ex gasometri, gli uffici dismessi e via dicendo) con una alienazione speculativa che altro non è che il trasferimento del valore aggiunto di quel bene ad un privato che ne ricava un profitto speculativo.
Serve una “nuova prassi” che li valorizzi con un affidamento a comunità inclusive che con la loro azioni sono in grado di apportare una guadagno duraturo e per tutti, di innalzare stabilmente la redditività civica di quel bene o di quel compendio territoriale.
A Venezia, in terraferma e in Laguna non mancano casi sui quali “esercitarsi” e sui quali la nuova amministrazione dovrà misurarsi (sperando che quelle uscente non tenti qualche negativo colpo di mano nelle sua ormai lunga fase finale, nella quale dovrebbe svolgere solo azioni ordinarie e che non pregiudichino le scelte strategiche future).
Poveglia, Vida, Gasometri, la destinazione dell’ex Umberto I e delle antiche poste di Piazza Barche, piuttosto che il caso recentissimo della Caserma Pepa al Lido, che il comune vorrebbe affidare ad una improbabile onlus creata e gestita da un dipendente comunale (passando sopra a incompatibilità delle funzioni e conflitto di interessi) sono solo i casi al momento più attivi di un lunga serie di BCE presenti sul territorio veneziano.
[*] L’affaire Vida; Una Vida da raccontare; Storia di una comunità resistente e pensante; La battaglia per la Vida

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