Ciò che è accaduto nei giorni scorsi negli Stati Uniti, in seguito all’inaudito ferimento, a Kenosha (Wisconsin), di Jacob Blake, un ventinovenne africano americano colpito alla schiena, sotto gli occhi dei suoi tre figli, da sette colpi di pistola, esplosi da un agente evidentemente desideroso di menar le mani, potrebbe mutare le sorti del voto di novembre. Lo sport, ancor più che dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis (Minnesota), s’è mobilitato in massa, giungendo al blocco di alcune fra le leghe più significative e seguite. Si sono fermati il basket, il baseball, il soccer, il tennis e forti riflessioni stanno avvenendo ovunque, come testimonia la scelta di Colin Kaepernick, campione di football, di inginocchiarsi, quattro anni fa, durante l’inno nazionale che viene suonato e cantato all’inizio di ogni gara della NFL, in segno di protesta contro il trumpismo arrembante e il razzismo e la violenza dilaganti in un Paese in guerra con se stesso.
Anche l’hockey s’interroga e non c’è dubbio che la rivolta sia destinata a estendersi, coinvolgendo pure l’atletica e il resto di una galassia che ha deciso di far sentire la propria voce e di far valere le proprie ragioni. La sfida, stavolta, è epocale, il bersaglio è unanime: Donald Trump, ritenuto un presidente inadeguato, sotto la cui guida l’America si è divisa ed è stata squassata da un’ondata di odio e ferocia senza precedenti. Gli sportivi hanno alzato la testa, si sono ribellati e non si fermeranno. Incuranti dell’accusa di essere dei privilegiati, di volersi occupare di un ambito che non appartiene loro e delle minimizzazioni strumentali del presidente e del suo staff, da LeBron James a Naomi Osaka, il guanto di sfida è stato lanciato e proseguirà, come proseguiranno le manifestazioni, gli appelli e la battaglia planetaria contro la barbarie che ha riempito le piazze di tutto l’Occidente.

È presto per dire se sia un nuovo ’68, se assisteremo a qualcosa di simile ai pugni chiusi di Smith e Carlos a Città del Messico e se la mobilitazione intorno al tema cruciale delle discriminazioni razziali riuscirà a politicizzare una generazione purtroppo restia a mettersi in gioco, in quanto disillusa e non certo attratta dal politicamente debole Biden. Fatto sta che stavolta gli avversari di Trump sono tanti, agguerriti e globali, in quanto nulla di ciò che avviene nella NBA sfugge agli occhi del mondo e la protesta ha varcato ampiamente i confini degli Stati Uniti.
Da una parte, abbiamo l’America rurale e aggrappata a tradizioni ormai anacronistiche e contrarie al progresso della civiltà, tragicamente incarnata da Kyle Rittenhouse, il ragazzo di diciassette anni che, sempre a Kenosha, ha sparato e ucciso due manifestanti neri in lotta per i propri ideali; dall’altra, abbiamo l’America dei diritti, delle marce, delle manifestazioni e della passione civile, colta e cosciente di sé e dei propri mezzi, che, nonostante lo scarso entusiasmo per il candidato democratico, sa che quelle di novembre sono le elezioni più importanti degli ultimi vent’anni, costituendo uno spartiacque fra un prima e un dopo.
Per questo, la mobilitazione andrà avanti, gli sportivi lanceranno appelli, doneranno soldi, scenderanno forse a loro volta in piazza e non rinunceranno a esprimere le proprie idee, esponendosi ad attacchi scomposti e autentiche aggressioni, i cui toni hanno ormai superato il livello di guardia.
Del resto, è noto che il buongusto non sia la caratteristica principale dell’attuale inquilino della Casa Bianca, come è noto che il suo quadriennio abbia cambiato per sempre le dinamiche di una nazione mai come ora ridotta a brandelli. L’importante, il prossimo 3 novembre, è dire basta a tutto questo e provare a voltare pagina, a guardare oltre, a recuperare l’America all’Occidente e l’Occidente a se stesso. È molto più che una partita di basket o di baseball: è l’obiettivo principale di chiunque abbia ancora a cuore le conquiste democratiche degli ultimi sette decenni.
Disney employees are lined up clapping and cheering for the people marching in support of NBA players’ protests against racism and police brutality. The group includes not just referees but some team attendants and others living on campus. pic.twitter.com/VeUjdm4CQg
— Tania Ganguli (@taniaganguli) August 27, 2020
I dipendenti della Disney applaudono arbitri e addetti delle squadre che sfilano per solidarietà con i giocatori della NBA che protestano contro la brutalità della polizia.

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