Visito ai Giardini la mostra della Biennale dal titolo Le Muse inquiete e mi imbatto in un curioso e personalissimo amarcord. Fra i documenti appesi ad una parete trovo un Ellero d’annata, giovane ma già abbondantemente polemico. Era il 1975 e si parlava di un’altra mostra della Biennale. Sentite un po’ l’attacco:
Il concorso per un’ipotetica utilizzazione del Mulino Stucky è destinato a diventare una delle iniziative più deludenti della nuova Biennale (…) Ed è un peccato perché fra le molteplici – ed in parte inevitabili – carenze di un Ente culturale in fase di definizione la scelta politica di intervenire sul territorio veneziano – rilevando l’esistenza di spazi “abbandonati” e sollecitando il dibattito sul loro possibile utilizzo – era diventata quasi il simbolo di una Biennale che tenta di creare un rapporto organico e fattivo con la realtà sociale senza limitarsi ad essere luogo di “registrazione”.
Per la cronaca, il pezzo usciva sul settimanale di area socialista Nordest, a tratti volentieri screanzato, e socialista era Carlo Ripa di Meana, il presidente di quella Biennale che, l’accusa in sintesi, prometteva per poi non mantenere. Si chiamava dialettica e ce n’era in abbondanza. Spesso accompagnata da sberleffi. Sapete come la redazione decise di titolare quel pezzo? Il mulino del popò, tanto per non farci mancare nulla.
Il Mulino Stucky: da tempo è albergo pluristellato della catena Hilton. Forse non era casuale che quelle progettazioni fantasiose messe in mostra ai Magazzini del Sale fossero destinate, sin dalla nascita, al celibato. Macchine celibi s’intitolerà, anni dopo, un’analoga esposizione fra arte e architettura, stavolta rivendicando apertamente ciò che noi stessi mai ci sogneremmo di contestare: il carattere gratuito del gesto artistico, quella apparente “inutilità” che è cifra della sua stessa irriducibile libertà. Mentre Venezia, sino ai giorni nostri, continua a reclamare gli spazi “abbandonati”. O trasformati in manufatti ad uso e consumo esclusivo del turismo, specialità della casa. Ironia della sorte, dietro al Mulino Stucky, nell’area un tempo occupata dagli studi cinematografici della Scalera, un intero quartierino residenziale resta da anni ultimato e inutilizzato, imbrigliato nei postumi giudiziari del medesimo ricostruttore dello Stucky, un qualche Caltagirone… Appartamenti anch’essi celibi ma senza finalità artistiche. Ne abbiamo parlato altre volte, scandalo e magone restano.

E la Biennale? Benemerita anche solo per il fatto di esistere. Specie di questi tempi. Come al solito, alla Mostra ci saranno film belli e brutti, ciascuno dirà la sua e tirerà i suoi bilanci. Ma il coraggio di andare in scena è fuori discussione, il medesimo – forse – dei suoi 125 anni di vita, di cui Le Muse inquiete parlano con riferimento alla Storia nel suo farsi e disfarsi, almeno dagli anni Trenta in poi, quando in nome della Grande Venezia Volpi apre al cinema, al teatro e alla musica. Entri al Padiglione Italia e sei immediatamente aggredito dai cinegiornali Luce che inneggiano all’arrivo di questo o quel gerarca, più spesso Goebbels. Quello che metteva mano alla pistola quando sentiva parlare di cultura, ma non alla Biennale, evidentemente. Giri l’angolo e un altro schermo ti rimanda le immagini assai più rilassate di divi e divine a passeggio per la spiaggia dell’Excelsior. Regime o rotocalco? Una cosa non esclude l’altra, perché così va il mondo, alla Biennale e altrove. L’impareggiabile doppiezza dell’esistente, di cui anche la massima istituzione culturale italiana è stata partecipe. Inevitabilmente.

Passata la tempesta fascista e bellica, la “normalità” della Mostra è anche quella di un Visconti che, pur acclamato dalle platee, non vince un Leone d’oro manco morto. Prima il venezianissimo Senso (1954) e poi Rocco e i suoi fratelli (1960, annus horribilis) cadono, pare, per comunismo sul campo: c’è la guerra fredda e non sta bene laureare un “rosso”, sia pure di nobili natali. Per farlo vincere ci vorrà Luigi Chiarini, con Vaghe stelle dell’orsa, nel 1965, ma sarà come una specie di premio alla carriera. Gli anni del centrismo, e poi i promettenti Sessanta, che peraltro si chiudono in clima di aperta contestazione: contro lo statuto fascista, i premi, le vacue passerelle e via elencando con tutto quel che all’epoca suonava reazionario. Latore di Mostre fra le più coraggiose in assoluto, Chiarini resterà vittima del Sessantotto. Nemesi che capitano.
Ripresa a suon di riforme e di impegno nel 1974, con il citato Ripa di Meana: il Cile massacrato da Pinochet e la Spagna che si libera di Franco (muerto en su cama, peraltro, tranquillamente nel suo letto), le mille trovate di Luca Ronconi e il decentramento, sino al Dissenso, nel 1977, geniale spiazzamento a sinistra, con i comunisti di casa nostra ancora un po’ increduli circa le incredibili avverse sorti del cosiddetto “socialismo reale”. E Craxi se la ride. A seguire, per davvero, un graduale retour à la normale, in linea coi tempi. Via col Carnevale, Scaparro ci crede e si prodiga, sulle scene e fuori, ma reinventare la tradizione diventa presto una moda. Qui e altrove. Nasce Architettura e finirà spesso per confondersi con Arti Figurative. Momenti di stanchezza ed altri di grandiosità, ancora magari di sperimentazione, ma senza troppi scossoni. Ed anche gli scandali, quando ci sono, odorano di marketing. Cicciolina, per dire. A Baratta, infine, il merito di una grandeur ritrovata e inoppugnabile, specie sui versanti più mediaticamente spendibili del cinema e delle arti. Dopo di lui, forse non il diluvio ma insomma… Quel che è andato accadendo certo non ha dato una mano.

Deve più la Biennale a Venezia o Venezia alla Biennale? Domanda oziosa, senza plausibile risposta. Una bella complementarietà, piuttosto. Curata da Cecilia Alemanni insieme agli altri cinque odierni direttori di settore, la mostra delle Muse inquiete è stata resa possibile in tempi rapidi ed anch’essi d’emergenza dal portentoso Archivio Storico di cui la Fondazione dispone, non sempre valorizzato a dovere. Diciamo pure trascurato, dopo il suo pionieristico avvio in riva al Canal Grande, nelle mani del buon Wladimiro Dorigo. Se ne parlava come di un “volano” (termine desueto) per le mitiche attività permanenti, poi perse per strada. Se ne riparla in tempi di pandemia soprattutto per merito del nuovo presidente, Roberto Cicutto, che sembra credere nel suo possibile rilancio, opportunamente collocato, accorpato, strutturato e gestito. E potrebbe essere la volta buona per andare oltre la “vetrina” di cui la Biennale è giustamente orgogliosa. Esattamente come Venezia va orgogliosa della sua bellezza. Destini intrecciati. Ma non basta più. Prima che la Storia si sciolga definitivamente nel presentismo, ogni scommessa è lecita. Anzi, ben accetta.

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