Se Joe ha un problema coi latinos

L’elettorato ispanico è stato trascurato da entrambe le parti politiche. Un errore soprattutto per i democratici, che potrebbe costare loro la Casa bianca
MATTEO ANGELI
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Sono lontani anni luce i tempi in cui a Ronald Reagan bastava dire “muchas gracias” per corteggiare l’elettorato ispanico. Era tutta un’altra epoca: negli anni Ottanta, in America i cosiddetti “latinos” erano meno di quindici milioni. Oggi sono più di sessanta milioni e, secondo alcune stime, nel giro di trent’anni dovrebbero infrangere quota cento. Un’esplosione demografica, che fa dell’elettorato ispanico la prima minoranza etnica in termini di aventi diritto al voto. Secondo le stime del Pew Research Center, infatti, alle prossime elezioni presidenziali il 13,3 per cento degli aventi diritto al voto sarà di origine ispaniche, il che equivale a 32 milioni di latinos. Gli africano americani, invece, si fermano al dodici per cento, ovvero a trenta milioni di potenziali elettori. 

Tale preminenza demografica si traduce in peso politico. Gli ispanici possono essere l’ago della bilancia. Un ago che pende chiaramente dalla parte dei democratici, con il 71 per cento dei latinos che nel 2012 ha votato per Barack Obama e il 66 per cento che nel 2016 ha sostenuto Hillary Clinton. Ancora, nel 2018, in occasione del voto per il rinnovo del Congresso, il 69 per cento di questo segmento elettorale si è espresso a favore dei democratici, contro il 29 per cento che ha dato fiducia a candidati repubblicani.

Il punto, però, non è da che parte l’ago pende, ma con quale intensità. Nel 2016 a Donald Trump bastò conquistare il 28 per cento del voto ispanico per portare a casa la presidenza. Un risultato leggermente più alto di quello di Mitt Romney nel 2012 (27 per cento) e un po’ più basso di quello di McCain nel 2008 (31 per cento). 

Per avvicinarsi ai giovani, Biden ha anche organizzato un evento online con Cardi B, rapper newyorchese di origini domenicane e trinidadiane

Il peso dell’elettorato latino è particolarmente evidente in alcuni swing states, i cosiddetti stati in bilico. In particolare in Florida a in Arizona. Se nel 2016 l’affluenza degli ispanici fosse stata maggiore in questi due stati, probabilmente oggi Trump non sarebbe presidente. Ma in Florida e Arizona più della metà dei latinos aventi diritto al voto disertò le urne e fu così che la corsa alla Casa bianca si decise in Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. 

Quest’anno la storia rischia di ripetersi, perlomeno in Florida. Uno stato che porta con sé la rispettabilissima dote di ventinove grandi elettori. Qui per Trump è “vincere o morire”. Dal 1924, infatti, nessun candidato repubblicano ha ottenuto la presidenza senza conquistare la Florida. Se Trump perde la Florida, per lui sarà “game over”. Ma se vince, la partita per la rielezione continuerà a giocarsi su altri campi, come i già citati Michigan, Pennsylvania e Wisconsin.

Nel “Sunshine State” non è raro che la corsa si decida sul filo di lana. Nel 2016, Clinton perse per solo 1,2 per cento punti percentuali. Questo nonostante potesse contare su un importante vantaggio per quanto riguarda il voto ispanico: 62 per cento contro il 35 di Trump.

I latinos sono quindi uno dei più potenti blocchi elettorali nello stato. Il loro peso nella prossima tornata rischia di essere ancora più importante. E, diversamente dal 2016, sfavorevole ai democratici. A meno di otto settimane dal voto, un sondaggio condotto da Nbc News/Marist Poll mostra un testa a testa tra Trump e Biden in Florida, con i due agganciati al 48 per cento nelle intenzioni di voto. Questa volta però il voto latino contribuisce a favorire il presidente in carica. Trump potrebbe infatti contare sul supporto del 50 per cento degli elettori ispanici, mentre Biden, invece, resterebbe fermo al 46 per cento. 

Anche tra i latinos della contea di Miami-Dade, tradizionalmente a sinistra, Trump sarebbe leggermente avanti, d’un solo punto percentuale. Questo la dice lunga sul peso del voto cubano, una delle componenti più influenti tra i latinos di Miami Dade e dello stato. Un voto, tradizionalmente a destra. I cubani-americani, soprattutto quelli di prima generazione, fuggiti dalla dittatura comunista, votano infatti repubblicano.

È stato così anche nel 2016: Trump batté facilmente Clinton nel voto cubano, 54 a 41. Un exploit che il candidato repubblicano conta di ripetere, anche attraverso una campagna tesa a demonizzare il suo avversario, dipinto come un pericoloso socialista. Ma non solo: Trump promette anche opportunità economiche e pugno duro contro i regimi dittatoriali, tra cui Cuba e Venezuela. Promesse riciclate dalla scorsa campagna, rispetto alle quali, a dire il vero, l’attuale amministrazione non è stata completamente all’altezza. 

Tuttavia, stando ai sondaggi, Trump in questi anni avrebbe addirittura rafforzato la sua presa sull’elettorato cubano americano. Secondo un’indagine condotta da Bendixen & Amandi/Miami Herald su cinquecento elettori di Miami-Dade, dove vive la maggioranza dei cubano americani dello stato, Trump sorpasserebbe Biden di ben 38 punti percentuali. 

In ogni caso, si tratta di un elettorato estremamente composito. Solo in Florida, i latinos si dividono tra chi ha origini cubane, venezuelane, portoricane, sudamericane e spagnole. Una parte di essi è chiaramente pronta ad appoggiare il presidente in carica, nonostante una presidenza che si può definire, senza remore, “disastrosa” per i latinos.

Trump ha definito gli immigrati messicani “spacciatori” e “stupratori”. Sta costruendo un muro al confine con il Messico. Ha separato migliaia di bambini dalle loro famiglie che, provenienti dal centro e dal sud America, cercavano di entrare illegalmente negli Stati Uniti. Ha fallito nella gestione del Covid, che ha colpito in modo particolare la comunità ispanica. Infine, il presidente ha alimentato le tensioni razziali dopo l’omicidio di George Floyd, che ha riacceso i riflettori sulla violenza della polizia nei confronti delle minoranze etniche.

Ciononostante, almeno un quarto dell’elettorato latino sarebbe pronto a votare per lui. Forse anche un terzo. Scenario questo, che, soprattutto in alcuni stati chiave, basterebbe a Trump per mettersi la rielezione in tasca. 

La colpa è anche della campagna di Joe Biden, che non è riuscita a coinvolgere adeguatamente questa parte di elettorato. Non si può dire che il candidato democratico non ci abbia provato. Ha fatto promesse importanti. S’è impegnato a fare una cosa che milioni di immigrati latinos attendono da anni:

Il primo giorno della mia presidenza, invierò al Congresso una progetto di legge contenente un percorso chiaro per concedere la cittadinanza ai Dreamers (gli immigrati irregolari arrivati negli Stati Uniti da bambini, portati dai propri genitori, ndr) e a undici milioni di persone residenti illegalmente in America, che già da tempo contribuiscono a rendere forte la nostra nazione. È un qualcosa che dovevamo da tempo a queste persone.

In altre parole, Biden s’impegna a riuscire là dove Obama ha fallito, a dar vita a una riforma complessiva del sistema che regola immigrazione e accoglienza. E a fermare la costruzione del muro fortemente voluto da Trump. Una mossa fondamentale, quasi obbligata, per conquistare la fiducia della comunità ispanica. Fiducia tutt’altro che scontata, se si tiene conto che l’amministrazione Obama – nella quale l’ex vicepresidente ha svolto un ruolo centrale – è accusata dai latinos di essersi resa responsabile di tre milioni di deportazioni. 

Fu un errore,

ha riconosciuto il candidato democratico durante la campagna elettorale. 

Negli ultimi tempi, Biden ha intensificato gli sforzi, cominciando ad avvalersi di collaboratori provenienti dalla comunità ispanica, a fare pubblicità in spagnolo e a organizzare eventi che vedono la partecipazione di importanti “influencer” latinos, come Dulce Candy o Cardi B. 

Secondo alcuni strateghi Dem, però, è troppo poco e troppo tardi:

In Florida e con la comunità ispanica i democratici cominciano a investire sempre all’ultimo minuto. Per qualche ragione inspiegabile, facciamo sempre lo stesso errore.

Durante le primarie, Alexandria Ocasio-Cortez ha risollevato la campagna di Bernie Sanders dopo che questo ha avuto un malore nell’ottobre 2019

Inevitabile è il paragone con l’ottima performance di Bernie Sanders, durante le primarie democratiche. Allora, il senatore del Vermont, affiancato dal talento politico più brillante della comunità ispanica, Alexandria Ocasio Cortez, era riuscito a portare i latinos a bordo della sua rivoluzione. Si faceva chiamare “Tío Bernie”, zio Bernie, in uno sforzo comunicativo efficace, autentico, capace di parlare anche alle nuove generazioni.

A ormai solo cinquanta giorni dal voto, è forse, probabilmente, troppo tardi, per coniare un “Tío Joe”. Ma si è sempre in tempo per augurargli, “buona suerte”. Per sconfiggere il “caudillo” Donald, ne avrà bisogno.

Se Joe ha un problema coi latinos ultima modifica: 2020-09-12T11:21:15+02:00 da MATTEO ANGELI
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