La generazione del deserto. Storie di famiglia, di giusti e di infami durante le persecuzioni razziali in Italia è il titolo del recente volume (Manni editore per la collana Pretesti) scritto da Lia Tagliacozzo: tutto è già nelle parole dell’autrice, di famiglia ebraica romano-fiorentina, rappresentante oggi consapevole di quella “generazione del deserto” che si collega all’epopea del popolo di Israele prima di raggiungere la Terra Promessa e anche – e soprattutto – alla condizione dei figli e nipoti dei martiri della Shoah. Figli e nipoti che solo da poco trovano la forza di parlare di quegli anni tremendi che, dalla promulgazione delle leggi razziali nel settembre 1938 fino alla fine della seconda guerra mondiale, hanno marcato le indicibili sofferenze di milioni di ebrei in Italia e nel mondo.
Lia Tagliacozzo è romana, nata negli anni Sessanta, non lontani temporalmente dalla Shoah ma psicologicamente distanti anni luce da quei periodi terribili.
Lo spunto del lungo racconto che riguarda la storia complicata delle sue famiglie materna e paterna nasce da un senso di rabbia e, come molte cose nate d’impeto, nasce e cresce bene. La “colpa” è di alcuni giovani scrittori ebrei di nuova generazione che presentano i loro scritti compiacendosi dell’“eredità pesante” ma in realtà, secondo Tagliacozzo, accodandosi come “gli ebrei d’Italia” che da decenni stanno zitti, tutti gli ebrei che sopravvissuti all’olocausto hanno dovuto ricominciare a vivere in un paese lacerato e distrutto, orfani, ricostruendo famiglie e lavoro, piangendo i morti senza una tomba, con la paura di manifestarsi dopo le persecuzioni. Lia Tagliacozzo si rende conto di appartenere a questa generazione di figli degli orfani che per decenni hanno taciuto, per timore, per pudore, per rimuovere tragedie, per non far ricadere sui figli le tremende prove patite in tenerissima età da loro stessi e dalle loro famiglie.
Raccontare quel che non si è mai osato raccontare, scavare nei ricordi recalcitranti degli anziani sopravvissuti, un passaggio nel Mar Rosso che si spalanca e fa scorrere pagine e pagine di memorie: memorie strappate a spizzichi e bocconi da chi ha vissuto le leggi razziali del 1938, la razzia del Ghetto di Roma del 16 ottobre del 1943, uno shabbat piovoso durante il quale i nazisti catturarono tra Portico di Ottavia e Lungotevere oltre mille ebrei dei quali solo sedici tornarono vivi, da Auschwiz e dintorni.
Anni di pesanti silenzi, per non “avvicinare all’orrore” le nuove generazioni, con gli ultimi testimoni di deportazioni, denunce, arresti, espropri, fughe precipitose, rifugi di fortuna e ospitalità segrete, una serie di avvenimenti comuni alle migliaia di ebrei italiani che vissero quegli anni.

Ed ecco, nella generazione dei figli degli scampati scatta la voglia di sapere: cosa facevano i nonni e i bisnonni, gli zii e le zie, come vivevano quei proclami assurdi e crudeli, quelle ingiustificate prepotenze, quei traumatici arresti, quelle drammatiche deportazioni? Sapevano? Giornate normali di vita quotidiana senza però più scuola e lavoro; gli israeliti della famiglia di Lia, a Roma e a Firenze, nelle case che ancora oggi sono abitate dalle nuove generazioni, sapevano di questo “avvicinarsi dell’orrore”? Sapevano del Ghetto di Varsavia, dei vagoni blindati, delle spiate, sapevano e non capirono? Quei fortunati che capirono e riuscirono a fuggire come vissero l’esilio?
Tante, troppe domande alle quali Tagliacozzo vuole dare una risposta per elaborare quei traumi vissuti da nonni e genitori, e mai venuti a galla, nascosti nel fondo di una memoria dolorosa. Ma sempre una traccia rimane, un esile filo necessario per chi resta, ed è il caso della composita famiglia romana e fiorentina.
In ogni casa c’è un luogo più o meno inaccessibile ai bambini, ed è intrufolandosi nei cassetti di un “mobile proibito” che inizia da parte dell’autrice un’indagine all’indietro nel tempo che dura ancora oggi. Una raccolta di testimonianze incalzanti, commoventi, tremende, per rompere la “congiura del silenzio” che ha caratterizzato per troppo tempo la vita delle comunità ebraiche e che si riallaccia al presente: quei profughi che fuggivano con pochi averi allora, cosa hanno di diverso da quelli che arrivano oggi stremati fuggendo da guerre e miserie? Qual è la differenza tra i sentimenti di supremazia della razza ariana e i moderni sovranismi esasperati? Le organizzazioni umanitarie del tempo di guerra (dalla Croce Rossa ai conventi cattolici, dalle comunità valdesi ed evangeliche ai singoli “giusti” che nascondevano gli israeliti) non avevano forse lo stesso spirito di carità delle odierne schiere di volontari e Ong che faticosamente aiutano i profughi?

La storia incalzante delle persecuzioni e delle deportazioni è scandita da date, ricordi, testimonianze balzate fuori da cassetti e bauli del “disordine delle nostre case”, diari e piccoli quaderni di annotazioni tenerissime e commoventi, foto, itinerari di viaggi nei vagoni blindati di nonni e zii mai conosciuti, speranze di chi pensava di evitare “la tempesta” mimetizzandosi e continuando a vivere da bravo cittadino. E il bisogno di cibo, la ricerca di cibo, la mancanza di cibo.
E poi i “giusti”, amici e conoscenti non correligionari che misteriosamente facevano pervenire alle famiglie scarne notizie dei prigionieri, e gli “infami”, le spie e i traditori che per cinquemila lire (gli uomini come nonno Arnaldo valevano tale cifra, le donne e i bambini la metà) denunciavano e facevano arrestare gli ebrei. Come quel “piccolo maledetto infame” del quale si sa il nome ma non si dice, colui che fece catturare con l’inganno Arnaldo Tagliacozzo.
Scoprire il passato è “incidere sul futuro” delle nuove generazioni: il silenzio non aiuta certamente. La storia è fatta di queste memorie, anche se non sempre le memorie dolorose servono a non ripetere gli stessi errori.
Aprire quel “mobile proibito” che sta dentro ognuno di noi porta a una consapevolezza grande, a una liberazione continua: come gli ebrei nel deserto cercarono per quarant’anni la Terra Promessa, solamente il recupero di memorie anche dolorosissime da parte della “generazione del deserto” fa sì che si aprano tutti gli sportelli degli armadi segreti.
“Non so, non ricordo” sono state parole dette troppo a lungo da troppi dei sopravvissuti all’Olocausto: nonno Arnaldo portato ad Auschwitz a trentasette anni, padre di tre bambini, scomparso poco più di un mese prima della liberazione del campo da parte dell’Armata Rossa, in data 27 gennaio 1944; la figlia di Arnaldo, la bambina Ada inghiottita da una retata e cancellata dalla vita.
Di eredità in eredità, di memoria in memoria, si forma e si concretizza la storia degli esseri umani. Di tutti gli esseri umani. I nonni e le nonne di Lia, le zie e gli zii, gli amici, i conoscenti, ogni onda della storia ne cavalca un’altra formando un mare immenso: ed eccoci qua, in mezzo a questo mare, a fare i conti con un passato che è di tutti, ebrei e non ebrei, ed è per questo che è importante raccontare, lasciare testimonianze, tracce, impronte.

Tracce di Roma e del Lazio, tracce di Firenze e delle sue meravigliose campagne, tracce della Svizzera che salva i fuggitivi, tracce dell’Abruzzo luogo di antichissima origine della famiglia dell’autrice. E tracce di quella ferrovia maledetta che passava da Fossoli e da Padova prima di prendere la via del Nord senza ritorno, seguendo una logica inesorabile e crudele.
Una sintesi finale ripercorre storia e memoria, parole universali come figli, Mosè, narrare, momento giusto, eredità, intrecci, lacrime e domande, differenze e paradossi, le date del calendario civile… E la linea del tempo, quella fondamentale linea lunga millenni e densissima in questi ultimi secoli, una linea che si forma ogni giorno e che noi viviamo e costruiamo, con tutto quello di bello e di brutto che la vita ci riserva.


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