Stephen King, davvero – e non solo – il re dell’horror

Inizialmente ignorato dalla critica dell’intellighentzia “spocchiosa”, lo scrittore statunitense è un maestro nel raccontarci di mostri, alieni e poteri soprannaturali. Ma evocando le proprie e le altrui paure, pone i lettori dinanzi a uno specchio che solo in parte ne deforma i lineamenti, in realtà restituendone fedelmente “la metà oscura”.
ROBERTO PUGLIESE
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Citarsi addosso, per… citare Woody Allen, non è mai elegante ma qualche volta necessario. Correva l’anno 1985, per la precisione luglio, quando grazie allo sguardo lungo e alla fiduciosa temerarietà di Roberto Ellero, direttore del Circuito Cinema comunale veneziano e dell’annessa collana editoriale dei Quaderni (strumenti di approfondimento ancor oggi preziosi), chi qui scrive poté darne alle stampe il n.27 dedicato non a un regista, o a un attore, o a un genere, o a un mestiere del cinema, bensì ad uno scrittore: Stephen King.

Alla base presiedeva una duplice convinzione. Innanzitutto, che King fosse uno dei più grandi narratori americani contemporanei, senza se e senza ma e soprattutto senza etichette. Inoltre, che già trentacinque anni fa la filmografia ricavata dai suoi romanzi e racconti stesse assumendo un profilo di tutto rilievo, non solo grazie a titoli chiaramente autoriali come Carrie di De Palma o Shining di Kubrick o La zona morta di Cronenberg o Christine di Carpenter, ma in virtù della naturale, quasi spontanea “sceneggiabilità” delle sue storie, che parevano concepite apposta per attirare tanto la traslazione su grande schermo quanto la nascente e capillare serialità televisiva. E si era appena agli inizi.

Christopher Walken in una scena de La zona morta (The Dead Zone), film del 1983 diretto da David Cronenberg e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King.

Tuttavia, o forse proprio per questo, la figura e l’opera di Stephen King erano, al tempo, altezzosamente liquidate dalla critica “alta” come “letteratura ferroviaria” (chissà che male c’è, poi, a leggere in treno…), storie ad effetto e truculente buone per lettori dai gusti facili. Succede, quando vendi mezzo miliardo di copie in tutto il mondo, sei tradotto in tutte le lingue del pianeta e ti ritrovi a passare da spiantato alcolista che vive in roulotte a uno degli uomini più ricchi d’America. Con qualche significativa eccezione (ad esempio l’anglista e docente veneziana Rosella Mamoli Zorzi, che ne percepì subito il valore letterario), Stephen King non godeva dunque affatto di buona stampa né di credito intellettuale in quegli anni Ottanta. Annoteremo per inciso che è anche grazie a questo atteggiamento spocchioso e miope di molta “intellighentzia” se poi nascono, per reazione opposta, i populismi cialtroni e semplificatori che disprezzano – considerandola un inutile impiccio di quei seccatori della sinistra – la cultura in toto e lavorano alacremente per l’abbrutimento collettivo…

Quel lontano, sottile ma denso quadernino n.27 (coincidenza: basterebbe un 3 intermedio e saremmo nella stanza 237 di Shining…) nasceva dunque nella convinzione che fosse in atto nei confronti di King una gigantesca sottovalutazione di stampo elitario, la stessa che si abbatte spesso su tutto ciò che pur veicolando contenuti tutt’altro che banali è largamente condiviso, popolare e financo divertente. Come se coniugare intrattenimento e spessore, successo e profondità non fosse non solo possibile ma doveroso: come se il lasciapassare, l’autorizzazione per trattare di temi severi e importanti fossero rappresentati solo dalla noia; come se ad un genere letterario, l’horror, fosse in partenza preclusa la possibilità di ambire ai “piani alti” del pensiero complesso, alla faccia di Mary Shelley, Poe, Bram Stoker e Lovecraft.

Eppure le tematiche della produzione di King, inserite negli scenari del fantastico e dell’orrorifico, arricchite da una prosa superlativa e visionaria, costruite su una sintassi pirotecnica e su intelaiature narrative continuamente mutevoli, sembravano offrirsi privilegiatamente a una serie di riflessioni su elementi della società contemporanea americana, allora come ora. La condizione dell’infanzia, spesso toccata da “poteri” e facoltà straordinarie; la critica alla famiglia-tipo americana, non di rado ricettacolo di veri, concretissimi “mostri”; il ruolo oppressivo, totalitario e spersonalizzante delle istituzioni (politica, scienza, medicina). Per non citarne che alcuni.

Poi, dagli anni Novanta, qualcosa si è mosso e ci si è accorti che Stephen King è qualcosa di più di un “best-seller-man”, di una mastodontica macchina editoriale che sforna annualmente un romanzo dalle dimensioni di un vocabolario (non tutti, va detto subito, del medesimo valore, specie tra quelli più recenti) piazzandosi come epicentro del culto di decine di milioni di fan sparsi ovunque. Ci si è accorti, in altre parole, che osservando la mutazione genetica della società statunitense negli ultimi anni, ben prima della scellerata era Trump (personaggio cui King non risparmia strali nelle sue ultime opere), si potevano scorgere nei suoi romanzi, oltre a riflessioni acute sulla difficoltà di elaborare i lutti (Pet Sematary, Mucchio d’ossa) o sulla barbarie della pena capitale (Il miglio verde), anche profezie allarmanti sui pericoli dell’autoritarismo e dei “poteri forti” (La zona morta, L’incendiaria, The Dome), sulla crudeltà delle istituzioni “totali” (Le ali della libertà, L’istituto), sul disprezzo per la sofferenza e per il dolore altrui, soprattutto dopo il tremendo quanto banale incidente che nel ’99 ridusse lo scrittore in fin di vita (Doctor Sleep), sullo strapotere distruttivo dei media (L’uomo in fuga, profetico apologo sulla tv dei reality, pubblicato nel remoto 1982 con lo pseudonimo, più volte usato, di Richard Bachman), sulla necessità di esorcizzare i nostri fantasmi interiori (il colossale It) e persino sugli effetti devastanti – medici, morali e sociali – di una letale pandemia (L’ombra dello scorpione, anno di grazia 1983!): il tutto senza omettere riflessioni retrospettive sulla storia recente e meno recente, sempre rielaborate fantasticamente, fra le tonalità del romanzo di spionaggio e del melò, in una grande metafora sull’eterno tema del viaggio nel tempo, come in 22/11/63, la data dell’assassinio di Kennedy, che di tutta la sua produzione più recente è senz’altro il capolavoro. 

In due parole: King nel raccontarci di mostri, alieni, poteri soprannaturali, stragi, fantasmi e catastrofi, parla di America, non quella delle grandi metropolita ma quella rurale, provinciale e periferica del suo Maine. E parla anche di noi. Interpella se stesso e chi gli sta dinanzi, evoca le proprie e altrui paure, interroga i suoi lettori (spesso direttamente nelle sue prefazioni), ponendoli dinanzi ad uno specchio che solo in parte ne deforma i lineamenti, in realtà restituendone fedelmente “la metà oscura”, titolo di un suo romanzo-chiave intorno al mestiere di scrivere e alla figura dello scrittore come fucina di ambiguità e di rischi, non a caso ricorrente nella sua narrativa in parte anche autobiografica: si pensi solo a Misery o allo stesso Shining… Insomma, Stephen King potrebbe persino essere un autore “politico”.

Ebbene, come si sono comportati i media audiovisivi (cinema e tv) nei confronti del grande catalogo kinghiano, entusiasticamente saccheggiato in lungo e in largo, quasi (ma non) sempre con la complice collaborazione dell’autore?

Una scena di Shining, film del 1980 diretto da Stanley Kubrick e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Lo scrittore definì la pellicola “fredda e distaccata”, diametralmente opposta al romanzo.

Fare il punto nell’85 era relativamente facile: ci si arrestava a L’occhio del gatto di Lewis Teague, basato su due racconti tratti dall’antologia A volte ritornano (felicissimo titolo italiano da tempo entrato nel gergo comune a indicare la ricomparsa di qualcosa di poco gradito), e Unico indizio la luna piena di Dan Attias, dal romanzo breve omonimo. Forse però (ed ecco la motivazione più forte di quel quaderno n.27…) non è casuale che in quei pochi anni trascorsi dall’apparizione del primo romanzo, Carrie, si sia concentrata su King l’attenzione di alcuni autori a tutto tondo, come difficilmente sarebbe accaduto nei decenni a venire. Abbiamo già ricordato Kubrick, De Palma, Cronenberg, Carpenter, cui dovremmo aggiungere il Romero de La metà oscura.

Ma negli anni e nei decenni successivi la video-filmografia di Stephen King si è esponenzialmente ingrossata, tallonandone da vicino l’implacabile prolificità editoriale, sino a formare un’onda di piena che non sembra arrestarsi e che giunge momentaneamente sino ai due It di Andy Muschietti (2017 e 2019) e alla miniserie The Outsider (2020) dal romanzo omonimo. Parallelamente, anche la saggistica italiana intorno allo scrittore è andata crescendo, pur se rimanendo spesso confinata nei limiti dell’apologia indiscriminata da fan accaniti (vanno però ricordate almeno le puntuali analisi, mirate proprio sul rapporto tra narrativa e cinema kinghiani, di Danilo Arona e Massimo Moscati).

Ed ecco che ora – troppa grazia – ben due libri escono contemporaneamente nel tentativo di fare il momentaneo punto sul fertile connubio tra King, cinema e televisione. 

Una scena di It diretto da Andy Muschietti e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King (1986). Si tratta del secondo adattamento del romanzo dopo la miniserie del 1990.

Il primo, Stephen King dal libro allo schermo (Minimum Fax) è un fitto ma agile volume a più voci curato dallo specialista Giacomo Calzoni che affronta il tema delle trasposizioni da più angolazioni, suddividendolo per argomenti, periodi, alterne vicende produttive e varie gradazioni di accoglienza. Le varie firme che si susseguono (oltre al curatore, Pier Maria Bocchi, Daniele Dottorini, Marco Lazzarotto Muratori, Davide Di Giorgio, Andrea Pirruccio e Matteo Berardini) cercano – non sempre riuscendovi – di evitare l’atteggiamento devozionale da discepoli e affrontano la vastissima materia sotto un profilo documentale e storicistico, entrando nel merito delle differenze – spesso clamorose, si pensi al finale del recente remake di Pet Sematary (2019, Kevin Kölsch e Dennis Widmyer) – fra pagina scritta e traduzione su schermo. Una disamina la cui conclusione è tuttavia già parzialmente contenuta nella quarta di copertina laddove si afferma, perentoriamente e un po’ arditamente, che “la pagina kinghiana è incedibile, inavvicinabile, sovranista” (!), e che pertanto “il cinema, da par suo, è costretto a stare a guardare”.

Tradotto, significa, che ben pochi dei titoli che compongono la sterminata filmo-videografia kinghiana vengono riconosciuti “degni” di stare al cospetto degli originali (valga per tutti la sbrigativa stroncatura di Pirruccio per i due It di Muschietti), in ciò condividendo, con surplus e dovizia di argomentazioni, l’atteggiamento di King medesimo, scisso fra la legittima soddisfazione (non da ultimo economica) di essere oggi probabilmente lo scrittore più “filmato” al mondo e la consapevolezza che, malgrado il proprio frequente coinvolgimento in sede di script, cinema e televisione conoscono ragioni che la letteratura non conosce, e quindi il divario è spesso inevitabile, quando non addirittura auspicabile. 

Sarà per questo che a tutt’oggi il settantaduenne scrittore continua a ritenere Stand by me (1986, Rob Reiner) il miglior film tratto da una propria opera, quindi non certo un prodotto “d’autore” così come lo si intende in Europa; mentre permane invece l’interdetto contro Shining di Stanley Kubrick, accusato lapidariamente di “tradimento”, come ricostruisce accuratamente Daniele Dottorini nel capitolo dedicato; laddove la mancata intesa tra i due S. K. è comunque da addebitarsi all’attitudine iperlaica, quasi anarchica che Kubrick ha sempre tenuto nei confronti di tutte le fonti letterarie dei suoi film (da Nabokov a Thackeray, da Clarke a Schnitzler), per lui nient’altro che canovacci da utilizzare come pista di decollo della propria visione filmica. Ma, come si dice, due galli in un pollaio sono troppi, ed ecco che a King viene più facile preferire al capolavoro kubrickiano l’inconsistente remake televisivo della miniserie girata nel 1997 da Mick Garris (con Mike Flanagan, uno dei registi più assidui nelle trasposizioni kinghiane).

Molto più sontuoso nelle dimensioni e nella confezione è Stephen King sul grande e piccolo schermo (Rizzoli) di Ian Nathan, saggista e filmologo britannico, che suddivide la materia per temi (“Cineasti e giochi mentali”, “Mostri e bambini”, ecc.) e costruisce una filmografia cronologica e ragionata, che corre lungo i 65 lungometraggi e le 30 riduzioni televisive (numeri provvisori, come vedremo…), arricchita da un notevole apparato iconografico e brulicante di aneddoti: attori e/o registi cambiati in corsa, il sempre inseguito e mai raggiunto connubio con l’altro Steven, Spielberg, le inutili scaramanzie adottate da King sul set della sua unica (catastrofica) regia con Brivido! (1986), e così via. 

L’architettura apparentemente più brillante e d’evasione del libro di Nathan punta con ogni evidenza più a fornire informazioni e impressioni che a emettere giudizi: garantendo le seconde con un’accurata scelta delle illustrazioni e le prime con una nutrita messe di critiche, interviste, backstage e dettagli biografici. La cui attenta lettura porta ad una (provvisoria anch’essa), possibile conclusione: al netto di alcuni apici autoriali (appunto Kubrick, Cronenberg ecc.), forse è proprio la serialità televisiva, disponendo di una tempistica diversa, ad essere meglio riuscita a penetrare nel complicato universo di Stephen King. Si pensi alla miniserie del 2016 22/11/63, dall’omonimo, imponente e splendido romanzo del 2011, con James Franco nel ruolo di un uomo qualunque che viaggiando nel tempo tenta di impedire l’assassinio di Kennedy accorgendosi tuttavia che così facendo modificherebbe il suo presente (cioè il futuro) in una direzione infernale e – soprattutto – sarebbe destinato a perdere l’oggetto del proprio amore. Un soggetto che aveva inizialmente attirato il regista oggi più sperimentale e intrigante di Hollywood, Robert Zemeckis, che vi aveva intravisto la possibilità di sviluppare la propria riflessione, tutta umanistica, su Arbitrio e Destino, Caso e Necessità, già ludicamente ma acutamente esperita nella saga di Ritorno al futuro

Oppure si pensi a Under the Dome, dal romanzo The Dome del 2009, in cui lo scrittore esegue una vera e propria autopsia sociologica sugli abitanti di una minuscola cittadina (epitome dell’universo kinghiano) rimasti intrappolati dalla repentina e misteriosa apparizione di un’enorme e invalicabile cupola, e dove si fa largo l’eterna tentazione dell’uomo solo al comando.

Non sono che due esempi all’interno, come si diceva, di una materia che appare sconfinata e oltretutto destinata a dilatarsi, sempre con una predilezione per quel piccolo schermo ormai divenuto tutt’uno con il fratello maggiore. Ad esempio L’ombra dello scorpione (The Stand), il fluviale romanzo post-apocalittico sullo sfondo di un’America sterminata da un misterioso virus (!), già portato alla tv da Mick Garris nel 1994 e adocchiato anche dal regista George “Zombi” Romero per un progetto poi naufragato, tornerà a breve in una serie della CBS diretta da Josh Boone e alla cui sceneggiatura metterà mano lo stesso King. Così come farà per un’altra miniserie, La storia di Lisey, dall’omonimo romanzo del 2006, uno dei molti costruiti intorno a quel mestiere di scrivere cui King aveva anche dedicato nel 2000 il saggio autobiografico On writing: la particolarità qui sta nella firma del regista, il rigoroso e spiazzante cileno Pablo Larraín (Tony Manero, Jackie).

Ma è la fonte a rivelarsi inesauribile, con buona pace di quella minaccia di appendere la penna (o il computer) al chiodo che King aveva profferito dopo l’incidente del ’99 a fronte della non buona accoglienza, soprattutto critica, di alcune sue opere successive ed effettivamente in alcuni casi (si pensi alla trilogia inaugurata nel 2014 da Mr. Mercedes) rivelatrici di una certa ripetitiva stanchezza, peraltro riscattata da gioielli come Sleeping beauties (2016, scritto insieme al figlio Owen, mentre l’adorata moglie Tabitha continua a percorrere un’autonoma carriera di romanziera e fotografa) o Elevation (2018): infatti è già annunciato per il prossimo anno Later, romanzo di “sole” 256 pagine con al centro l’ultimogenito dei numerosissimi bambini kinghiani dotati di poteri che ne fanno contemporaneamente dei privilegiati e dei bersagli.

Quando si dice work in progress…

Whoopi Goldberg in una scena della nuova serie L’ombra dello scorpione, in uscita a dicembre e tratta dall’omonimo romanzo di Stephen King (The Stand)
Stephen King, davvero – e non solo – il re dell’horror ultima modifica: 2020-09-20T19:30:50+02:00 da ROBERTO PUGLIESE
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