RR e il suo inverno felice in cui si scaldò all’ultima grande epoca del pensare

FRANCO MIRACCO
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Perché ho avuto l’ardire di provarmi a scrivere di Rossana Rossanda dopo la sua morte? Una presunzione solo in parte giustificata dall’essermi portato appresso, casa dopo casa, un mucchio di vecchi numeri del manifesto. Ma di quel manifesto reso estremamente prezioso perché vi scrivevano Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Valentino Parlato, e con loro un numero rilevante di giornalisti e collaboratori spesso capaci di cogliere e analizzare “punti focali” di temi e questioni determinanti in quegli anni (il secolo scorso), o almeno ritenuti tali da noi e da molti altri in viaggio su quelle pagine. Ed è in quel mucchio di giornali ingialliti che ho pescato un fiore perpetuo, un saggio da cui sporge un’erudizione filosofica ed estetica inimmaginabile e che diviene, leggendo, l’incantesimo che non ti aspetti. La prima pagina del supplemento la Talpa del manifesto di giovedì 12 gennaio 1984 sorprende per l’emozione di scoprire Rossana Rossanda da ragazza:

Ho ancora diciassette anni, in quell’inverno, e la guerra ha un rombo attutito nella sala del tesoro che si apre in fondo al cortile della Rocchetta, quadrato dalle grandi ogive aperte sul parco, che raccoglierà, ancora per poco, il fondo Luca Beltrami. Non ricordo che ci fosse nessuno, fuorché il bibliotecario e io, risento l’acuto odore di cera, rivedo gli scranni in penombra, con la poca luce che fa circolo attorno ai libri aperti.

La ragazza con davanti molti libri aperti si trovava nella Biblioteca d’Arte del Castello Sforzesco, nell’inverno milanese del 1942, per studiarvi

trattati d’arte… cominciando a rovescio un itinerario universitario, quella sarebbe stata la tesi, ma prima avrei studiato filosofia.

Gli autori di quei libri? Alcuni tra i più grandi filosofi e storici dell’arte europei tra Otto e Novecento: Cassirer, Panofsky, Wölfflin, Riegl, Fiedler, Dvorak, con “in fondo il fidato e noioso Schlosser”. Autori e opere quasi del tutto sconosciuti e tantomeno studiati, anche perché non pubblicati, nell’Italia degli anni Trenta e Quaranta. Opere e autori che se volevi studiare, per farlo, dovevi conoscere il tedesco che, evidentemente, la ragazza del ’42 conosceva “non senza l’aiuto d’un dizionario”, essendo attratta dai nomi e dai libri “della favolosa Warburg Biblioteca e Istituto, della quale miracolosamente trovavo” lezioni e altri scritti. In realtà, il vero miracolo era rappresentato dalla giovanissima Rossanda, così precocemente immersa in studi che sarebbero circolati nelle facoltà italiane di storia dell’arte solo venti o trent’anni dopo.

Ma perché quell’eterna comunista, pur restando tale, non divenne una storica dell’arte? Se l’avesse fatto avremmo conosciuto una tra le maggiori storiche dell’arte europee.

Aby Moritz Warburg

Sentite cosa dice in quella sua memoria del 1984 sollecitata dalla pubblicazione di Aby Warburg. Una biografia intellettuale scritta dal suo grande allievo, Ernst Gombrich:

Il giro dei Warburg significava spezzare tutti gli itinerari culturali tradizionali, riscoprire il “campo”, ogni volta autonomo, ogni volta collegato da fili infiniti al passato, delle culture e degli stili, il continuum e le spezzature del passato, la storia dell’arte come storia della cultura, e più oltre il dilemma fra l’estetico come pacificazione e le forme del conoscere storico-critico, che era poi il dilemma fra ragione e irrazionale, staticità e pathos, l’apollineo e il dionisiaco di quel Nietzsche che i tedeschi mi impedivano di amare.

Alla studentessa in solitudine, resasi libera già allora con lo stare china su quelle “pagine aperte sull’essenziale, quel che tale mi pareva, e in un certo senso lo fu, perché mi strutturò la testa una volta per sempre”, interessava conoscere, studiare, le cose dei Warburg perché stando con quelli “significava spezzare tutti gli itinerari culturali tradizionali”.

Insomma, in quel giro la storia dell’arte veniva vissuta, seguita, osservata e naturalmente studiata come se si trattasse dello scorrere in libertà di un fiume dove, nel corso del tempo, avvengono vortici, mulinelli effimeri, piene anche devastanti, ondate in contraddizione tra loro, formazioni di isole affascinanti, secche, punti di non ritorno, soste inutili, riprese e accelerazioni verso mari e orizzonti nuovi, cioè sconosciuti.

Il Warburg Institute a Londra

Dunque, che idea si era fatta della Biblioteca di Warburg Rossana Rossanda da giovane?

Non per cataloghi né per discipline, ma per rinvii da un libro a un altro, come sono suggeriti dalla ricerca, quando una tavola o una predella ti rimanda all’alchimia o alle matematiche, l’iconografia alla storia delle idee, uno stile alla storia, una storia alla predella da cui eri partito.

Chissà se Rossanda seppe mai di un Walter Benjamin che inutilmente ambì a far parte del giro di Warburg? Se ne venne a conoscenza, come può darsi, di certo non dovrebbe aver letto nel 1942 quanto scritto dall’indispensabile berlinese nel 1932 su Wölfflin, Riegl e altri warburguriani:

L’insignificante di cui si occupano non è sfumatura di nuovi stimoli e nemmeno un contrassegno come quello con cui in passato si determinavano le forme delle colonne nello stesso modo in cui Linneo aveva determinato le piante, ma è l’inappariscente che sopravvive nelle opere ed è il punto in cui il contenuto viene in luce per un ricercatore autentico.

E non era forse “l’inappariscente che sopravvive nelle opere” ciò che aveva capito di dover cercare quella ragazza nello studiare i libri del circolo di Warburg? Basta rileggere più sopra quel suo pensiero

non per cataloghi né per discipline, ma per rinvii da un libro a un altro, come sono suggeriti dalla ricerca, quando una tavola o una predella ti rimanda all’alchimia o alle matematiche.

Quanta vicinanza nel nome di Warburg tra la nostra giovane, autentica, ricercatrice e Walter Benjamin, filosofo e critico e scrittore morto tragicamente nel 1940. Se studiando Riegl Rossanda comprende il perchè della “fine della misura classica e l’illusione del suo ritrovamento rinascimentale”, Benjamin è con L’arte tardoromana di Riegl che si accorge di come in quel capolavoro “si muovano già quelle forze sotterranee che un decennio più tardi verranno alla luce nell’espressionismo”. L’espressionismo? Ovvero una tra le più rivoluzionarie avanguardie storiche del primo Novecento?

Sì, perchè secondo Benjamin:

Si tratta di quell’interpretazione approfondita della singola opera d’arte che, senza mai abdicare a se stessa, incontra le leggi e i problemi dello sviluppo dell’arte nel suo complesso. Questo orientamento della ricerca ha tutto da guadagnare dalla cognizione che quanto più le opere sono decisive, tanto più il significato che contengono è inappariscente e interno, legato alla cosa.

Ed è forse lontana dai pensieri di Benjamin la “memoria” di Rossanda quando recensisce il libro di Gombrich su Aby Warburg? Certamente no:

Liberata da Croce come da Winckelmann e Lessing… sprofondavo in quelle distanze piene di richiami, fra ombra e ombra: ma l’ombra non è, aveva scritto Warburg a proposito di Leonardo, il colore del silenzio? La memoria non è materia organizzata? La storia si dispiegava come un arazzo, del quale il quadro o l’oggetto d’arte, maggiore o minore, cessava di essere l’isolato in sé del crocianesimo per diventare un significante e il simbolo non era l’emblema ma un altro modo di significarsi.

da il manifesto

Quella storia che per Rossanda si dispiega come un arazzo in cui al quadro può essere ridato il suo significato, quanto è prossima a quella “singola opera d’arte”, la cosa, che, collocata tra “le leggi e i problemi dello sviluppo artistico”(l’arazzo di cui sopra ), rivela a Benjamin il suo significato non appena si scopre che ciò che può apparirci come inappariscente e interno, proprio quello è profondamente legato alla cosa e, appunto, al suo significato. Sospinta da quelle indimenticabili suggestioni, la scrittura di Rossanda si fa particolarmente affascinante nella memoria con cui inghirlanda Gombrich e che a sua volta inghirlanda Warburg, per lei una figura da non lasciare agli specialisti.

Rossanda:

Ci si poteva perdere, un po’ inebriati da quel che non si sapeva e si intuiva, nel gioco dei rimandi che spaccava tutte le antiche frontiere. Furono mesi di felicità intellettuale – giacché anche questa esiste – sottolineata da qualche superbia segreta. La sera potevo lasciare tutti quei libri sullo scranno, dal manuale di geometria proiettiva al finalmente ripescato Wölfflin, e l’indomani li avrei trovati, legati dal filo che io sola sapevo, una trama ritrovata (non ha scritto Ginzburg che la ricerca sul passato è simile a una detective-story?).

E se per la giovanissima Rossanda contava molto “il gioco dei rimandi che spaccava tutte le frontiere”, per Benjamin la nuova ricerca

ha la più severa pietra di paragone nel fatto di sentirsi a casa propria nei territori di confine.

In sintesi, c’è chi, inebriata dai propri vagabondaggi di ricerca, ha capito di dover infrangere ogni frontiera e c’e chi si ritrova avvicinandosi ai territori di confine. Ma quei libri sullo scranno… “e l’indomani li avrei trovati, legati dal filo che io sola sapevo”, sento che appartengono a una sensibilità dello scrivere e del vivere che sarebbe piaciuta e non poco a Virginia Woolf. Forse sono entrato in una mia stravaganza, eppure in questa Woolf mi sembra ci sia anche Rossanda:

La mente riceve una miriade di impressioni – futili, fantastiche, evanescenti, o scolpite con una punta d’acciaio. Esse ci giungono da ogni parte, in uno scroscio incessante di innumerevoli atomi; e mentre ricadono, mentre prendono forma nella vita di un qualsiasi lunedì o martedì, acquistano un accento diverso dal solito.

È un abbaglio, il mio? Non so, ma se leggiamo alcune frasi di Rossanda sulla biografia di Aby Warburg non avverto alcuna “distanza” tra le due scrittrici. Rossanda, nel suo rivolgersi a Warburg visto da Gombrich:

Le pagine sulle stelle come riscritte da Gombrich sono perfette di lucidità e di malinconia: per capire l’indecifrabile firmamento tracciamo una linea da stella a stella e ne facciamo una figura, che gira nell’arco della notte e in cicli più lunghi, diventati leggibili, di tempi – e finiamo col credere che quei seni, che ci aiutano a capire antropomorficamente il cielo, siano nel cielo- e anzi dal cielo ci determinino. E questo bisogno è così profondo che nessun dato di scienza, come quello che ci assicura dello spostarsi secolare nel calendario dei segni zodiacali, ci libererà dalla superstizione. Perchè è un bisogno, un aggancio; duro è vivere senza segni.

E dunque? Ancora un poco di Virginia Woolf, ripeto, mai distante da quella Rossana Rossanda:

La vita non è una serie di lampioncini disposti in ordine simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere esprimere questo spirito mutevole, misterioso e indefinito, per quanto possa mostrarsi complesso e aberrante…

La Rossanda scrittrice e la grande storica dell’arte che sarebbe potuta essere, cosa portò dentro di sé della lezione di Warburg da lei appresa con vertiginoso anticipo rispetto alla sua generazione, nonché a quelle successive? A dirlo è lei stessa, sempre in quella magistrale memoria:

Chi, come me e molti, uscì da quelle sale odorose di cera e piene di richiami per prendere parte in un mondo urlante nell’unica grande guerra che fu anche ideologica, l’avrebbe presa con la determinazione di chi sa che non tutto il mondo sta nella parte che ha scelto, eppur si deve scegliere. Ma non avrebbe dimenticato l’estensione delle acque profonde e insondate che ci circondano, la finitezza e parzialità; né perduto l’abitudine, di fronte a ogni muro, di sentire con le nocche quale vuoto cela, che ti sarà negato di conoscere.

Dalla prima pagina de il manifesto, 22 settembre 2020

Così nella vita, così nella storia-storia e così nella storia dell’arte, come la intese a diciasette anni Rossanda, nata a Pola, una città anche austro-ungarica, e che forse le fu di aiuto nel leggere i sommi storici dell’arte di lingua tedesca. In anni a venire quella stessa donna partita da Pola, dopo una sosta nient’affatto distratta a Venezia per poi arrivare a Milano, dimostrerà la sua presa intensa della lingua tedesca. Ma chissà da quale vuoto, tenuto dentro a quanto di me era “muro”, mi venne l’improntitudine di recensire per il mio giornale, il manifesto, addirittura più di un libro di Ernst Gombrich. Sì, proprio lui, che con la sua biografia di Warburg avrebbe restituito alla Rossanda “i giorni della Warburg”, intesa come Biblioteca. Come si sa all’improntitudine non c’è limite, tanto che non mi negai dall’intervistare Gombrich, cosa che feci nella caffetteria di un albergo romano.

Giunsi all’appuntamento – è più che probabile – con una certa agitazione, altrimenti non mi spiego l’incosciente disinvoltura che mi portò a dire al massimo studioso dei rapporti tra arte, percezione e realtà quanto mi era successo durante il viaggio in treno verso Roma, e cioè di aver visto dal finestrino un fagiano che se ne stava fermo sulla scarpata. L’irrefutabile commento gentilmente ironico di Gombrich:

Lei crede di aver visto un fagiano, ma non può essere sicuro di aver visto veramente un fagiano.

Subito dopo ebbi l’immeritato onore di ascoltare dall’antico allievo di Aby Warburg quanto da lui ricordato nel primo capitolo del suo saggio L’immagine e l’occhio, donandomi in tal modo il privilegio, a pochi passi da Piazza Navona, di una sua breve lezione.

Gombrich:

Camminando per la campagna m’accadde di vedere un vecchio cancello di legno conficcato in mezzo a uno stagno. Mi venne in mente quell’affascinante rompicapo visivo che è il trapezoide girevole di Adalbert Ames, e a un tratto mi resi conto di essere nell’impossibilità di precisare la forma o la posizione del cancello (…). Quel momentaneo turbamento mi ha aiutato a capire perché si preferisce non badare troppo all’instabilità delle nostre letture del mondo. 

Ora è giunto il momento di concludere, ridando la parola alla warburghiana Rossanda che, essendosi immersa nuovamente, ma nel 1984, nelle instabili, divisive, spezzature della Scuola di Warburg e dei suoi molteplici universi, ritrova il filo di un ordito che aveva iniziato a immaginare in una biblioteca nell’inverno del 1942:

Questa scoperta d’un dualismo irriducibile se non a “intuizione” della ragione, dilemma che può dividerti fino alla schizofrenia, fu anche, forse, il nocciolo di quell’ultima grande epoca del pensare che nasceva con la morte di ogni metafisica e il dilagare di sondaggi di profondità in cui la ragione scopriva altro da sé, e non poteva più permettersi di riassorbirlo, e doveva rilegittimarsi non come verità ma come metodo finito e critica di metodo finito. 

 L’omaggio di compagni e amici a Piazza Ss. Apostoli (24 settembre 2020). Sul palco, da sinistra, Filippo Maone, Norma Rangeri, Aldo Tortorella, Luciana Castellina, Ninetta Zandegiacomi.
RR e il suo inverno felice in cui si scaldò all’ultima grande epoca del pensare ultima modifica: 2020-09-25T16:00:21+02:00 da FRANCO MIRACCO
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