Due uomini. Bianchi. Eterosessuali. Di settantaquattro e settantasette anni. Vista così, la sfida tra Donald Trump e Joe Biden, è un passo indietro nella storia, almeno in termini di rappresentatività. Sorge infatti spontaneo chiedersi e dubitare su quanto questi due quasi ottuagenari siano effettivamente in grado di rappresentare e, ancora di più, comprendere l’America del Metoo, di Black Lives Matter, dei latinos o della comunità LGBTQ+. L’America delle cosiddette “minoranze”, che (r)esiste e reclama spazio e voce per i suoi esponenti.
Lo si era visto già due anni fa, con l’onda rosa, anzi arcobaleno, che aveva segnato le elezioni di medio termine del 2018, quando in America si era votato per il rinnovo del Congresso, delle assemblee elettive dei singoli stati e di alcuni governatori. Ci furono tante “prime volte”, con nativi americani, musulmani, latinos, immigrati, millenials e LGBTQ+ che sbarcavano al Congresso e in altre assemblee elettive, dando un nuovo volto e nuova linfa alla politica americana. Allora, particolarmente importante fu il successo delle candidate donne, che riuscirono a tingere di rosa centoventisette seggi (centodue nella Camera dei rappresentanti e venticinque in Senato). Il record precedente era centoquattro.
Il 3 novembre si riparte. Oltre a scegliere il nuovo presidente, gli americani saranno infatti chiamati a votare per il rinnovo dei quattrocentotrentacinque membri della Camera dei rappresentanti, di trentacinque seggi al Senato (su un totale di cento), dei governatori di undici stati e di due territori, e di varie assemblee elettive nazionali e locali.
L’exploit del 2018 promette di ripetersi. Ai nastri di partenza sono tanti i candidati che rappresentano un’America plurale. Tra loro saranno presenti anche le deputate della “Squad”, il celebre quartetto di esponenti progressiste – Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Ayanna Pressley – tutte sotto i cinquant’anni, entrate nel Congresso due anni fa cavalcando l’onda anti-Trump. Nei mesi scorsi le quattro sono infatti riuscite a staccare il biglietto per partecipare alla nuova tornata elettorale, imponendosi nelle rispettive primarie democratiche.

A novembre, il divario di genere nella politica americana promette di ridursi ulteriormente. Ci sono già alcuni dati che fanno sperare. Le donne che quest’anno si sono presentate per conquistare un posto al Congresso (incluse quelle che hanno preso parte alle primarie, perdendole) sono cinquecentottantatré. Più delle quattrocentosettantasei del 2018 (un dato che allora rappresentava già il 59 per cento rispetto al record precedente). Trecentouno si sono imposte durante le elezioni primarie e parteciperanno alla consultazione di novembre. L’aumento nel numero di candidate donne viene principalmente da due gruppi: i neri e i Repubblicani.
Centotré donne nere, africano americane o di origini multirazziali, si sono presentate quest’anno. Ben quarantaquattro di esse hanno vinto le primarie. Trentacinque concorreranno per i democratici, nove per i repubblicani. La novità è in termini numerici – per dare un’idea, nel 2012 erano solo quarantotto le donne nere a tentare la corsa al Congresso, contro le centotré attuali – ma non solo. Quest’anno molte di loro cercheranno la vittoria in distretti congressuali abitati per la maggior parte da cittadini bianchi. Una dinamica nuova, che aveva cominciato a fare capolino già due anni fa.

Il riferimento è a Lauren Underwood, donna nera, di trentatré anni, con studi in infermieristica, che nel 2018 divenne deputata per il quattordicesimo distretto congressuale dell’Illinois, battendo di cinque punti percentuali il repubblicano Randy Hultgren, che fino ad allora aveva occupato quel seggio. Una vittoria altamente simbolica, perché avvenne in una circoscrizione elettorale dove i neri sono meno del 3 per cento. A novembre, Underwood cercherà di conservare il suo posto, correndo contro lo sfidante repubblicano Jim Oberweis.
Nella prossima tornata elettorale, le sfide per i candidati africano americani sono tante e trascendono le questioni di genere. Non ci sono solo Kamala Harris, la candidata democratica alla vicepresidenza, e le centotré donne nere in corsa per un posto al Congresso.
Al Senato, si gioca una partita tutta particolare. Nella storia di questa istituzione, sono 1.307 gli uomini e le donne ad aver occupato la carica di senatore. Di questi solo dieci sono neri. Si è dovuto attendere il 2013 per vedere due africano americani sedere al contempo in Senato. Al momento ce ne sono tre: Cory Booker, Tim Scott e Kamala Harris. Un numero che potrebbe però considerevolmente aumentare, dato che ben sei africano americani sono riusciti a conquistare la nomination per presentarsi alla sfida del 3 novembre. Cinque di loro sono democratici: Marquita Bradshaw in Tennessee, Mike Espy in Mississippi, Jamie Harrison in South Carolina, Adrian Perkins in Louisiana e Raphael Warnock in Georgia. Uno, invece, è repubblicano. Si tratta di John James, che correrà in Michigan. A questi sei si aggiunge anche Cory Booker, il cui seggio è in gioco in questa tornata elettorale.

Tornando alle candidate donne, si sta muovendo qualcosa anche tra i repubblicani, tradizionalmente meno attenti alle questioni di genere. Al momento, infatti, delle centodue donne che siedono alla Camera dei rappresentanti, solo tredici di esse sono espressione del Grand Old Party. Al Senato, la differenza è meno evidente, con diciassette senatrici democratiche e nove repubblicane. In ogni caso, questo ritardo potrebbe però presto ridursi. Quest’anno, le candidate repubblicane che si sono presentate per il Congresso sono duecentoventisette, quasi il doppio rispetto alle centoventi del 2018. Di esse, novantacinque concorreranno per un seggio a novembre. Tuttavia, per loro non sarà così facile, dato che quasi la metà di esse si presenta in distretti che sono considerati roccaforti democratiche.

Un altro segmento demografico per cui molto è in gioco durante le prossime elezioni è la comunità ispanica. I cosiddetti “latinos” sono decisivi, in quanto costituiscono la più grande “minoranza elettorale”, con 32 milioni di aventi diritto al voto. Anche loro possono contare su un trend positivo.
Nel 2018, i candidati latinos aiutarono i Democratici a conquistare la Camera dei rappresentanti. In particolare, il numero delle deputate di origini ispaniche aumentò di cinque, grazie a Alexandria-Ocasia Cortez, la più giovane donna di sempre a essere eletta al Congresso, Debbie Mucarsel-Powell, prima sudamericana a essere eletta, Veronica Escobar e Sylvia Garcia, prime deputate con origini ispaniche per il Texas, e Xochitl Torres-Small, deputata del New Mexico. Anche quest’anno, potrebbe esserci una serie di “prime volte”. Tra le candidate in lizza ci sono: Candace Valenzuela, che punta a diventare la prima “afro-latina” eletta al Congresso, Chistina Hale, in corsa per diventare la prima “latina” eletta al Congresso per lo stato dell’Indiana, Michelle De La Isla, che potrebbe fare la stessa cosa in Kansas e Georgette Gómez (California), che, in caso di vittoria, sarà la prima deputata latina membro della comunità LGBTQ+.

Gómez non è l’unica candidata che appartiene al contempo a una minoranza sessuale o di genere e a una minoranza etnica. A New York ci sono Mondaire Jones e Ritchie Torres, che concorrono in due distretti differenti e che potrebbero diventare i primi due africano americani, apertamente omosessuali, a servire al Congresso. In particolare, Torres sarebbe il primo rappresentante gay che combina origini africano americane e latine.
In Texas, Gina Ortiz Jones, potrebbe fare la storia, diventando non solo il primo membro dichiarato della comunità LGBTQ+ a rappresentare lo stato, ma anche la prima lesbica di origini filippine a servire al Congresso.

Molti altri stati hanno l’occasione di eleggere i loro primi rappresentanti LGBTQ+. Tra questi ci sono: in Indiana, Pat Hackett, candidata lesbica; in Michigan, Jon Hoadley, candidato gay; nello stato di Washington, Beth Doglio, una donna bisessuale, che andrebbe a colmare il vuoto lasciato alla Camera dei rappresentanti da Kyrsten Sinema, anche lei donna bisessuale, diventata due anni fa senatrice dell’Arizona.
Infine, un’altra importante “prima volta” sarà in Delaware: qui Sarah McBride è pronta a diventare il primo senatore apertamente transgender dello stato, oltre che il primo senatore transgender in tutti gli Stati Uniti.

La diversità nelle urne riflette la natura composita del paese. In altre parole, anche questa è l’America! L’elemento singolare, progressista, dell’esperienza americana è la visibilità politica che stanno acquisendo le cosiddette minoranze. Non si tratta solo di intervenire in maniera simbolica sullo spazio politico, facendo piano piano a pezzi secoli di predominio del maschio bianco. La presenza di tanti candidati delle minoranze nelle urne è la garanzia o, perlomeno, la promessa, che le questioni legate alle loro comunità verranno prese in considerazione dalla giusta prospettiva. Secondo la sensibilità di chi fa parte di un gruppo discriminato e ha vissuto questa discriminazione sulla propria pelle.
Le donne sono meglio rappresentate quando ci sono più politiche donne? Certo! E un discorso analogo vale per i membri di minoranze etniche, sessuali e di genere. Anche per questo, c’è così tanto in gioco il prossimo 3 novembre. Non solo alle elezioni presidenziali ma anche e soprattutto nella miriade di scrutini che attraverseranno il paese. Cambiandone, probabilmente, il volto. Facendo compiere all’America un passo avanti nella storia.

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